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Nel segno del “Sessantotto”
di Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi*
Abstract. Questa introduzione apre il numero monografico tracciando un percorso che parte dal Sessantotto per arrivare al neoliberalismo come sua risposta più articolata, senza la pretesa di darne un quadro esaustivo bensì per illuminare la complessità e la radicalità di una cesura. In questa ricostruzione il Sessantotto comincia molto prima, tanto che non è possibile stabilirne una data e un luogo d’inizio precisi. La contestazione dell’autorità, la messa in discussione del patriarcato, l’attivazione di soggetti eterogenei e spesso “imprevisti”: la critica spietata dell’esistente produce una crisi di legittimità che investe lo Stato, la società, il capitalismo e la scienza. In questo senso il Sessantotto si è dato come rivoluzione incompleta e anche per questo mai terminata
1. Il “Sessantotto”, a cui è dedicata questa sezione di «Scienza & Politica», non può certo essere ridotto a un anno solare – e deve dunque necessariamente essere scritto tra virgolette. È cominciato molto prima di quell’anno e non è possibile stabilirne una data e un luogo d’inizio assoluti. Dien Bien Phu e la battaglia d’Algeri, l’avvio della decolonizzazione in Africa con l’indipendenza del Ghana, le poteste di Berkeley e i freedom riders nel sud degli Stati Uniti, il movimento del black power, la conferenza tricontinentale a L’Avana, le lotte operaie in Italia nei primi anni Sessanta, l’instaurazione della Comune di Shangai all’inizio del 1967, la manifestazione del 2 giugno di quello stesso anno contro lo Scià di Persia a Berlino, durante la quale la polizia uccise lo studente Benno Ohnesberg: sono solo alcune istantanee, utili per dare conto della complessità della genealogia del Sessantotto per quanto riguarda sia le sue geografie sia le sue determinazioni soggettive. La lista potrebbe continuare, e sarebbe altrettanto facile nominare alcuni momenti iconici dell’anno 1968 – dalla “battaglia di Valle Giulia” tra studenti e polizia a Roma alle barricate del Maggio parigino, dal massacro di Tlatelolco in Messico il 2 ottobre alle mobilitazioni studentesche in Polonia, Jugoslavia e Giappone, dai ghetti in fiamme dopo l’omicidio di Martin Luther King ai pugni guantati di nero alzati al cielo da Tommie Smith e John Carlos durante le Olimpiadi di Città del Messico, dall’assalto al grattacielo di Springer a Berlino alle rivolte studentesche, operaie e contadine a Calcutta e nel Bengala occidentale. E ancora: il Sessantotto è andato ben oltre la fine dell’anno solare, per esempio con il Cordobazo, la grande insurrezione di operai e studenti che destabilizzò la dittatura di Onganía in Argentina nel maggio del 1969, con la rivolta operaia in Corso Traiano a Torino, seguita dall’Autunno caldo nel 196970, con la tumultuosa crescita in tutto il mondo del femminismo, con il trionfo dei Vietcong nel 1975, con il movimento del ‘77 in Italia.
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Lenin visto da Marx
di Antonio Negri
Perché ho scelto quest’argomento, «Lenin visto da Marx», per rispondere alla domanda di discutere il “Lenin dei filosofi”? Perché quando guardavo a quei filosofi che conoscevo e amavo come Lukacs o Gramsci o Althusser, mi sono accorto che sovrapponevano Marx e Lenin quasi automaticamente – in maniera entusiasta e pragmatica. D’altro lato anch’io, quando considero l’altra parte di me stesso, il militante, rispetto al filosofo che umilmente sono, non riesco immediatamente a separare Lenin da Marx. Il “marxismo-leninismo” fu cosa indissolubile nella Bildung comunista del XX secolo. E allora mi sono chiesto: come avrebbe Marx guardato a Lenin? Se il “marxismo-leninismo” che abbiamo conosciuto nel secolo scorso, è divenuto un’atroce farsa dogmatica – gli stessi Marx e Lenin ce lo concederebbero – essi stavano comunque insieme nella testa di compagni che le rivoluzioni le hanno fatte: come ha potuto avvenire? Vorrei dunque guardare Lenin, colui che la rivoluzione l’ha fatta, dal punto di vista di Marx, di colui che la rivoluzione l’ha pensata, e lo farò dal mio punto di vista, convocando altri marxisti di tanto in tanto ad accompagnarmi.
Come procedere? Mi è sembrato utile seguire due vie. Nella prima farò il tentativo di svolgere il confronto Marx-Lenin in un quadro sincronico, guardando in un solo specchio come se essi affrontassero questi cinque problemi (è il massimo che mi sentivo di discutere in maniera sommaria nel tempo che mi è concesso): 1) come si confrontavano al materialismo ed alla dialettica? 2) ed alla fabbrica? Cioè al lavoro vivo ed all’organizzazione del lavoro? 3) ed al mercato mondiale e all’imperialismo? 4) ed allo Stato? 5) ed alla definizione del comunismo?
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La resistibile ascesa del secondo Matteo
di Leonardo Mazzei
Il 30 maggio 2014, cinque giorni dopo il suo grande successo alle europee, scrissi un articolo all'epoca controcorrente: «La resistibile ascesa di Matteo Renzi». Pare passata un'era geologica, ed invece non sono neppure cinque anni... Al tempo i più gli pronosticavano un ventennio al potere, oggi sappiamo tutti com'è andata.
Adesso c'è un altro Matteo. Non ha ancora i voti, ma solo sondaggi. Eppure son quasi tutti convinti che abbia anche lui un ventennio davanti. Non s'offendano costoro, ma chi scrive queste righe non lo crede neanche un po'.
Grandi le differenze tra il primo e il secondo Matteo. Il primo amato dalle èlite, il secondo no; il primo alla guida di un partito eurista, il secondo alla testa di una forza passata (pur contraddittoriamente) dal localismo al nazionalismo. Capo di un governo quasi monocolore il primo, ministro dell'Interno di un governo di coalizione il secondo. E potremmo continuare.
Assai diverso anche il contesto. Nel 2014 la riscossa delle èlite sembrava ancora possibile, ma solo con qualche invenzione simil-populista. Da qui il passaggio dal grigio pisano Letta al pirotecnico fiorentino Renzi. Oggi la partita si è spostata nel campo populista, nel quale il progressivo prevalere della sua ala destra sembra ai più inarrestabile. Ma è davvero così?
Non lo penso affatto. La crisi italiana è tutt'altro che risolta, ed il Salvini non ha proprio la stoffa del leader - dello "statista" neanche a parlarne - necessaria ad affrontare le prossime tempeste. Ha la forza ed il consenso dell'uomo odiato dalle èlite, ma non pare avere un briciolo di strategia che vada oltre il prossimo appuntamento elettorale.
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Il lato ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune
di Piergiorgio Donatelli
Qual è il significato filosofico del modernismo, come esperienza artistica e letteraria a cavallo fra Otto e Novecento? Se lo è chiesto, nel suo ultimo libro (Il lato ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune, il Mulino, 2018), Piergiorgio Donatelli, che ringraziamo, insieme all'editore, per averci concesso di pubblicare l'introduzione al volume
1. La crisi della ragione
Questo libro parte da Wittgenstein e dai fili teorici che è possibile tessere insieme alla luce della sua impostazione per mettere a fuoco una problematica che chiama modernista, dove il riferimento è da una parte al modernismo letterario e artistico austriaco tra i due secoli e dall’altra alla nozione di modernismo elaborata da Stanley Cavell e che egli riferisce specificamente alla sua concezione della filosofia.
Aldo Giorgio Gargani ha dato una descrizione esemplare di tale problematica in molti suoi lavori, anche se non con questo nome. Vorrei cominciare con la sua analisi per presentare l’impostazione modernista, tenendo presente in particolare il volume Crisi della ragione[1]. Gargani ricostruisce una prospettiva che riflette chiaramente la centralità di Wittgenstein e che lavora più estesamente sulla crisi e le svolte intraprese in molti campi del sapere tra i due secoli, principalmente da personalità intellettuali dell’impero asburgico nonché da autori che si collocano in altri contesti culturali europei. È il grande episodio – o, meglio, i molti episodi – di contestazione dei modelli dominanti che arrivano dalla modernità e che sono messi in discussione da nuovi modi di pensare alla filosofia, alla fisica, alla matematica, alla psicologia, alla musica, ma anche alla città, al mobilio, allo stile della conversazione e delle relazioni umane.
Gargani presenta una linea di ricostruzione storica che documenta la crisi di un modello di sapere classico formatosi nella prima modernità.
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Reddito di cittadinanza
Dalle mirabolanti promesse al varo di un sussidio “bifronte”
di Norberto Fragiacomo
Accingendomi alla stesura di questa nota, sfoglio con la sinistra il testo del “Decreto legge disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni[1]” nella sua versione (mi auguro!) «definitiva»[2]. Parlare di definitività a proposito di un Decreto legge, fonte provvisoria per natura, è senz’altro inappropriato, ma fra i lasciti del renzismo annoveriamo il proliferare di bozze testuali che si inseguono e si sovrappongono, complicando la vita già di per sé dura dell’interprete, alle prese con norme scritte sempre peggio e raramente intelligibili: l’istituto oggetto d’analisi dovrebbe comunque avere oramai acquisito una sua precisa fisionomia, ed eventuali future modifiche sarebbero cosmesi normativa.
Un paio di settimane fa, su La7, il giornalista Massimo Giannini ha parlato, a proposito del provvedimento, di “cambio di paradigma”, riconoscendo ai pentastellati il merito di aver mantenuto le loro promesse elettorali (cosa che in Italia non è avvenuta praticamente mai nell’ultimo trentennio!). Pur nutrendo seri dubbi sul carattere più o meno rivoluzionario della misura non posso non apprezzare l’onestà intellettuale esibita da Giannini, che pochi emuli ha trovato a «sinistra»: per PD e affiliati il reddito è da buttare (lo stesso vale ovviamente per quota 100, cui nuoce a parer mio l’infelice formula «pensionamento anticipato» contenuta in premessa, che la qualifica come eccezione alla regola, restringendone anche sul piano lessicale la portata innovativa).
Intendiamoci: un socialista o un comunista avrebbero parecchio da ridire sulla filosofia che sta alla base della manovra, poiché essa prevede un sostegno statale che è benevola ma condizionata concessione ai bisognosi anziché riconoscere un pieno diritto al lavoro a cittadini in temporanea, incolpevole difficoltà – e tutti i richiami in premessa al «lavoro» non scalfiscono l’impressione che il reddito sia in fondo un paternalistico aiuto dall’alto.
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Trasformare i gilet gialli in una scommessa politica
Appunti di inchiesta di un intervento all'interno dei nascenti gilet gialli italiani
di ***
0. A due mesi dall'inizio della mobilitazione dei Gilet Jaunes francesi, l'intensità e i numeri scesi in piazza sembrano tenere, scavalcando le vacanze natalizie senza particolari ansie e rispondendo colpo su colpo ai tentativi di repressione da una parte e agli ammiccamenti governativi in cambio di qualche briciola dall’altra; anzi la percezione dal di qua delle Alpi è che si viva un costante sviluppo e articolazione della lotta. La forza che il movimento dei Gilet Jaunes ha espresso e sta tuttora esprimendo in Francia, ha suscitato interesse anche nel nostro paese, facendosi catalizzatore del malcontento sociale latente.
Malcontento, frustrazione e rabbia che per ora, con crescenti difficoltà, il governo gialloverde sta riuscendo a trattenere, lasciando però già intravedere le prime crepe.
Il largo ventaglio di protesta che il gilet rappresenta ha posto al centro una critica radicale al modello di sviluppo economico, di gestione del potere decisionale “democratico” statale e alla qualità della vita. Questioni che soprattutto dall'inizio della crisi a oggi attraversano trasversalmente buona parte del continente europeo e del mondo, incarnandosi di volta in volta, di paese in paese, in alternative politiche anche di segno opposto, ma attingenti da un comune bacino.
Questa casacca, divenuta segno distintivo di appartenenza nel suo carattere inter-generazionale, post-ideologico e socialmente ricompositivo in termini di composizione di classe, incarna e supera quello che la maschera di Anonymous avrebbe voluto rappresentare.
Guardando all’esplosività che sta esprimendo il gilet giallo, senza lasciarci ammaliare da scorciatoie rettilinee, riteniamo che scommettere sulle possibili faglie di rottura sia comunque opportuno. Tentare un intervento politico e di costruzione materiale ci sembra tanto arduo quanto produttivo, quantomeno sul livello di preziosa inchiesta che questo spazio ci permette.
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I 5 Stelle denudano re Macron, Merkel lo riveste
Ad Aquisgrana risorge Carlo Magno e muore l'UE
di Fulvio Grimaldi
Carlo Magno contro i 5 Stelle
Supercoppa europea: 5Stelle vs Carlo Magno. Dove per il sanguinario sterminatore dei sassoni pagani, e dunque santo, che riunì Germani e Franchi sulle ceneri dell’impero romano e della civiltà classica, si deve intendere l’Asse franco-tedesco, antieuropeo, un po’ anti-Usa e soprattutto anti-italiano (finche non torna uno come Prodi o Renzi), sancito ad Aquisgrana, città dell’imperatore, sede del primo trattato De Gaulle-Adenauer, per l’egemonia nel continente, simbolo dalla potenza simbolica deflagrante. Sede anche dell’insigne Premio Carlo Magno, forse il più reazionario di tutti i premi, se si trascura qualche Nobel, conferito, et pour cause, a Bergoglio e Woytila papi.
Di Maio, al quale il rientro di Alessandro Di Battista ha fatto l’effetto di un caffèdoppio, l’ha detta grossa:
“Alcuni paesi europei, con in testa la Francia, non hanno mai smesso di colonizzare decine di Stati africani. Se la Francia non avesse le colonie africane, che sta impoverendo, sarebbe la 15esima forza economica internazionale e invece è tra le prima per quello che sta combinando in Africa. L’UE dovrebbe sanzionare queste nazioni che stanno impoverendo quei paesi. E necessario affrontare il problema anche all’ONU”.
E, mi permetto, anche davanti alla Corte Penale Internazionale, per crimini contro l’umanità, non fosse che quel tribunale-canguro, dal quale finora sono stati inquisiti soltanto persone da Lampedusa in giù, ricorda quell’altro dell’Aja che condannò a morire Milosevic, dopo non averne trovato la minima prova di colpevolezza.
Luigi Di Maio e con lui i Di Battista, Di Stefano, tanti altri e la gran parte della rappresentanza 5Stelle, sbertucciati come incompetenti e sfottuti come sovranisti, nazionalisti, cialtroni, dalla più inetta, asservita e corrotta classe dirigente e dai suoi media euro- primatisti in propaganda e fake news, hanno fatto qualcosa mai visto prima.
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La grande inversione: dalla valorizzazione alla finanziarizzazione
di Giordano Sivini
Dallo studio delle grandi trasformazioni che scandiscono la storia del capitalismo emergono, secondo Giovanni Arrighi, cicli successivi di accumulazione, attraversati ciascuno da fasi di espansione materiale e fasi di espansione finanziaria, in spazi di crescente ampiezza governati da Stati che ad ogni ciclo acquistano la supremazia sugli altri. La fase di espansione finanziaria si avvia quando i profitti derivanti dalla produzione e dai commerci cominciano a calare a causa di una competizione sempre più forte. Il capitale si riversa in forma liquida verso le agenzie dello Stato egemone che hanno la capacità di gestirla, provocando una grande redistribuzione di ricchezza in favore dei gruppi sociali dominanti.
Le trasformazioni della vita materiale non sono oggetto di considerazione da parte di Arrighi, né per la fase attuale di espansione finanziaria né per quelle del passato, quando “l’indebitamento eccessivo di Stati o dinastie (…) non si era mai esteso alla riproduzione sociale in quanto tale, diventandone l’anima”1 . Per trattarne è necessario cambiare il quadro teorico e passare da quello di Arrighi che, combinando Marx con Weber, inquadra l’evoluzione storica del capitalismo, a quello che, interpretando in vario modo Marx, si concentra sulle forme di riproduzione dei rapporti sociali determinate dal movimento del capitale attraverso la creazione di ricchezza scandita dal valore e misurata dal denaro.
Questa è la prospettiva di David Harvey, di Robert Kurz e di Ernst Lohoff, per i quali il passaggio dalla fase di espansione economica alla fase di espansione finanziaria può essere spiegata dall’inversione del rapporto tra capitale produttivo di merce e capitale produttivo di interesse.
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La lettera del Presidente, la questione del potere d’acquisto e l’euro
di Jacques Sapir
Nella lettera con cui si è rivolto ai Francesi dopo le imponenti manifestazioni dei “Gilet Gialli” – espressione dell’esasperazione dei cittadini sempre più impoveriti – Emmanuel Macron non fa cenno alla questione cruciale: la perdita del potere d’acquisto da parte dei lavoratori. L’economista Jacques Sapir spiega ancora una volta il perché di questo silenzio: finché la Francia resta intrappolata nel sistema dell’euro, alzare il livello dei salari non è possibile, perché – nell’impossibilità di svalutare la moneta – questo comporterebbe una perdita di competitività dei prodotti sui mercati esteri peggiorando il deficit commerciale del Paese. E Macron vuole restare nell’euro a ogni costo. Sapir dimostra come una svalutazione della moneta avrebbe un importante effetto redistributivo a favore dei salari più bassi. Fino a quando l’Europa – la vera Europa, l’Europa dei cittadini – potrà tollerare le follie dell’Unione europea e la dittatura della moneta unica, un sistema totalmente asservito agli interessi dei più ricchi?
* * * *
Il presidente della Repubblica ha inviato la sua “lettera ai francesi”. Un testo assai ampio, che copre molti argomenti. Eppure in questo documento, a volte inutilmente lungo, manca un argomento importante: la questione del potere d’acquisto. Questo problema non è affrontato in nessuno dei quattro punti, benché sia essenziale. Per essere più precisi, la questione è trattata, in maniera estremamente parziale, solo nell’ottica di una possibile riduzione delle tasse. Si tratta di un punto di vista molto angusto. Tuttavia, nella “lettera” c’è un’ammissione: “…perché i salari sono troppo bassi perché tutti possano vivere dignitosamente grazie ai frutti del loro lavoro…”. Questa, in effetti, è una delle cause della rabbia che è stata espressa per due mesi dal movimento dei Gilet Gialli, accanto a rivendicazioni riguardanti la democrazia.
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Cosa c’è in ballo in Venezuela col golpe Gaidó
di Gennaro Carotenuto
È perfino comprensibile che in pochi si straccino le vesti per le sorti del governo di Nicolás Maduro per molti motivi. Ma nella nomina di un antipapa ghibellino da parte di Trump e Bolsonaro, nella persona del carneade Juan Gaidó, ci sono almeno altrettanti motivi del perché sia necessario riflettere su un passaggio cruciale della storia latinoamericana del XXI secolo.
È senz’altro vero che da tempo le cose in Venezuela vadano male. Il governo Maduro – al di là delle proprie colpe e debolezze non si possono mai scontare del tutto le responsabilità di chi è al governo – non sembra avere le chiavi per uscire da una crisi che è magnificata dall’iperinflazione, di gran lunga il maggior fattore di destabilizzazione e di peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. È anche vero che negli ultimi anni, usciti dall’auge di consenso e anche economica dei migliori anni del chavismo, il successore dell’odiato negraccio dell’Orinoco, abbia operato una serie di forzature istituzionali (che definire colpi di Stato è però strumentale, della contesa AN/Costituente dirò poi). In particolare, eludendo il referendum revocatorio previsto dalla Costituzione del 1998, e che a suo tempo aveva troncato ogni discussione sulla legittimità di Chávez con un trionfo storico, ha minato quell’ineccepibilità democratica del chavismo stesso, che aveva tenuto a bada i più malintenzionati dei detrattori.
Questo può portare benissimo a considerare il governo Maduro un pessimo governo e a desiderare di cambiarlo, ma pensare di farlo attraverso un processo di regime change, o rivoluzione colorata, che è quanto sta accadendo in queste ore, giocando col fuoco di una guerra civile di un paese armato fino ai denti, contrappone a una discutibile legittimità una sicura illegittimità.
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Il franco CFA, fra 'sinistra imperiale' e 'Materialismo Storico'
Quando i marxisti si schierano col 'Negus Macron' pur di andar contro ai 5Stelle
di Matteo Luca Andriola
In questi due giorni s’è ampiamente parlato sui social network – la nuova agorà virtuale che oramai ha sostituito i vecchi spazi d’aggregazione – del cosiddetto franco CFA (originalmente franco delle Colonie Francesi d’Africa, ora “…della Comunità Finanziaria Africana”).. Il tutto è nato quando l’esponente del M5S Alessandro Di Battista, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa (Rai 1 ), nel parlare sull’annoso tema delle migrazioni, ha espresso forti perplessità su questa valuta, individuandola come uno dei motivi dei flussi migratori verso l’Europa, dicendo che
“Attualmente la Francia, vicino Lione, stampa la moneta utilizzata in 14 paesi africani, tutti paesi della zona subsahariana. I quali, non soltanto hanno una moneta stampata dalla Francia, ma per mantenere il tasso fisso, prima con il franco francese e oggi con l’euro, sono costretti a versare circa il 50 per cento dei loro denari in un conto corrente gestito dal tesoro francese…. Ma soprattutto la Francia, attraverso questo controllo geopolitico di quell’area dove vivono 200milioni di persone che utilizzano le banconote di una moneta stampata in Francia, gestisce la sovranità di questi paesi impedendo la loro legittima indipendenza, sovranità fiscale, monetaria, valutaria, e la possibilità di fare politiche economiche espansive.”
L’esponente grillino ha poi strappato in diretta televisiva una banconota di 10mila franchi CFA, sostenendo che, finché non saranno tolte queste ‘manette’ all’Africa mai si risolverà l’annoso problema delle migrazioni. È seguita un’esternazione simile da parte di Giorgia Meloni, leader della destra populista Fratelli d’Italia, erede del Msi e di An. Il franco CFA, indica due valute che accomunano 14 stati africani quali Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo, che costituiscono la cosiddetta “zona franco”, tutti, eccezion fatta per Guinea-Bissau e Guinea Equatoriale, ex colonie francesi. Alcuni degli stati sono membri dell’Uemoa, altri della Cemac , usando tali valute.
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Oggi Merkel e Macron firmano la fine dell’Unione Europea
Federico Ferraù intervista Alessandro Mangia
Oggi ad Aquisgrana Emmanuel Macron e Angela Merkel firmano un nuovo Trattato di cooperazione e di integrazione franco-tedesco. Con buona pace di tutti gli europeisti
E’ stato il grande assente dalle cronache politiche di questi giorni, ma è il fatto più rilevante nella politica europea dopo la Brexit e, “in qualche misura, ne è una conseguenza diretta” spiega Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano. Oggi ad Aquisgrana Emmanuel Macron e Angela Merkel firmeranno un nuovo Trattato di cooperazione e di integrazione franco-tedesco. Una firma che dovrebbe sollevare più di un interrogativo nel ceto “pensante” dell’europeismo nostrano: proprio nella città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno, Merkel e Macron, alla bisogna sovranisti veri, sottoscrivono un trattato politico-militare che “formalizza quell’idea di Europa core che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario”. E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? Basta leggere il testo.
“Quel che è certo – spiega Mangia – è che questo Trattato accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea. Il Regno Unito è stato, fino al 2016, il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici. Usciti di scena gli inglesi, che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso, gli equilibri di potenza in Europa sono saltati, il quadro è mutato, e lo spazio europeo si è improvvisamente contratto”.
* * * *
E in che modo questo riequilibrio spiegherebbe l’operazione franco-tedesca?
Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna e il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto. Il Trattato è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo.
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Rileggendo Marx: nuovi testi e nuove prospettive
di Michael Heinrich*
Permettetemi di iniziare con un’osservazione personale sulla mia lettura de Il capitale. Sono circa 43 anni che leggo Il capitale, e devo dire che non mi sono ancora annoiato. Leggerlo è come compiere un avventuroso viaggio intellettuale, ma per godere appieno di quest’esperienza è richiesto un tipo di impegno diverso da quello a cui ci ha ormai abituato il sistema universitario europeo, per il quale «leggere» significa solamente individuare in maniera grossolana alcune delle tesi principali esposte in un’opera.
Leggere Il capitale significa comprenderne la struttura argomentativa, i diversi livelli di astrazione e, non da ultimo, per un autore come Marx, riconoscere il ruolo giocato dalle metafore all’interno del testo. Marx non ha utilizzato come fonti solo economisti, ma anche filosofi, teologi, e scrittori come Shakespeare e Goethe. Non si tratta solo di abbellimenti destinati al pubblico più colto: molte di queste metafore sono cruciali per comprendere i ragionamenti marxiani.
Di seguito, parlerò in primo luogo di una nuova interpretazione di Marx, e poi di alcuni nuovi testi e intuizioni che potremmo ricavare dalla nuova MEGA.
1. Le vecchie interpretazioni
Se si parla di nuove interpretazioni, devono certamente essercene di vecchie. Le vecchie interpretazioni che ho in mente, sono le letture de Il capitale dominanti nella prima metà del XX secolo. Queste vecchie letture dipendevano dall’intera situazione politico-sociale, dallo stato delle lotte di classe e così via, ma mi limiterò a circoscrivere tre delle caratteristiche che le hanno contraddistinte.
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Lavoro alla spina e welfare à la carte
di Alessandro Somma
Il saggio che segue introduce il volume, a cura di Alessandro Somma, “Lavoro alla spina, welfare à la Carte. Lavoro e Stato sociale ai tempi della gig economy” (Meltemi). Si occupa tra l’altro della sentenza con cui il Tribunale di Torino ha respinto le richieste dei raider di Foodora di riconoscere il loro rapporto di lavoro come subordinato: richiesta parzialmente accolta dalla sentenza della Corte di appello dello scorso 11 gennaio
1. Dalla catena di montaggio all’economia dei lavoretti
Alcuni anni or sono l’Economist, noto settimanale nato nella seconda metà dell’Ottocento per promuovere l’ideologia del libero mercato, ha dedicato l’articolo di copertina alla cosiddetta economia on demand, celebrandola come una sorta di completamento della rivoluzione iniziata al principio del Novecento con l’introduzione della catena di montaggio. Quest’ultima, utilizzata per la prima volta nella produzione di autoveicoli da Henry Ford, avevo reso accessibile a un largo pubblico un bene fino ad allora considerato di lusso e dunque precluso ai più. Allo stesso modo un numero di imprese innovative in crescita esponenziale sta trasformando le abitudini di consumo con riferimento a una vasta gamma di servizi un tempo esclusivi: è il caso del noleggio con autista fornito da Uber, della pulizia della casa realizzata attraverso Handy, della fornitura di pasti a domicilio recapitati da SpoonRocket, o della consegna della spesa assicurata da Instacart. Conclusione: “a San Francisco una giovane programmatrice di computer può già vivere come una principessa”[1].
Le imprese protagoniste di questa rivoluzione, chiarisce l’articolo dell’Economist, possono fornire servizi a basso costo sfruttando le potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche. Esse infatti “uniscono potere dei computer e lavoro freelance”, riuscendo così a “suddividere compiti complessi nelle loro singole componenti e a subappaltarle a specialisti in giro per il mondo”. Il tutto contribuendo a ridisegnare la geografia politica dell’umanità, finalmente non più divisa, come inteso da Karl Marx, tra i ricchi proprietari dei mezzi di produzione e i poveri che lavorano per loro.
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Crisi capitalistica, questione europea
Per l’autonomia culturale e un nuovo internazionalismo del movimento operaio
di Alexander Höbel
1. Premessa
Qualche mese fa, come “Marxismo Oggi” online, decidemmo di avviare una discussione sulla questione europea, ma più in generale sul quadro internazionale, le dinamiche della crisi e le possibili strategie del movimento dei lavoratori per rispondere a tale quadro, in cui il rischio che il capitale trascini nella sua crisi anche i suoi antagonisti storici appare sempre più concreto.
All’apertura del dibattito, con un impegnato saggio di Emiliano Alessandroni (http://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/275-economicismo-o-dialettica-un-approccio-marxista-alla-questione-europea), corrispose sui social network qualche scomposta e confusa polemica, condotta sulla base della logica binaria bianco/nero, amico/nemico, con un approccio insomma agli antipodi del metodo dialettico. Su tale tipo di atteggiamenti, che hanno già prodotto fin troppi danni nella storia del movimento comunista, si può solo commentare che essi sono parte del problema, ossia della difficoltà del movimento operaio di individuare una via d’uscita dalla grave situazione in cui si trova.
Per arricchire il confronto, oltre a ospitare vari interventi esterni alla redazione (Fosco Giannini, Domenico Moro), abbiamo anche ripreso contributi apparsi in altre sedi, dal saggio di Andrea Catone sui mutamenti del quadro mondiale, gli Usa di Trump, la Ue e l’Italia, a un articolo di Emiliano Brancaccio contro le “sinistre codiste”. Il dibattito, naturalmente, è appena agli inizi, ed è opportuno che esso continui a svilupparsi, nel reciproco rispetto e in modo costruttivo. E tuttavia qualche osservazione è possibile fare sin d’ora.
2. Una crisi di lunga durata
In primo luogo, credo che si debba fare un passo indietro dal punto di vista cronologico-storico, che può servirci a inquadrare meglio la questione anche sul piano teorico.
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Crescita o recessione, narrazioni e prospettiva storica
di Roberto Romano
Se la crescita è “misurabile”, stagnazione e recessione si prestano a diverse interpretazioni. Ma come mai le stime della Commissione tra il 2015 e 2018 per l’Italia sono sistematicamente più basse rispetto alla crescita effettiva? E a prendere sul serio le previsioni Bankitalia 2019 sarebbe da suonare un allarme rosso. Perché non scatta?
Preambolo
La discussione relativa alle prospettive economiche del Paese e dell’Europa, con tutte le implicazioni dal lato della sostenibilità dei conti pubblici, è viziata da un approccio ragionieristico dei conti pubblici. Sebbene i conti pubblici siano legati all’andamento del reddito1, i compiti dell’economia pubblica non possono essere piegati alla sola sostenibilità dei conti pubblici. Se questa è poi vincolata ai così detti vincoli del Fiscal Compact, l’economia pubblica rinuncia al suo ruolo storico di governo dello sviluppo. Le recenti stime della crescita del PIL, particolarmente severe per il 2019, dovrebbero suggerire più di una cautela. Infatti, se la dinamica del PIL per il 2019 è caduta in soli due mesi da una prospettiva di crescita dell’1% a 0,6% (Banca Italia), più che di sostenibilità economica dei conti pubblici, la politica (economica) dovrebbe predisporre delle misure tese a sostenere la crescita per evitare l’avvitamento di tutto il sistema produttivo, industriale e del lavoro. In altri termini, le proiezioni di crescita per il 2019 così basse sono un allarme per il sistema economico e non per i conti pubblici. Sebbene Banca Italia e Commissione Europea abbiano segnalato un significativo rallentamento del PIL, l’esito di questa proiezione non può essere quella di prefigurare delle manovre correttive per garantire i saldi finanziari. Se le Istituzioni del Capitale europee e nazionali registrano un avvitamento del sistema economico così veloce, con dei sospetti rispetto alla tempistica2, dovrebbero essere le prime a prefigurare e suggerire delle misure espansive. Il 2007 e il 2011 dovrebbero aver ben insegnato qualcosa circa gli effetti negativi dell’austerità espansiva. Sebbene caduta nel dimenticatoio la lezione di R. A. Musgrave, padre di tutti gli economisti pubblici, i compiti della pubblica amministrazione sono ancora validi.
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Venezuela. L’Italia non sia complice del colpo di stato. Sabato manifestazioni
di Redazione Contropiano
- Sul colpo di stato in Venezuela anche nel nostro paese si vanno delineando posizioni dirimenti. C’è chi, come lo Spi Cgil o gli europeisti di destra o di sinistra, sostengono il rovesciamento del governo bolivariano e di Maduro, e c’è chi sostiene la piena legittimità del governo del Venezuela e delle esperienze progressiste in America Latina. Sul come ci si posizionerà in questo frangente deriveranno conseguenze sul piano politico anche nel nostro paese.
- Sabato 26 gennaio alle ore 12.00 è stata convocata una manifestazione di solidarietà con il governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Appuntamento in via Tartaglia davanti all’ambasciata venezuelana. Anche a Milano sempre sabato ci sarà una manifestazione di solidarietà al consolato del Venezuela.
Pubblichiamo qui di seguito alcuni comunicati che prendono apertamente posizione contro il golpe il Venezuela.
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No al Golpe contro il Venezuela Bolivariano. L’italia non deve essere complice di questo crimine
di Potere al Popolo
Il 23 gennaio 2019 si sono materializzati a Caracas i piani orchestrati in queste settimane a Washington. Guaidò, un semisconosciuto appartenente al partito Voluntad Popular, nominato lo scorso 5 gennaio Presidente della Asamblea Nacional (il Parlamento venezuelano, ritenuto illegittimo dal Tribunal Supremo de Justicia per aver incorporato tre parlamentari accusati di aver comprato voti), si è autoproclamato legittimo presidente del Venezuela. Pochi minuti ed è arrivata l’investitura ufficiale di Trump, dopo che già il giorno precedente era giunta quella del suo vice, Mike Pence.
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Le critiche, la nostra risposta
di Redazione
L'articolo di Piemme sul "decretone" del governo ha suscitato diversi commenti critici, proviamo a rispondere come redazione
Le critiche che ci vengono rivolte sono fondamentalmente due. La prima riguarda il giudizio sulle due misure prese, "quota 100" e Reddito di cittadinanza (Rdc). La seconda, più politica, è una critica al "sostegno critico" al governo gialloverde ad 8 mesi dalla sua nascita.
Sul primo punto — "quota 100" e Reddito di cittadinanza (Rdc) — bisognerebbe innanzitutto distinguere tra la critica alle misure del governo e quella al nostro giudizio politico su di esse. I commentatori tendono a non operare questa distinzione, ma in ogni caso la sostanza delle critiche è chiara: "il Rdc così come uscito nel decreto è solo un intervento caritatevole ed assistenziale di cui pochi usufruiranno". Esso andrebbe perciò respinto sia per la sua inadeguatezza, sia per la sua natura liberista.
Si tratta di una critica fondata, che ha dalla sua diversi argomenti, fatta da persone (anche se talvolta anonime) che sappiamo non essere animate da visioni pregiudiziali, che arriva tuttavia a conclusioni politiche che consideriamo errate.
Entriamo dunque nel merito, notando però una curiosità, forse rivelatrice assai. Tutte le critiche sono rivolte al Rdc, nessuna a "quota 100". Ora, siccome non pensiamo che i commentatori siano dei leghisti, il problema sta probabilmente altrove. Dove, ci arriveremo con il ragionamento.
Ha scritto Piemme nell'articolo contestato:
«Non ci sfuggono di certo gli enormi limiti delle due misure simbolo dei "populisti". Dovessimo fare l'elenco delle loro evidenti criticità supereremmo forse l'armata dei detrattori. Tuttavia, al netto di questi enormi limiti, queste due misure vanno nel senso di invertire le politiche austeritarie che vengono avanti da quasi trent'anni in nome del dogma liberista del pareggio di bilancio».
Sembrerà strano, ma se diciamo "profondi limiti" intendiamo profondi limiti.
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Francia Atto X: premesse, sviluppi e prospettive
di Giacomo Marchetti
La settimana che ha preceduto l’Atto X ha visto l’inizio del “Grand Débat” proposto da Macron.
È stato un incipit piuttosto problematico visto che i luoghi in cui si sono tenuti – lunedì Grand-Bourgetheroulde nell’Eure, dove ha incontrato 600 sindaci della Normandia, e venerdì a Souliac nel Lot – sono stati teatro di mobilitazioni dei Gilets Jaunes ma non solo, e ci sono state alcune prese di posizione importanti da parte dei sindaci che hanno partecipato alle tappe di questa “consultazione”, come quello di Saint-Cirgues che durante l’incontro ha detto al presidente di smetterla nel “stigmatizzare e di disprezzare”.
In realtà il carattere “virtuale” di questo dibattito è stato più volte messo in luce, perché l’entourage governativo ha ripetutamente chiarito che non cambierà l’indirizzo delle proprie scelte, cercando di fatto di cooptare gli eletti locali nella politica di tagli alla spesa pubblica previsti, rimodulandoli a seconda di ciò che emerge, ma senza mettere in discussione i rigidi paletti di austerity nel budget economico.
Il Débat appare una operazione di cosmesi politica, un’arma di distrazione di massa tesa a ri-orientare la discussione – dalla coniugazione tra rivendicazioni politiche e sociali come si è imposta all’attenzione dell’opinione pubblica dall’inizio della marea gialla – verso temi che permettono il recupero alla destra, il cui programma, già notevolmente compatibile con le istanze che premono maggiormente all’establishment d’oltralpe – la Le Pen, per esempio, è contro l’innalzamento dello SMIC (il salario minimo intercategoriale) e il ripristino della patrimoniale – è stato ulteriormente sagomato sulle esigenze delle élites europee, annullando le critiche alla moneta unica e alla costruzione politica dell’Unione Europea.
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La scuola fabbrica di Capitale Disumano
di Rossella Latempa
Scuola, Università, Ricerca, Lavoro, Vita intera: tutto è colonizzato dal culto del Capitale Umano. L’individuo deve diventare puro investimento di sé, “performer obbligato” costretto a mettere continuamente in scena la rappresentazione che meglio risponde alle “regole dello spettacolo”: quelle del mercato. Il soggetto, tuttavia, non sceglie liberamente di partecipare alla messa in scena, ma va educato a farlo. Per questo quella del Capitale Umano “è una pedagogia” che ha bisogno delle Grandi Istituzioni Totali, “custodi della Verità”- Scuola e Università – e dei loro “sacerdoti della valutazione”. Il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) è un misto di inchiesta, riflessione teorica, ricostruzione storica, esortazione poetica alla liberazione. Una liberazione che riguarda tutti perché tutti, volenti o nolenti, in parte o completamente, siamo Capitale Umano. Quella “maestosa astrazione” che “abita la regione intermedia tra linguaggio, percezione e prassi” non è un principio naturale ma un paradosso storico, un feroce sortilegio che rende in-umani generando una guerra spietata di tutti contro tutti. Nel libro si avvicendano, pagina dopo pagina, le terre di conquista di quella “creatura fantastica” che “parla con la nostra bocca e cammina sulle nostre gambe”, nuovo fondamento della cultura contemporanea.
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Per introdurre il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) proviamo a partire dal suo rovescio. La metafora del rovesciamento (di senso, di condizioni, di vita) è spesso presente nelle pagine dell’autore, a cominciare dal titolo. Proprio il “capovolgimento nell’opposto” rappresenta lo stato d’animo di “scissione permanente” (p.31) dell’individuo che vive da Capitale Umano. Qualche anno fa, Piero Cipollone e Paolo Sestito, nomi noti a chi segue le vicende politiche scolastiche (ex commissari straordinari INVALSI, oltre che economisti della Banca d’Italia) scrivevano “Il capitale umano, come far fruttare i talenti” (Il Mulino, 2010).
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Sovranisti, populisti e pure rossobruni
Fai il bravo o ti viene a prendere Orban
di Fulvio Grimaldi
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Manco fosse Messina Denaro. Prima un inciso fuori tema. La cattura ed estradizione di Cesare Battisti dalla Bolivia equivale a un rapimento. E’ totalmente illegittima. Nessuna opposizione all’estradizione è stata concessa in un paese che, del resto, non può estradare condannati all’ergastolo, dato che rifiuta l’ergastolo. Battisti non mi è simpatico, come ho forti dubbi , se non certezze documentate, non tanto su lui, quanto su buona parte dei lottatori armati dei fine ’70 e ’80, a partire dagli infiltrati e manipolati BR di seconda generazione. Quelli che al sistema vanno benissimo quando, liberi dopo poco, pontificano in televisione e continuano a occultare la verità sul terrorismo di Stato. Che permise la “normalizzazione” dopo un decennio di lotte di massa insurrezionali. Ma quello di Battisti è stato un processo anomalo, in contumacia, senza la parola dell’imputato, nel clima del teorema Calogero. Meriterebbe di essere rifatto. Ma il trionfalismo vendicativo di questa classe dirigente e dei suoi accoliti e passeurs, eredi diretti dei protagonisti del terrorismo da Piazza Fontana a Via Amelio cospiratori in vista di un totalitarismo 2.0, fa venire la nausea. Rovesciando insulti su un uomo inerme e augurandogli di marcire in carcere, quando la Costituzione impone la rieducazione dei detenuti, ha distrutto la dignità, più che di Battisti, di coloro che l’hanno esibito e celebrato come un trofeo di caccia.
Sovranisti e populisti, orbaniani e rossobruni
La prenderanno per una provocazione, anche se è una semplice constatazione di fatti, quella del mio discorso sul premier ungherese Victor Orban sul quale tutti, proprio tutti, senza essersi magari mai documentati, o averci buttato gambe e occhio, condividono con entusiasmo il parossismo demonizzatore della vulgata UE- sinistri-centrosinistri-centrodestri-destri. Il solito unanimismo dal “manifesto” al “Foglio”. Con Soros che se la ride.
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Crisi come arte di governo
di Dario Gentili
Perché la crisi è diventata il principale metodo di governo e disciplinamento della popolazione? Per capirlo – sostiene Dario Gentili nel suo ultimo libro, Crisi come arte di governo (Quodlibet, 2018) – bisogna fare una genealogia della stessa krisis, risalendo al momento in cui, nella Grecia antica, si sono consolidati i suoi significati più propri. Del libro pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, che ringraziamo, l'introduzione
C’è un nesso tra il discorso dominante della crisi economica che dal 2008 sta colonizzando le politiche della gran parte dei Paesi del mondo e i Like/Dislike con cui, attraverso i social media, i cittadini globali si esprimono sugli argomenti più svariati e negli ambiti più disparati? A prima vista tale nesso può sembrare azzardato: come può una crisi economica che determina un discorso che vincola gli Stati a scelte obbligate trovare un corrispettivo nella più ampia diffusione e nella più radicale individualizzazione dell’esercizio della critica? Eppure, a ben vedere, le scelte obbligate dalla mancanza di un’alternativa che la crisi impone e la riduzione della critica all’approvazione o meno di un’alternativa prestabilita presuppongono la medesima modalità di giudizio: il giudizio pro o contro.
Infatti, il giudizio pro o contro – tra due opzioni tra loro opposte, che pone la scelta tra due alternative in contrapposizione – passa oggi per essere la modalità di giudizio per antonomasia. Ciò è riscontrabile tanto nelle questioni di portata pubblica quanto in quelle che concernono la condotta dei singoli individui. In generale, esso rappresenta il modello a cui ogni procedimento decisionale deve, in ultima istanza, essere riducibile, affinché si possa infine giungere a una decisione finale e risolutrice – sulla vita della società e sulla propria vita individuale. E tuttavia, sebbene in netta contrapposizione, le alternative che questa crisi e questa società costantemente pongono sembra non abbiano nulla di davvero risolutivo: uscire dalla crisi o imprimere una svolta alla propria personale condizione sociale ed esistenziale. Sembra pertanto che il giudizio pro o contro, per quanto mai come oggi si eserciti così frequentemente e diffusamente, non produca alcuna decisione effettiva – è questo, almeno in prima battuta, il nesso tra la crisi economica e lo statuto della critica al tempo dei social media.
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Marxismo e filosofia della prassi
Recensione di Giulia Dettori
Marcello Mustè: Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci, Viella, Lecce 2018, pp. 332, ISBN: 9788867289967
Il libro di Marcello Mustè Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci è un’interessante e approfondita ricostruzione delle origini del marxismo teorico in Italia, una questione che l’autore indaga attraverso l’analisi del pensiero di Labriola, Croce, Gentile, Mondolfo e Gramsci. Il volume si articola in due parti – la prima da Labriola a Mondolfo e la seconda interamente incentrata su Gramsci – e si serve di un’ampia bibliografia che comprende le opere degli autori presi in esame, i carteggi e diversi studi condotti in precedenza sul medesimo tema. Sulla base di questo cospicuo materiale Mustè delinea, con un criterio che cerca di essere il più possibile cronologico, una traiettoria che parte dal 1895, anno di pubblicazione del primo saggio sul materialismo storico di Labriola (In memoria del manifesto dei comunisti), per arrivare al 1935, quando Gramsci porta a termine la stesura delle ultime note dei Quaderni del carcere. È questo l’arco di tempo in cui, secondo l’autore, nasce il paradigma caratteristico del marxismo italiano, il cui tratto originale, come si evince dal titolo dell’opera, è racchiuso nella formula “filosofia della praxis”, con la quale questi filosofi hanno cercato di svolgere in termini originali e di declinare in una forma nazionale il pensiero di Marx. A fare da sfondo a questa ricostruzione è il più generale contesto storico in cui si dipana la vicenda del movimento operaio europeo, che Mustè tiene sempre presente e con cui fa dialogare gli autori trattati per mettere in evidenza come la formazione di un paradigma marxista in Italia sia strettamente intrecciata alla più ampia vicenda del marxismo teorico e ai suoi passaggi storici fondamentali (l’edificazione della Seconda Internazionale e la sua crisi, generata dalla contrapposizione tra ortodossia e revisionismo, le due guerre mondiali, la rivoluzione bolscevica e la Terza Internazionale).
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Dall'ontologia del "politico" alla teologia politica
Una riflessione a partire da Il Segreto del potere di Damiano Palano
di Epimeteo*
Questi "appunti di lettura" dedicati al volume di Damiano Palano, Il segreto del politico. Alla ricerca dell'ontologia del "politico" (Rubbettino), sono apparsi sul sito Epimeteo. Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico nel novembre 2018
La prima impressione che si prova durante la lettura di questo testo del docente di Filosofia politica della Cattolica di Milano è il piacere di reimmergersi in una corrente calda, conosciuta e antica, quella del realismo politico dei Tucidide e Machiavelli, Hobbes, Weber e Schmitt, una corrente che Palano affronta con evidente compartecipazione, ma nello stesso tempo senza alcun timore reverenziale, men che meno nei confronti di quello che è stato, dagli anni ’50 agli anni ’90, il più importante rappresentante della “scienza politica” nell’università in cui Palano insegna, ossia Gianfranco Miglio, a cui viene dedicata un’analisi approfondita nel quarto capitolo, significativamente titolato Arcana imperii, in cui il pensiero di Miglio viene esaminato nei suoi punti di forza, ma anche nelle sue profonde antinomie.
In generale, la lettura di Palano risulta particolarmente efficace nel mettere in rilievo la contraddizione che percorre l’intero arco teorico del realismo politico, ossia il conflitto tra “natura e “cultura”, tra antropologia e storia. In effetti, il realismo politico, in quanto mira alla “verità effettuale” della cosa (Machiavelli), ossia alla realtà del politico così come si dà effettivamente, tematizza come oggetto specifico l’”essere” del politico, al di là del dover essere della morale, dei “quadri valoriali”, delle ideologie e delle utopie: ecco dunque la radice di una “ontologia” del politico, che si rivela essenzialmente come relazione di “dominio dell’uomo sull’uomo”, che si dà come un portato inevitabile della “natura” dell’essere umano nella sua dimensione di continuità evolutiva con l’animale, nella sua aggressività che infine mette capo alla metafora dell’homo homini lupus.
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L’epoca della normalità del male
di Salvatore Bravo
Ci sono totalitarismi impliciti e dunque non riconosciuti che agiscono capillarmente con modalità pervasive, difficilmente identificabili. Il problema è il percorso per riconoscere il totalitarismo implicito e l’integralismo in cui siamo immersi, come pesci in acqua. In genere, non si è capaci di discernere la qualità ambientale ed ideologica che si respira e ci trasforma, in una parte di un tutto, poiché la normalità, l’abitudine all’indifferenza come al parossismo del valore di scambio congela ogni attività critica domandante. L’animale è parte integrante dell’ambiente, è specializzato e funzionale al suo contesto di sopravvivenza, non lo cambia, non può trasformarlo, perché in assenza di linguaggio e della rappresentazione non può agire su di esso per riconfigurarlo, e quindi ne è passivamente parte, come il pesce nell’acqua che non può rappresentarsi l’acqua e di conseguenza non può immaginare un altro modo di vivere. La tecnocrazia, nella stessa maniera, sempre più persuade che lo stato attuale è l’unico mondo possibile, dunque siamo come pesci in acqua, senza linguaggio per ripensare l’ambiente socioeconomico in cui siamo gettati.
Dialettica spazio-tempo
Non è necessario organizzare squadre di pompieri pronte a bruciare libri ed a proibire la lettura come in Fahrenheit 451, il potere economico ha assimilato il potere politico, oggi utilizza mezzi meno palesi, fa appello all’esemplificazione, ai processi di alienazione, alle miserie dell’abbondanza per lobomotizzare l’essere umano, per sottrarre all’ ente generico (Gattungswesen) le sue potenzialità, il suo essere un animale simbolico. Aldo Capitini definiva il totalitarismo consumista una forma di “americanismo-pompeiano”: l’eccesso, la dismisura è la legge dell’integralismo economico. La spazializzazione contro la temporalità vissuta ed in quanto tale storica e dotata di senso, è la dialettica che sostanzia il totalitarismo economico. Per Kant è il tempo l’intuizione che dà senso allo spazio, per il totalitarismo economico, lo spazio deve assimilare lo spirito (Geist).
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