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sinistra

Dissenso informato

Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili 

Introduzione di Niccolò Bertuzzi, Elisa Lello

AA.VV.: Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, a cura di Elisa Lello e Nicolò Bertuzzi, Castelvecchi, 2022

maxresdefaultnhygfvInformazione: “somministrare” con prudenza

«Bisogna trovare delle modalità meno […] democratiche […] nella somministrazione dell’informazione»; «In una situazione di guerra […] si accettano delle limitazioni alla libertà». Queste parole, già ricordate nella prefazione di Vittorio Agnoletto e che suonerebbero inquietanti persino se pronunciate da un comune cittadino, sono state utilizzate il 27 novembre 2021 da Mario Monti, in prima serata durante la nota trasmissione In Onda, su La7. Si riferivano – è doveroso precisarlo a qualche mese di distanza – all’emergenza Covid-19, e non a più recenti scenari bellici. Il ragionamento offerto dal professor Monti in quella sede era piuttosto articolato e, nonostante i tentativi del senatore a vita di ricalibrare il tiro con comunicati stampa riparatori, è difficile imputare la sua esternazione a un fraintendimento. Per cinque minuti abbondanti, attorniato da statue antiche e calici di vetro (una scenografia effettivamente molto adatta), Monti presentava la sua tesi autoritaria di fronte agli sguardi attoniti dei conduttori in studio.

Le frasi di Monti hanno provocato un certo dibattito, e le critiche non sono mancate. Vogliamo fermarci brevemente su due aspetti. In primo luogo il parallelo bellico. Nei giorni in cui Monti pronunciava queste parole eravamo nel pieno della recrudescenza del virus, con la variante Omicron che spopolava in Italia e nel resto d’Europa. Le sirene del conflitto fra Russia e Ucraina erano relegate a chi si interessasse di relazioni internazionali e geopolitica. Nessuna guerra si affacciava realmente nel dibattito pubblico.

Anzi, come accade in tempi di “normalità”, gli innumerevoli conflitti presenti sul pianeta erano totalmente ignorati, così come le drammatiche ricadute sociali ed economiche conseguenti. A fine novembre 2021 la metafora guerresca di Monti non sembrava dunque così offensiva come sarebbe parsa soltanto qualche mese più tardi. Tuttavia, quella metafora è stata utilizzata fin dall’inizio della tragedia pandemica. Da febbraio 2020 si è parlato di “guerra al virus”, “guerrieri”, “trincee”, “eroi”, “disertori”, “nemici” e altri termini più o meno afferenti a questo orizzonte semantico. Solitamente – aspetto non trascurabile – la metafora si accompagnava a simboli (positivi o negativi) incarnati da singoli individui, all’interno di un discorso di responsabilizzazione del cittadino e di una dicotomia buoni/cattivi che ha caratterizzato tutta la comunicazione pandemica.

Il secondo elemento su cui occorre spendere poche parole in riferimento alla frase di Mario Monti riguarda proprio chi l’ha pronunciata. Al netto del giudizio sul suo operato politico, il presidente dell’Università Bocconi rappresenta plasticamente l’immagine della moderazione nell’immaginario politico/mediatico italiano, tanto da essere stato un papabile candidato alla presidenza della Repubblica. Si ricorderanno i riferimenti alla sua sobrietà, al suo loden, al suo stile distaccato e mai sopra le righe. Il fatto che l’invito a un’informazione “meno democratica” venga proprio dal principe della moderazione, dal campione del liberalismo, dall’uomo delle istituzioni super partes, aggiunge ulteriore inquietudine a una frase che – lo ribadiamo – sarebbe stata preoccupante anche se uscita dalla bocca di un Salvini o di qualche altra figura divisiva, incendiaria, autoritaria. En passant, qualche settimana più tardi, lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella (rappresentante non solo dell’unità nazionale, ma anch’egli simbolo di pacatezza, moderazione e spirito democratico) esprimeva concetti piuttosto simili durante la cerimonia per lo scambio degli auguri di fine anno con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile, denunciando lo «sproporzionato risalto mediatico» offerto a coloro che non avessero adempiuto alla «ordinata adesione a quanto indicato nelle varie fasi dell’emergenza dai responsabili, ai diversi livelli».

Le frasi di Monti e Mattarella, preoccupanti per la loro freddezza e per la percepita moderazione di chi le ha pronunciate, impallidiscono di fronte ad affermazioni esplicitamente violente usate da figure mediatiche e rappresentanti politico-istituzionali nei confronti dei cosiddetti “no vax”1, o più semplicemente di chi abbia osato contestare (o anche soltanto aprire un dibattito) nei due anni di emergenza pandemica. Giusto per fissare qualche frase a futura memoria, si ricorda il «mi divertirei a vederli morire come mosche» del giornalista Andrea Scanzi, il «verranno messi agli arresti domiciliari, chiusi in casa come sorci» del virologo Roberto Burioni, il «se fosse per me costruirei anche due camere a gas» della cardiologa Marianna Rubino, i «campi di sterminio per chi non si vaccina» del suo collega Giuseppe Gigantino, il «serve Bava Beccaris, vanno sfamati col piombo» dell’esponente di +Europa Giuliano Cazzola. Queste sono solo alcune frasi che hanno adottato registri esplicitamente violenti, certamente bellici, negli ultimi anni.

Ci teniamo a precisare che anche sull’altro fronte non sono certo mancati le frasi violente e l’uso di registri aggressivi ed epiteti denigranti nei confronti degli oppositori. Con la differenza, fondamentale, data dall’asimmetria di potere e rappresentanza mediatica tra le due parti, nonché dal fatto che, nell’attacco contro i dissenzienti dell’obbligo vaccinale, siano stati i rappresentanti delle istituzioni politiche e sanitarie a sdoganare forme finora inimmaginabili di hate speech. Quest’ultimo, tuttavia, rimane esecrabile da qualunque parte provenga. Non tanto (o non solo) per un “banale” senso di pluralismo del dibattito pubblico e rispetto delle opinioni altrui che dovrebbe caratterizzare una democrazia avanzata, quanto perché l’imposizione di una logica binaria, dicotomica, manichea è a nostro avviso il problema posturale alla radice di tutti gli altri problemi di natura politica, epistemologica, comunicativa della contemporaneità (e, ci duole dirlo, in modo particolare dell’Italia contemporanea). Un binarismo che affonda le sue radici nella storia occidentale, da Aristotele in poi, e che è stato storicamente usato dai detentori del potere per creare divisioni e lacerazioni alla base della piramide sociale, lasciando così intaccate alcune strutture di comando ai piani superiori.

Intento del libro è dunque quello di andare nella direzione contraria rispetto a quanto sostenuto da Mario Monti, ricostruendo alcuni tasselli di un dibattito che è stato sostanzialmente negato – attraverso la messa ai margini ma anche la ridicolizzazione delle posizioni critiche – durante gli ultimi due anni. Il volume raccoglie le prospettive di vari studiosi e studiose provenienti da diversi “campi del sapere”, per rivendicare il dissenso (quello informato, e non un dissenso urlato o qualunquista) come valore aggiunto. Le voci contrarie e le alternative possibili devono essere discusse ed eventualmente criticate, ma è doveroso che trovino spazio anche (forse soprattutto) quando apparentemente eretiche.

Il dibattito mancato a cui facciamo riferimento non va dunque confuso con il battibecco quotidianamente spettacolarizzato tra esperti che condividevano la medesima impostazione di fondo sulla gestione della crisi sanitaria per differenziarsi solo su aspetti e pareri molto specifici. Ci riferiamo invece all’esclusione dall’informazione mainstream e dal confronto politico delle voci che hanno criticato proprio quell’impostazione di fondo: di quelle, ad esempio, che hanno preso di mira il riduzionismo di un approccio meramente epidemiologico, incapace di includere competenze, punti di vista e priorità di intervento che la natura “sindemica”2 [Horton, 2020] della crisi avrebbe invece ragionevolmente imposto di tenere in conto. Al silenziamento delle critiche rivolte alla strategia di puntare tutto (quasi) esclusivamente sui lockdown, prima, e sull’arma vaccinale, più avanti, trascurando completamente i temi della prevenzione primaria, delle cure precoci, della sanità territoriale, della messa in sicurezza in base ai fattori di rischio. Ci riferiamo, ancora, all’esclusione delle voci dissonanti che hanno evidenziato i limiti di un approccio basato su una concezione di salute come mera “assenza di malattie”, tradendo la definizione che ne offre la stessa OMS, al contempo riducendo l’esistenza umana alla “nuda vita” [Agamben, 2005]; alla messa ai margini dei punti di vista di chi ha cercato di richiamare l’attenzione sulle ricadute di una comunicazione allarmista e di interventi drastici e generalizzati sul benessere psicologico della popolazione, in particolare di bambini, adolescenti e giovani, strappati ai contesti di socializzazione e istruzione per essere isolati davanti a uno schermo; alla placida accettazione degli enormi guadagni che gonfiavano le tasche delle grandi multinazionali, in particolare quelle dell’intrattenimento virtuale e del delivery, oltre chiaramente alle case farmaceutiche, proprio mentre i primi sintomi della crisi economica prossima ventura si facevano pesantemente sentire su ampi strati di popolazione; così come all’esclusione delle critiche sull’inedita torsione in senso autoritario e biopolitico della democrazia portata con sé dall’attuazione di strumenti di disciplinamento e controllo con pesanti ricadute su coesione sociale e fiducia nelle istituzioni.

 

Il dibattito mancato: dalla pandemia al conflitto russo-ucraino

Riteniamo che questo volume sia ancor più importante oggi, in una fase in cui la Covid-19 ha perso di centralità mediatica e politica, lasciando spazio ad altri temi: in primo luogo una guerra, questa volta nel senso proprio del termine. Da una parte, sono state proiettate in un cono d’ombra le conseguenze sociali dei dispositivi di disciplinamento e sanzione che sono rimasti in buona misura intatti fino alla primavera 2022 – mentre per alcune categorie professionali continueranno a esserlo almeno fino alla fine dello stesso anno –, facendo dell’Italia un’anomalia nel contesto europeo e più in generale occidentale in termini di permanenza di restrizioni e sospensioni dal lavoro e da diritti fondamentali3. Dall’altra, i dibattiti intorno al conflitto russo-ucraino hanno assunto dinamiche estremamente simili a quelle viste durante la pandemia, con l’epurazione di discorsi critici: questa volta quelli nei confronti del ruolo unilateralmente positivo giocato dalle grandi potenze occidentali e dalle loro istituzioni internazionali nello scacchiere geopolitico. In questo caso, non solo le opinioni non allineate sono state silenziate o comunque relegate a spazi estremamente minoritari; addirittura, sono stati impiegati specifici dispositivi di censura storica, come il divieto di rappresentazioni di opere teatrali o musicali di artisti russi dei secoli scorsi, l’interruzione dei rapporti con istituzioni culturali, o altre forme di “guerra culturale” che sembrerebbero funzionali a bandire progressivamente un altro pezzo di mondo dal menù occidentale. A ben vedere, con la parziale eccezione di certa letteratura latinoamericana, la cultura russa (quella letteraria, musicale, cinematografica) è l’unica che ancora resiste all’egemonia etnocentrica, e che non è relegata a nicchie di cultori (come accade, per esempio, per gli appassionati di forme artistico-culturali cinesi, giapponesi, africane, mediorientali o di altre zone del mondo). È francamente difficile dare lettura diversa delle iniziative di messa al bando di Dostoevskij, Čajkovskij o altri grandi della cultura russa dei secoli passati. L’altra lettura possibile è quella del delirio collettivo, ma ci parrebbe ingenuo ascrivere a tale categoria alcune decisioni prese dalla governance neoliberale.

Pensiamo dunque che riflettere oggi sul dibattito negato durante la pandemia possa offrire strumenti sia per ripensare alla congiuntura Covid, sia soprattutto per orientarsi nello scenario postpandemico che ci troveremo ad affrontare. Anche in questo caso non vogliamo peccare di ingenuità. Quando parliamo di (auspicato) scenario postpandemico, ci riferiamo alla pandemia da Covid-19, consapevoli che i prossimi anni saranno plausibilmente caratterizzati da simili eventi, forse anche più gravi. Lo ha detto chiaramente l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services: il panel intergovernativo sulla biodiversità) in un report del 2020 in cui affermava che stiamo entrando nell’«era delle pandemie». È bene ricordare però che nello stesso documento l’IPBES precisasse come tale ingresso nell’era delle pandemie sarebbe scongiurabile a patto di un radicale cambiamento del nostro modo di rapportarci all’ambiente, alla biodiversità e alla natura più in generale [Kothari et al., 2019]. Al contrario, lo stesso slogan «era delle pandemie» è stato utilizzato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen in termini puramente fattuali, come taken-for-gran- ted: non dunque come avvertimento a uno scenario futuro evitabile o per lo meno mitigabile a costo di radicali cambiamenti, ma come un dato di fatto da cui non si può scappare. Uno scenario peraltro ben noto dalla lettura di alcuni libri già sufficientemente conosciuti come Big Farms Make Big Flu, di Rob Wallace, oppure Spillover, di David Quammen, usciti in tempi non sospetti (ben prima dell’esplosione di Sars-CoV-2: 2016 il testo di Wallace, addirittura 2012 quello di Quammen). Un’altra precisazione è necessaria a questo punto. Entrambi questi libri, come altri, denunciano l’immoralità, l’irresponsabilità e persino l’insensatezza in termini economico-razionali del sistema produttivo capitalista e del nostro rapporto con il resto del vivente, concentrandosi soprattutto sui grandi allevamenti intensivi e sui rapporti di contiguità/dominio con le altre specie animali. Fra le altre cose, questo tipo di sistema produttivo favorisce la nascita e diffusione di virus; cosa nota da tempo e semplicemente ignorata fino all’esplosione di Covid-19, la cui peculiarità è stata (anche e soprattutto) quella di rompere l’eccezionalismo etnocentrico che aveva finora risparmiato l’Occidente dalle gravi emergenze umanitarie causate proprio dal suo modello di sviluppo. È bene dunque chiarire che, proprio mentre il dibattito (fin troppo presto liquidato come complottista) sulla possibile origine laboratoriale del virus sta riemergendo, ciò non sposterebbe di una virgola la questione della responsabilità strutturale dell’attuale sistema produttivo, dell’interdipendenza legata ai mercati globali del cibo (e non solo del cibo), in ultima istanza della globalizzazione sfrenata e della mentalità del “tutto e subito” che caratterizza l’Occidente contemporaneo, incapace di rispettare ecosistemi, cicli naturali, peculiarità geografiche e di specie. Detto in altri termini, il grande problema non è tanto (o non è solo) l’origine dei virus ma la loro diffusione.

 

Informazione e democrazia: (dis)continuità tra ieri e oggi

D’altronde, siamo pienamente consci che il “dibattito negato” di cui parliamo non sia qualcosa di completamente nuovo. Siamo stati abituati al fatto che le tesi alternative (antisistemiche, anticapitaliste, anarchiche, marxiste ecc.) vengano relegate ai margini del dibattito pubblico. Chi scrive questa introduzione si è occupato di vari fenomeni sociali e/o mobilitazioni politiche che hanno dovuto (e anzi devono tuttora) fronteggiare stigma, ridicolizzazione, gogne mediatiche di vario genere: dagli “animalisti” ai movimenti contro le grandi opere, dalla decrescita ai contadini resistenti, dal femminismo ai GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), dall’ecospiritualismo alla giustizia ambientale e climatica, e l’elenco potrebbe proseguire. Lungi da noi, dunque, voler presentare l’agone pandemico come un fulmine a ciel sereno di una società e di un mondo dell’informazione progressista, aperto, plurale. Mai prima d’ora, tuttavia, si era arrivati a teorizzare l’opportunità e, anzi, la necessità di negare rappresentanza mediatica al dissenso e ai dissenzienti, producendo un’inedita irreggimentazione del dibattito pubblico che ha spinto milioni di concittadini verso spazi di informazione esterni al circuito istituzionale e mainstream. La presenza di meccanismi di censura, oltre che di convergenza tra le principali testate giornalistiche, trova del resto riscontro nell’arretramento (di 17 posti rispetto al 2021 e al 2020) dell’Italia nel World Press Freedom Index, su cui ha pesato, secondo le stesse ammissioni dei giornalisti, la diffusione di comportamenti di auto-censura, legati a un certo cambiamento del clima politico4.

Se i titoli e gli articoli sui No Tav nemici del progresso, i vegani estremisti da combattere, le femministe isteriche sopra le righe, e persino (fatto assai inquietante data la centralità che il tema dovrebbe avere) gli attivisti di Fridays For Future definiti ragazzini che “farebbero meglio a studiare” rimanevano relegati a singole giornate e/o a trafiletti di giornale, lo stigma verso runner, giovani, non vaccinati e altre categorie che nel corso del 2020 e 2021 sono state individuate come responsabili di tutti i mali (o anche semplicemente verso chi proponeva letture alternative della narrazione pandemica) ha invece assunto regolare centralità sugli organi di informazione. Un certo sciacallaggio è stato anche sdoganato. Anche in questo caso non si trattava di una novità assoluta: i titoli sul figlio della famiglia vegana finito in ospedale, sull’attivista colto in qualche attività paralegale o sulle sventure accadute allo “sprovveduto” colpevole di aver fatto ricorso a tradizioni di cura “alternative” non sono mai mancati. Tuttavia, abbiamo assistito a due anni in cui quasi quotidianamente ci si imbatteva nella storia di tragedie più o meno macchiettistiche, drammatizzate, spettacolarizzate che riguardavano individui non vaccinati: episodi che, al di là dello scarso interesse che dovrebbero avere in un mondo dell’informazione meno glamour, non avevano alcun valore statistico, come d’altra parte si è giustamente fatto notare che nessun valore statistico avevano episodi altrettanto aneddotici portati a supporto delle loro tesi da parte dei contrari alla vaccinazione. Persino il mondo della satira, seppur con alcune eccezioni, ha preoccupantemente virato dalla derisione dei potenti verso la ridicolizzazione delle opinioni minoritarie e/o dissenzienti; altro fenomeno ripropostosi specularmente con il conflitto russo-ucraino.

Queste modalità informative – stigmatizzazione, silenziamento, sciacallaggio – hanno contribuito a esacerbare fenomeni già latenti presso la popolazione: da una parte sfiducia nelle istituzioni; dall’altra polarizzazione delle opinioni. L’impressione, infatti, che sentimenti di estraniazione dalle istituzioni politiche rappresentative coinvolgano fasce crescenti della popolazione italiana sembra trovare riscontro non solo nell’affermazione, ormai consolidata, dei cosiddetti partiti (neo)populisti [Diamanti, Lazar 2018; Bordignon, Ceccarini 2021], ma, forse soprattutto, nella crescita senza precedenti dei tassi di astensionismo che si è osservata, in particolare, nelle elezioni amministrative dell’autunno 2021 e della primavera 2022. Del resto, una democrazia stabile e solida si basa, più che sul consenso, proprio sul conflitto. La stessa storia italiana ha insegnato come il consolidamento democratico sia stato possibile grazie alla presenza di meccanismi di rappresentanza che hanno garantito a tutte le componenti sociali la possibilità di far valere la propria voce. Il conflitto, per quanto aspro, quando riesce a incanalarsi nelle procedure della rappresentanza, non è pericoloso per la tenuta democratica. Al contrario, la democrazia si incrina e perde legittimazione proprio qualora a minoranze consistenti, come in questo caso, venga preclusa l’agibilità politica delle proprie posizioni, indifferentemente e a priori assimilate – e per questa via escluse e depoliticizzate – a ignoranza e complottismo, pregiudicando in questo modo quella «prova della discussione» che pure un pensatore moderato, e autorevole, come Bernard Manin [1995] pone a fondamento imprescindibile del governo rappresentativo.

A ben vedere, nella fase attuale, in cui l’emergenza, da situazione contingente, diviene elemento strutturale, è proprio a partire dalla restrizione delle libertà individuali e dall’imposizione di interventi sul bios e sugli stili di vita da parte di istituzioni verso cui si nutre sfiducia che possono originarsi nuove linee di conflitto, le quali a loro volta condurranno probabilmente alla politicizzazione di nuove questioni e alla messa in discussione di tendenze tecnocratiche che, in continuità col discorso neoliberale, non ammettono alternative.

La tecnocrazia, infatti, si fonda su presupposti epistemologici, politici e persino ontologici che vanno nella direzione opposta rispetto non solo alla democrazia, ma anche agli ideali e alla sensibilità di porzioni significative di società che hanno introiettato da decenni valori postmaterialisti (femminismo, ambientalismo, pacifismo), spostandosi verso pratiche di cittadinanza critica e verso la ricerca di una coerenza tra scelte di vita (di consumo, di educazione, di socialità, di lavoro e di gestione della salute) e ideali libertari, consapevoli, solidali.

Per la tecnocrazia, invece, non solo è necessaria la delega, come nei regimi democratici “classici”, ma nemmeno basta più la fiducia. La tecnocrazia richiede una forma di fede, che escluda alcuni elementi di dibattito e problematizzazione, in nome di un razionalismo di stampo scientista e del progresso lineare. Questi obiettivi possono essere raggiunti solo affidandosi a esperti e perseguendo uno sviluppo tecnologico monodimensionale. Il dibattito sui presupposti, sulla governance, sulle ricadute e sulla stessa desiderabilità sociale delle innovazioni tecno-scientifiche è considerato tempo perso: eventualmente gli spazi di discussione possono essere riservati a come implementare in modo più efficace e unitario (si tratta tuttavia di un’unitarietà top-down) le decisioni assunte da centri di potere ristretti. Il caso italiano è nuovamente esemplare: laddove il ruolo del Parlamento è stato sostanzialmente bypassato nei due anni di emergenza pandemica a suon di voti di fiducia, DPCM, decisioni assunte dal governo senza discussioni in aula, è evidente che parlare di ruolo della “società civile” suoni quasi surreale. È probabile che anche questo fenomeno porti a un’ulteriore divisione del tessuto sociale, laddove alcuni settori di società e singoli individui accetteranno (magari a targhe alterne) questa sostanziale abdicazione al conflitto in nome di protezione e quieto vivere, mentre dall’altra parte emergerà una richiesta diffusa di maggior partecipazione, assemblearismo, comunità.

Anche in questo caso siamo consci di non trovarci di fronte a fenomeni nuovi o emersi improvvisamente. La tecnocrazia, oltre che una forma di governo, si può interpretare come un «regime di verità», per usare un concetto introdotto da Michel Foucault [1976]. Ogni epoca e contesto sociale ha un suo regime di verità. Le idee di crescita infinita e di modernizzazione ecologica, veicolate dall’economia classica e dalla governance neoliberale, sono a tutti gli effetti dei regimi di verità. Ancor più lo è (stata) l’imposizione di determinati modelli di razionalità dei colonizzatori nei confronti dei colonizzati, come puntualmente analizzato – fra i tanti e le tante – da Edward Said [1978], e come promosso dalle varie operazioni di “esportazione della democrazia” o da alcune iniziative apertamente neocoloniali veicolate sotto l’egida dello “sviluppo sostenibile” e dei progetti green proposti da organismi internazionali in aree rurali totalmente ignorando i saperi locali [Dentico, 2020]. Nell’individuarne dunque alcuni caratteri peculiari, come fanno sapientemente diversi capitoli di questo libro, la tecnocrazia va inserita in percorsi storici e politici di più ampia portata, che aiutano anche a ricostruirne le «catene esplicative» [Blaikie, Brookfield, 1987] e, in ultima istanza, a individuarla come prodotto stesso della modernità, alla stregua di quanto fatto da Horkheimer e Adorno [1947] in riferimento all’Olocausto.

 

Intento e organizzazione del volume

Il fastidio che accoglie, e accoglieva, le voci contrarie alla governance neoliberale (che siano contrarie alla gestione della pandemia, a quella della guerra, alle grandi opere o ad altro ancora) assomiglia sempre di più al «lasciateci lavorare» di berlusconiana memoria. Un invito che, purtroppo, pare accolto da un numero sempre maggiore di persone, anche in seguito a un certo “volto duro” dello Stato (peraltro limitato ad alcune questioni e invece assente su altre, come quelle redistributive).

Il volume intende contribuire a riaprire questo dibattito, focalizzandosi sulla congiuntura pandemica e lasciando spazio alle alternative, che pure c’erano – e ci sono –, e a diversi punti di vista, consapevoli che quelli presentati in questo libro non siano gli unici possibili. Altre critiche, di stampo opposto oppure semplicemente integrativo, sono emerse nei mesi passati: un esempio su tutti è quello dei brevetti vaccinali, ben riassunto da Vittorio Agnoletto nella Prefazione. Le critiche al sistema dei brevetti, così come quasi tutti i dissensi informati e le opinioni discordanti dal discorso governativo e mainstream, sono state accolte con fastidio, sull’onda dell’emergenza e pertanto della necessità di “stare sulla stessa barca”: una barca, tuttavia, che rassomiglia sempre più a un Titanic dal quale fuggono solo i passeggeri di Prima Classe, e nemmeno a bordo di scialuppe di salvataggio ma su imbarcazioni ancor più lussuose di quella che affonda.

Il primo focus del libro, dunque, riguarda l’informazione durante la crisi sanitaria. La pandemia, tuttavia, può essere letta anche come momento di disvelamento, in cui cambiamenti avviatisi sottotraccia da tempo tendono a precipitare, e nodi irrisolti che riguardano ambiti cruciali (dalla medicina alla regolazione pubblica e al lobbismo) diventano manifesti. Diventa allora essenziale – e questo vuole essere il secondo obiettivo del libro – impadronirsi di strumenti e chiavi di lettura con cui leggere criticamente lo scenario (post)pandemico per potervisi muovere in modo realmente emancipativo, evitando di cadere nelle trappole tese dalla cattura del linguaggio messa in atto dalla stessa governance neoliberale.

Alla luce di queste considerazioni, il volume è diviso in tre sezioni principali. La prima analizza le strategie comunicative che abbiamo visto all’opera nel biennio 2020-2021, concentrandosi – con il supporto di riflessioni teoriche e indagini empiriche – sul ruolo dei vari attori protagonisti: media, politici, scienziati, opinionisti.

Nel primo capitolo, Sara Gandini, epidemiologa, e Andrea Miconi, sociologo, mostrano, attraverso gli sguardi delle rispettive discipline, come alcune misure comunicate come necessarie e inevitabili in nome dell’emergenza fossero tutt’altro che tali, e anzi contraddicessero acquisizioni consolidate nello stesso campo dell’epidemiologia. Meccanismi distorsivi nell’impianto comunicativo e nella trattazione mediatica hanno permesso che queste contraddizioni non venissero alla luce nel dibattito pubblico, nemmeno di fronte alle conseguenze deteriori che tali scelte hanno comportato sul piano sanitario come su quello sociale. Proprio la comunicazione pandemica è al centro del secondo contributo, in cui Francesca Capelli considera la Covid-19 come genere discorsivo à la Bachtin, mostrando la coerenza di un registro narrativo tarato sulla metafora bellica che contribuisce a naturalizzare lo statuto di emergenza e a legittimare inedite forme di sorveglianza e controllo. Nel terzo capitolo, Enrico Campo e Luca Serafini esplorano l’ipotesi secondo cui il clima di incertezza creato dalla cosiddetta “infodemia” non sia stato alimentato solamente, né soprattutto, dalla diffusione di notizie infondate, ma debba essere letto come risultato di una dinamica a spirale che ha interessato le controversie interne alla comunità scientifica e le logiche di funzionamento dei media, della società civile e della politica. Il capitolo successivo, a firma di Giampietro Gobo, riprende alcuni di questi temi, e discute la crescente sfiducia nella scienza presso la popolazione italiana, muovendo sia da riflessioni teoriche, sia da un questionario somministrato durante la pandemia ai lettori di alcuni quotidiani: ne emerge il quadro di uno scetticismo variegato, plurale, complesso, ben diverso da quello normalmente rappresentato sui media come un coacervo di ignoranza, egoismo ed estremismo di destra.

La seconda sezione del volume ricostruisce alcuni elementi essenziali del dibattito che avremmo voluto, a partire da una rassegna delle incongruenze e degli “effetti collaterali” delle misure adottate, fino a una loro interpretazione sul piano propriamente politico.

La sezione si apre con un saggio a firma di Stefano Boni, che attraverso gli strumenti dell’antropologia ci permette di “guardarci da fuori”, e quindi di problematizzare alcuni tratti culturali prettamente occidentali che consideriamo “naturali” e inevitabili – dal rapporto con la morte alla pretesa di sottomettere un’epidemia attraverso la tecnologia –, mostrandocene implicazioni e conseguenze iatrogene. Con l’obiettivo di prendere coscienza delle criticità occultate, ma anche di immaginare gestioni inclusive e non violente di future emergenze. Nel contributo successivo, Thomas Fazi evidenzia come al di sotto della retorica progressista e “di sinistra” che ha ammantato e giustificato le politiche di gestione della pandemia siano invece riconoscibili elementi e obiettivi di stampo neoliberista, coerenti con una ristrutturazione autoritaria del capitalismo globale: in questo senso, la pandemia ha sia disvelato che accelerato alcuni processi tipici del capitalismo, aprendo spazio per una sua ulteriore svolta tecnocratica. Chiude la sezione il contributo di Luca Raffini. Con specifico riferimento al caso dei governi italiani succedutisi durante il biennio pandemico, l’autore illustra lo scontro, in seno alle democrazie avanzate, tra liberalismo tecnocratico e populismo: due registri discorsivi e politici apparentemente antitetici, ma in realtà caratterizzati da forti similitudini. In entrambi i casi, la democrazia rinuncia alla gestione della complessità, annullando gli spazi del confronto e dell’espressione di dissenso.

La terza sezione affronta temi di portata più generale, tuttavia imprescindibili per inserire la gestione della pandemia all’interno di un contesto più ampio: condizione necessaria perché questa diventi leggibile e comprensibile.

Il primo capitolo di questa sezione, curato da Nicola Matteucci, economista, ed Eduardo Missoni, medico, ricostruisce puntualmente le tappe della progressiva marginalizzazione dell’OMS nel governo della salute mondiale, collegandola all’evoluzione del capitalismo contemporaneo e permettendo di evidenziare il ruolo del lobbismo, delle strategie di cattura del regolatore e del filantrocapitalismo. Il contributo successivo, a cura di Barbara Osimani e Maria Laura Ilardo, si colloca in continuità con il precedente, concentrandosi su alcune conseguenze – cruciali nella contingenza attuale – delle azioni di lobbying verso l’OMS: la ridefinizione degli strumenti (algoritmi) utilizzati per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed eventi avversi. Si tratta, infatti, di una delle ragioni principali del fenomeno della sotto-segnalazione, che a sua volta contribuisce a incrinare il necessario rapporto di fiducia con i cittadini: per ricostruirlo occorre invertire la rotta, puntando alla trasparenza.

La tecnocrazia, l’abbiamo detto, si appoggia a un discorso imperniato in primo luogo sulla “scienza”; ma quali significati acquisisce questo concetto in un’epoca in cui i settori corporate orientano le proprie strategie di lobbying primariamente proprio sugli ambiti di costruzione e governance della scienza? Da questo interrogativo prende spunto il contributo di Elisa Lello e Andrea Saltelli, per illustrare i modi in cui questi processi si traducono in un inquinamento/dirottamento della sfera pubblica alla cui luce diventano maggiormente comprensibili lo spaesamento e l’afasia di larga parte della società civile durante gli ultimi due anni. Ultimo, ma certo non per importanza, il contributo di Ivan Cavicchi, che interpreta la pandemia come manifestazione dei problemi irrisolti della medicina, richiamando l’attenzione sia sull’anacronismo di modelli autoritari e paternalistici (e scientisti) che vorrebbero sbrigativamente mettere a tacere tensioni e problemi nel rapporto tra medicina e società – risultando però più parte del problema che della soluzione –, sia sulla necessità di recuperare un approccio riformista che non si limiti alla sanità ma punti a un ripensamento della medicina, iniziando dal suo paradigma.

Se la tecnocrazia si basa sulla delega in bianco agli esperti, e sulla richiesta di adesione acritica ai suoi dogmi ammantati di razionalismo tecno-scientifico, è inevitabile che essa generi forme eterogenee ma consistenti di dissenso che più vengono escluse dal dibattito e assimilate tout court a ignoranza-egoismo-complottismo, più diventa probabile che tendano a scivolare verso traiettorie di radicalizzazione, anche perché viene a mancare il contesto dialogico del confronto e della verifica.

Quello che cerchiamo di fare, quindi, nelle pagine che seguono, è riaprire e problematizzare alcuni dei dogmi su cui si è fondato il governo della pandemia, nella convinzione che il dibattito negato abbia precluso la tematizzazione di questioni importanti che riguardano le politiche sanitarie e le loro conseguenze, il peso del lobbismo e l’intreccio tra medicina, scienza, economia e politica. Questi temi sono diventati tabù; la loro trattazione è stata preclusa alla possibilità di un serio confronto democratico per venire lasciata pressoché in esclusiva ai circuiti cosiddetti “complottisti”. Nella convinzione che il complottismo prosperi sul non detto, cioè su quanto non viene adeguatamente tematizzato e discusso in modo pluralista e trasparente, assume allora cruciale importanza rompere quei tabù e riaprire questi temi “caldi”, per provare ad affrontarli in maniera rigorosa e documentata.

È quello che proveremo a fare nelle pagine che seguono, dando voce a diverse autrici e autori, la maggior parte dei quali accademici, afferenti a varie aree disciplinari, dalla sociologia all’epidemiologia, dall’antropologia all’epistemologia. La transdisciplinarietà è dunque un valore aggiunto del volume, insieme alla pluralità dei punti di vista presentati. A questo proposito, è opportuno precisare che curatrice e curatore, autrici e autori dei contributi esprimono posizioni personali e politiche differenti, non per forza sempre coerenti tra loro5. Non solamente perché tante voci sono sinonimo di democrazia, ma perché crediamo che non esista una verità monodimensionale e indubitabile (contrapposta a un errore altrettanto inequivocabile), e che anzi sia proprio la polifonia di diverse esecuzioni a fornire un quadro più completo.


Note
1 Il termine “no vax” rappresenta un’etichetta stigmatizzante e semplicistica, come è stato evidenziato da diversi studi, in Italia e non solo, che hanno dimostrato come lo spettro di posizioni relative alle vaccinazioni sia molto più variegato rispetto alla dicotomia pro vax vs no vax. Cfr., ad esempio, Gobo, Sena [2018] e Lello [2020].
2 Il concetto di sindemia è diventato popolare in seguito a un editoriale del direttore di «The Lancet» Richard Horton [2020], ma è stato coniato diversi anni fa dall’antropologo Merril Singer per descrivere il rapporto tra AIDS e tubercolosi. La lettura sindemica sottolinea come virulenza e pericolosità di un virus siano non solo diverse a seconda delle condizioni di salute e socio-economiche, ma anche accresciute dalle disparità tipicamente originate da un’organizzazione sociale e politica di stampo neoliberista.
3 Per capire l’ampiezza della platea su cui ricadono sanzioni e restrizioni, è interessante notare che mentre si chiude questo scritto (21 giugno 2022) sono più di 4.570.000 gli italiani (dai 12 anni in su) che non hanno completato il ciclo vaccinale primario (prime due dosi), e più di 13.700.000 quanti non hanno ricevuto la dose addizionale (booster): https://www.governo.it/it/cscovid19/report-vaccini/. Il recente decreto legge 24 marzo 2022, n. 24 (convertito successivamente dalla L. 19 maggio 2022, n. 52), ha stabilito a partire dal 1 aprile e poi dal 1 maggio 2022 la sospensione di alcune delle restrizioni più severe, lasciando tuttavia in vigore l’obbligo vaccinale per alcune categorie professionali e sottolineando la necessità di separare l’infrastruttura del green pass dal suo carattere emergenziale per conferirle natura ordinaria e permanente in previsione di future, nuove emergenze.
4 Gloria Ferrari, Libertà di stampa: l’Italia sprofonda al 58° posto nella classifica mon- diale, in «L’Indipendente», 4 maggio 2022.
5 Cogliamo l’occasione per precisare che nel volume usiamo la declinazione al maschile. Ci preme sottolinearlo, perché riteniamo importanti gli aspetti linguistici e le relazioni di potere che essi veicolano. Al contempo, la complessità di alcuni temi e il massiccio utilizzo che sarebbe stato richiesto di forme neutre (o di sdoppiamenti di maschile e femminile) hanno fatto propendere – non senza rammarico – per questa scelta: nostro obiettivo era quello di offrire un testo che, per quanto complesso, fosse agevolmente leggibile. Al contempo ci auguriamo che in futuro non si debba più adottare un simile compromesso, grazie a un cambiamento culturale diffuso.

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