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fuoricollana

La favola della “società signorile di massa”

di Salvatore Bianco 

La nostra non è una società «signorile di massa», come postula Luca Ricolfi, ma soffre di quegli stessi mali che si ripropongono come terapia. Rispecchia la forma neoliberale che il capitalismo si è dato a partire dagli ultimi decenni del ventesimo secolo

Se si volesse una forma esemplare, nei suoi tratti anche estremi, del tipo di racconto emergente intorno a una società italiana in crisi di lavoro, occorre riferirsi senza esitazioni a Luca Ricolfi, sociologo, professore di Analisi dei dati all’Università di Torino, che tra un saggio del 2019, La società signorile di massa, e una serie di più recenti interviste, delinea un regime sociale, per l’appunto signorile e di massa, che si sarebbe instaurato nel frattempo in Italia.

 

Gente che non lavora

«La tesi che vorrei difendere – dichiara in avvio l’autore – è che l’Italia è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale. La chiamerò società signorile di massa, perché è l’innesto, sul suo corpo principale, che rimane capitalistico, di elementi tipici della società signorile del passato feudale e precapitalistico».

L’enunciato è preceduto dall’espediente retorico del marziano esploratore, che consente al sociologo di imporre il suo quadro di realtà, riducendo le altre fosche narrazioni circolanti a mere fantasie o a luoghi comuni; osservando la penisola, questo viaggiatore dello spazio, troverebbe tantissima «gente che non lavora, oppure lavora poco e trascorre degli splendidi fine settimana in luoghi di vacanza», famiglie con due o più case di proprietà, barche ormeggiate, ristoranti pieni, eccetera.

Che la formula adottata non sia per nulla provocatoria, ma vada presa alla lettera, è dimostrato dalla mole impressionante di dati forniti per descrivere un Paese che prospera, a suo dire, come una sorta di Bengodi, dedito a consumi opulenti e sfrenati che coinvolgerebbero perlomeno tre quarti della popolazione, a fronte di una parte attiva di lavoratori di appena il 39.9% e con un sistema scolastico indulgente che forma una gioventù che «può permettersi il lusso di consumare senza lavorare». Fa eccezione la «infrastruttura paraschiavistica» costituita, per una buona parte, da immigrati sfruttati e irregolari, contigua in alcuni sui segmenti all’economia illegale, risorsa strategica a disposizione – asserisce Ricolfi – dell’intera società signorile, anche se numericamente contenuta in circa 3 milioni di addetti.

 

Il migliore dei mondi possibili

Con una società così delineata, saremmo seriamente autorizzati a pensare di vivere, se non nel migliore dei mondi possibili, perlomeno nel mondo migliore per i più, surclassando la società dei due terzi più volte richiamata a suo tempo da Bobbio. Che l’intento nascosto sia allora quello celebrativo? In realtà, si chiarisce quasi subito che questo consumo opulento, di massa, altro non sarebbe che lo sperpero delle ricchezze accumulate dalle generazioni precedenti. Si spende e spande quello che i padri e i nonni con spirito di sacrificio avevano messo da parte dal dopoguerra e con rinnovato vigore durante il “boom economico, tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Ma come nella storia della formica e della cicala, l’inverno, magari impersonato da qualche istituzione sovranazionale, non tarderà a presentare il suo conto e nei prossimi anni ci si potrebbe trovare a scegliere, ammonisce l’austero Ricolfi, se solo finire subito come la Grecia o preferire «un’argentinizzazione lenta».

Stando ai suoi numeri, circa cinquanta milioni di italiani sarebbero da considerare signori, per la semplice circostanza di «vivere sopra la soglia di povertà». La nozione stessa di consumo opulento, a parte scontare il solito limite della media del pollo, è intesa meccanicamente come il surplus dei consumi eccedenti il livello di sussistenza, fissato nella magra quota di 500 euro mensili pro capite. Ora, pure ammesso che i bisogni essenziali corrispondano a quella soglia statistica, di sicuro non fa in automatico di chi la supera, magari di un soffio, sic et simpliciter un signore. In realtà, l’opulenza si scopre consisterebbe nel «soddisfare esigenze che in passato solo i signori potevano permettersi», tipo acqua corrente e servizi igienici in casa. Scontando una qualche delusione, si scopre insomma che la silhouette del signore è ritagliata su quella del tempo che fu e non certo tarata sul presente. Anche la condizione servile, «paraschiavistica», assume così il suo reale significato: quello di garantire al capitalismo contemporaneo, attraverso lo sfruttamento intensivo di milioni di lavoratori, come ha fatto notare nei suoi lavori l’economista Mario Pianta dell’Università di Urbino, un regime di consumi ancora inclusivo perché a costi contenuti, a fronte della caduta verticale del reddito medio familiare, dai valori del 2008, di circa il 13%.

Il vero fulcro dell’intero impianto discorsivo risiede però nella sua forma. Il notevole sforzo quantitativo, esibito da Ricolfi, è difatti permeato di quel particolare codice narrativo che ha preso campo nell’occidente europeo, sino a divenire racconto dominante, all’indomani dello spartiacque rappresentato della grande crisi del 2007/2008. Questo tipo di narrazione, rispetto “ai ruggenti anni novanta” che inneggiavano all’eccesso, privilegia i toni austeri e un registro esplicitamente penitenziale. Nello specifico, tradisce il sospetto che un regime di consumo alimentato dal debito individuale, solo paventato come rischio futuro – «diventeremo come i nobili decaduti, nevroticamente impegnati a sostenere il nostro modo di vita facendo debito» –, in realtà sia un dispositivo già attivo da tempo nel nostro Paese.

 

I giovani troppo “choosy”

Anche la descrizione senza sfumatura alcuna dei giovani, che scelgono di restare disoccupati e farsi così mantenere a vita dalle famiglie, sviluppando «un subconscio successorio», risente dell’uso di quello stesso codice con un intento in questo caso inquisitorio più che colpevolizzante. Non solo non avrebbero una formazione adeguata per colpa di una scuola dilaniata al suo interno da un «donmilanismo dilagante», che ne avrebbe minato il principio di autorità, ma soprattutto non si adeguerebbero, questi «giovani choosy», alle nuove condizioni del mercato del lavoro, al ribasso verrebbe da concludere, visto che Ricolfi porta ad esempio il rinomato pizzaiolo piemontese disperato per la mancanza di camerieri per il suo esercizio.

Oltreché per l’infrastruttura paraschiavistica, la società signorile di massa è tale, come si diceva, per i consumi su larga scala che si sorreggono su di una struttura sociale in cui il non lavoro supera di gran lunga il lavoro. Ora, a parte l’inclusione dei pensionati e dei giovanissimi, quindicenni compresi, nella colonna del non lavoro senza particolari distinguo, che fa impennare notevolmente il gap con la colonna dei produttori, la contrazione progressiva del lavoro è in realtà un fenomeno strutturale di lunga durata, che non riguarda le presunte attitudini psicosociali delle generazioni, ma l’esasperazione delle dinamiche interne al capitalismo, il quale ricercando sempre il massimo dell’efficienza rimpiazza progressivamente le risorse umane con le macchine e, da ultimo, con la robotica e l’intelligenza artificiale.

Più in generale, la formula adottata, dallo studioso, della società signorile di massa, per descrivere il presente, evoca piuttosto un ritorno ad un condizione feudale caricaturale, aggravata dal carattere di massa che avrebbe assunto. Manca o talvolta è solo accennato un elemento di contesto, un quadro di riferimento generale, per cui tutto rischia di ridursi, come si accennava, a delle mutazioni antropologiche che un po’ misteriosamente a fine anni settanta sarebbero intervenute, sancendo il passaggio da una generazione di padri, tutta dedita al risparmio ed al sacrificio, a quella dei figli improvvisamente imbelli e inclini allo sperpero delle risorse familiari accumulate. Per arrivare poi all’oggi, dove un’intera comunità da operosa che era si è fatta pigra ed oziosa. Tutte queste modificazioni, insomma, si sarebbero svolte nel vuoto pneumatico di un contesto che, se non problematizzato e storicizzato, con evidenza si considera neutro o, peggio, naturale e soprattutto inemendabile. Questa vistosa falla conduce Ricolfi a personificare, suo malgrado, quello stesso marziano richiamato all’inizio: le ricette ricalcano così il mantra della crescita da rilanciare a tutti i costi, attraverso l’abbattimento dell’ipernormativismo – tanto per cambiare – e la meritocrazia, soprattutto a scuola e all’università, che nel frattempo hanno fatto in tempo a dimostrarsi fallimentari.

 

La guerra permanente contro il lavoro

Sarà pur vero che a parlare siano solo i numeri, come lo studioso ribadisce ossessivamente in varie interviste, ma l’impressione complessiva che si ricava è tutt’altra, di una condanna senza appello nei confronti di una società, la nostra attuale, che avrebbe abbandonato da tempo le virtù del capitalismo per ripiombare nei vizi del feudalesimo precapitalistico, basato sulla rendita e sul consumo parassitario. Si sarebbe potuto scoprire invece che una parte almeno di quei vizi, che si imputano a una volontà regressiva della società italiana, in realtà sono il portato dell’esasperazione di quello stesso modello economico tanto decantato che, strappando con la politica e agendo in proprio, ha fatto della competizione e della guerra al lavoro il suo unico credo, posto a fondamento di un nuovo ordine basato sulla sovranità del mercato. E’ forse questo il tarlo che sta consumando dall’interno il tessuto sociale e la democrazia, meno una presunta generazione di giovani viziati e non disposta al sacrificio, che caso mai sono il portato di un certo spirito del tempo e non la sua causa scatenante; così come l’infrastruttura semi-schiavistica, per quota parte, più che dal popolo indistinto dei presunti signori, è sfruttata e umiliata da un’agguerrita minoranza di veri signori che ne comprano la mano d’opera lecita e più spesso illecita e criminale, non solo al Sud, per ingenti e istantanei guadagni.

In conclusione la nostra società non è né signorile e né tanto meno «signorile di massa», ma soffre di quegli stessi mali acuti che si ripropongono parossisticamente come terapia. Spiace costatarlo, dissolvendo forse l’ultima illusione, ma l’attuale configurazione sociale non è un regresso ma rispecchia, anche da noi con le sue ovvie specificità, la forma neoliberista che nel frattempo il capitalismo si è dato, dichiarando una guerra permanente contro il lavoro e i ceti popolari.

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