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Foxconn, il lato oscuro della Mela

di Carlo Formenti

Nel 1984 un famoso video pubblicitario lanciò il computer Apple Macintosh. Lo spot sfruttava la coincidenza temporale fra l’evento commerciale e la fatidica data in cui George Orwell aveva ambientato il romanzo in cui descriveva un futuro distopico dominato da uno spietato regime dittatoriale: nel video una massa di persone tutte vestite allo stesso modo, le espressioni congelate in una smorfia di stupore inespressivo, marciano in silenzio fino a sedersi disciplinatamente davanti a uno schermo interamente occupato dal volto di un leader che li arringa. Finché nella sala irrompe una giovane donna – una sorta di icona sexy delle protagoniste dei movimenti studenteschi dei decenni precedenti – che lancia un grande martello contro lo schermo, sfondandolo e trasformando ipso facto la folla in un’adunata di individui, tutti capaci di immaginare la realtà a modo proprio.

“Think different” è in quegli anni lo slogan preferito dalla società fondata da Steve Jobs per promuovere le sue macchine, presentate come strumenti di “empowerment” del consumatore, in grado di esaltarne e liberarne la creatività, in opposizione al grigiore e al conformismo attribuiti ai prodotti della concorrenza. Per la sua insistenza sui valori di stile, eleganza, sofisticazione estetica e tecnologica, Apple è il colosso hi tech che più di ogni altro ha saputo incarnare, e tuttora incarna, lo stereotipo di quel lavoratore “creativo” che una certa sociologia ha posto ai vertici della società della comunicazione.

Anche sulla copertina del libro Morire per un iPhone, di Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden, appena uscito per i tipi di Jaca Book, si vede una folla di volti inespressivi (sono volti di robot “rubati” a un fotogramma del film Io, Robot, di Alex Proyas). Volti che evocano i protagonisti dell’altra faccia dell’impero targato Apple: dai “fighetti” creativi della Silicon Valley, che viaggiano con i loro inseparabili iPhone, ai milioni di operai cinesi che, per fabbricare quegli iPhone, ci lasciano la pelle.

Già in precedenti lavori (vedi fra gli altri Cina. La società armoniosa, sempre tradotto da Jaca Book) il team di sociologi cinesi guidato da Pun Ngai aveva analizzato le terribili condizioni di lavoro e di vita delle centinaia di milioni di operai cinesi (perlopiù giovani contadini emigrati dalle zone interne) schiavizzati dalle imprese multinazionali attirate in Cina dal basso costo del lavoro, dalla totale assenza di diritti e dai vantaggi fiscali e infrastrutturali offerti dal governo e dal partito comunista di quel Paese. In questa nuova ricerca l’attenzione si concentra sulla Foxconn, il colosso taiwanese che, in decine di stabilimenti sparsi per tutta la Cina, produce la quasi totalità degli smartphone, computer e tablet che utilizziamo (ed è il contractor pressoché esclusivo di Apple). A Shenzen e in altre città Mister Gou, il padre padrone di Foxconn, ha costruito dei veri e propri lager, dove centinaia di migliaia di giovani donne e uomini sono costretti a vivere (la maggioranza abita, dorme e mangia all’interno dei compound aziendali in alloggi degradati e superaffollati) e lavorare in condizioni di semi schiavitù (orari e ritmi massacranti, paghe irrisorie, disciplina militare).

L’attenzione dei media è stata attirata su questa realtà dai sucidi che, per alcuni lavoratori, sono diventati l’unica, terribile, forma di lotta per opporsi a questa condizione e denunciarla agli occhi del mondo. Una terribile “arma finale” cui è stato necessario ricorrere perché nessuno (sindacato, partito, amministrazioni locali, polizia) difende le vittime dai soprusi cui vengono sottoposte, né impone di rispettare le pur lasche regole in materia di salario minimo, divieto del lavoro minorile, tutela della salute, protezione dagli infortuni, ecc. Al contrario: partito, burocrati e funzionari locali collaborano attivamente ad “arruolare” decine di migliaia di giovani studenti, spedendoli in fabbrica con la scusa di far compiere loro dei percorsi di formazione professionale; mentre polizia ed esercito intervengono a reprimere con la violenza le rivolte che sempre più frequentemente scoppiano nelle fabbriche.

Recensendo il libro Alessandro Gilioli richiama l’attenzione sulla “filosofia” che governa Foxconn: il libretto dei pensieri di Mister Gou (derisoria parodia del libretto di Mao), gli slogan recitati in coro per rafforzare disciplina e spirito di gruppo, le punizioni con umiliazione pubblica del colpevole. Ma soprattutto coglie il punto essenziale: su ogni 100 euro che spendiamo per comprare un prodotto Apple, solo 1,8 euro vanno a chi lo ha fabbricato. Tradotto dalle cifre statistiche al crudo linguaggio della lotta di classe, ciò significa che il luccicante regno creativo di Apple non è qualcosa di diverso dall’inferno Foxconn; i ritmi spaventosi di lavoro che uccidono gli operai cinesi sono provocati dai tempi di consegna e dalle esigenze pressanti che Apple impone al suo contractor, così come i salari miserabili sono dettati dall’esigenza di mantenere i più elevati possibili i margini di profitto di quel “sistema” integrato che è Apple/Foxconn.

Eppure la resistenza non è fatta solo di disperazione e suicidi, nella copertina lo sguardo di uno dei robot (quello in prima fila a sinistra) sembra animato da una luce diversa, sembra guardarci dritto negli occhi. Forse non è molto diverso lo sguardo dei giovani militanti che, fra mille difficoltà, iniziano a organizzare quella rete di solidarietà e resistenza che, assai più delle ipocrite rassicurazioni della Apple sull’impegno a sorvegliare i suoi contractor perché adottino regole più umane nei propri stabilimenti, potrà in futuro cambiare le cose. Mentre per alcuni il libretto di Mao comincia a prendere il posto di quello di Gou. Inquietante? Forse, ma i giovani non conoscono gli errori e gli orrori del passato: sanno solo che in quel libretto si inneggiava all’uguaglianza e si diceva che ribellarsi è giusto.

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