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L’economia segreta dei fondi pensione

Maurizio Sgroi

L’altra faccia della previdenza, tanto nota quanto poco discussa, è quella rappresentata dai fondi pensione. Entità ormai stellari che muovono decine di trilioni di asset cercando di spuntare rendimenti per i loro iscritti, che poi saranno i pensionati di domani.

Ancor meno discussa è la circostanza che i fondi pensione rappresentino meno di un quarto del totale delle risorse che i cosiddetti investitori istituzionali hanno totalizzato.

L’Ocse, nel suo ultimo Pension market focus ci ricorda tali asset essere arrivati a fine 2013 a 96,6 trilioni di dollari, ossia all’incirca al livello, com’è logico che sia, del totale dei debiti corrispondenti.

Questa montagna di ricchezza se la spartiscono i fondi di investimento, per 34,9 trilioni, le compagnie di assicurazione, 26,1 trilioni, e i fondi pensione, per 24,7 trilioni. I fondi di riserve delle pensioni pubbliche arrivano ad appena 5,1 trilioni e al 1,8 trilioni arrivano da altri investitori.

Se restringiamo il focus sui fondi pensione, notiamo che l’indice valore asset/Pil, che dà l’idea del peso specifico di queste entità sul totale dell’economia, è passato dal 77,1% del Pil nel 2012 (dato medio riferito ai paesi Ocse) all’84,2 nel 2013. A significare perciò che queste entità crescono a rotta di collo.

Dovrebbe farci piacere dopotutto. In un’età in cui la previdenza pubblica mostra la corda, sapere che ci sono entità più o meno private che si occuperanno di garantire la nostra vecchiaia dovrebbe rasserenarci.

Però, vedete, mentre osservo il sorgere dell’alba di questi nuovi giganti, all’orizzonte intravedo anche alcune curiosità che trovo utile condividere con voi perché credo che ci aiutino meglio a capire che mondo si sta preparando. Perché accanto all’economia ufficiale dei fondi pensioni, ce n’è un’altra segreta, rappresentata dagli effetti che le strategie di investimento di questi soggetti finiscono con l’avere sui mercati internazionali.

I dati generali ci dicono che i rendimenti dei fondi pensione, nel 2013, sono stati positivi in media del 5,6% (dato riferito al’area Ocse) con il picco degli Usa (+11,7%) e la perdita dei fondi danesi (-4,7%), potendo godere degli effetti positivi dei vari allentamenti monetari.

La classe dominante degli asset è quella dei bond, che pesano il 52% del totale, ma in molti paesi, a cominciare dagli Usa, le azioni vengono subito dopo, con quota fra il 40 e il 50%.

Un altro dato merita di essere osservato, ossia la crescita impressionante del valore degli asset detenuti globalmente, che nel 2001 era di poco superiore a 10 miliardi e adesso è pressoché raddoppiata.

Ma è dall’analisi dell’aggregato che si evincono le informazioni più interessanti. I fondi pensione, infatti, con i loro 24,7 trilioni di asset gestiti rappresentano il 68% del totale degli asset pensionistici privati.

Negli Stati Uniti, dove queste entità sono fra le più ampie al mondo, i fondi pensioni hanno asset per l’83% del Pil, che perciò ogni anno devono circolare per il mondo cercando di far fruttare rendimenti sufficienti per i loro iscritti, molti dei quali, e questa è una circostanza poco apprezzata, hanno contratti a prestazione definita.

Questo non è un dettaglio di poco conto. I fondi si distinguono fra quelli che hanno una contribuzione definita, quindi l’iscritto sa quanto paga ogni mese, ma non sa fino a che non va in pensione quanto incasserà,  e quelli a prestazione definita, nei quali l’iscritto conosce la momento della sottoscrizione quanto sarà la sua rendita pensionistica.

Un grafico illustra chiaramente quale sia lo stato dell’arte in proposito. In Italia, ad esempio, si è optato in larghissima parte per fondi a contribuzione definita. In altri paesi, come il Cile, la Repubblica Ceca, l’Estonia, la Francia, la Grecia, l’Ungheria, la Polonia, la repubblica Slovacca e la Slovenia i fondi sono tutti a contribuzione definita.

Altri paesi, al contrario, hanno fondi a prestazione definita. I particolare, Svizzera, Germania e Finlandia, sono interamente a prestazione definita. In larga parte anche quelli canadesi. E questo spiega perché la politica dei tassi bassi perseguita dalla Bce innervosisca questi paesi.

Negli Stati Uniti i fondi a prestazione definita sono maggioritari, con oltre il 55% delle posizioni che sanno già a quanto ammoneterà pensione. O per lo meno i fondi sanno quanto dovranno pagare. E il punto, se ci pensate, è proprio questo.

Sappiamo infatti che nel 2013 gli asset dei fondi pensione americani pesavano il 56,3% del totale, quindi parliamo di oltre 13 trilioni. A fronte di ciò abbiamo oltre il 55% di posizioni aperte a prestazione definita. E ciò obbliga i gestori di questi fondi a fare whatever it takes, per citare un noto brocardo, per garantire le rendite ai loro iscritti.

Ciò vuol dire, in pratica, che alcuni milioni di persone, che casualmente risiedono nell’economia più forte del mondo, finiscono col determinare, anche se indirettamente, gran parte degli andamenti dei mercati internazionali, vista la quantità di asset che i fondi americani sono in grado di mobilitare. E il fatto che gli Usa siano in testa ai rendimenti illustra meglio di ogni altro ragionamento questa evidenza.

Poi c’è un’altra circostanza che vale la pena sottolineare: gli investimenti esteri di questa entità. Nella classifica redatta da Ocse spiccano, per la loro assenza, proprio gli Stati Uniti. Mentre i fondi pensione italiani nel 2013 hanno investito il 57,1% dei loro asset oltre confine, quarto paese dopo Estonia, Lussemburgo, Repubblica Slovacca, gli Usa nella selezione Ocse, che vede ultima la Turchia con l’1% del totale di asset investito all’estero, non ci sono. Ne deduco che i 13 mila e passa miliardi che queste entità gestiscono trovano confortevole ospitalità in patria o che perlomeno l’Ocse non ha ritenuto di censirle perché poco significative o magari per carenza di informazioni.

E’ chiaro a tutti che se così fosse, se vale a dire i fondi Usa investissero tutto a casa loro, si spiegherebbe molto del boom borsistico di questi anni nonché dei rendimenti a due cifre dei fondi americani.

Comunque sia, un’evidenza mi appare chiara, al termine di questa disamina: i nuovi rentier made in Usa sono i veri (e unici) pensionati del futuro.

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