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Trasformismo post-comunista

Salvatore Cingari

Fra gli anni Novanta e il nuovo millennio, il ceto politico post-comunista si è in Italia variamente riorientato in senso neo-liberale, con una tendenza a subire l’egemonia del fronte neo-conservatore e neo-liberista e, ovviamente, a far venir meno ogni presidio egemonico sulla base sociale. È passata alla fine l’idea che “riformismo” significasse destrutturare lo stato sociale, assegnando al “privato economico” una funzione liberatrice e pluralistica.

Tutta la resistenza al populismo anti-politico che, nonostante tutto, i post-comunisti italiani hanno in qualche misura esercitato, almeno fino alla trasformazione in Partito Democratico, essendo priva di un progetto alternativo a quello egemonico dominante, è diventata, analogamente, soltanto difesa strenua di una politica che, così separata dalla base sociale, per una sorta di dialettica hegeliana degli opposti, trapassa nel suo contrario: e cioè nell’anti-politica che si pensava di fronteggiare e che, ovviamente, mostrava di avere ben più appeal elettorale nelle sue formule populistico-mediatiche che in quelle di una nomenklatura mai abituata a giocarsi la partita del consenso, prima per via dei limiti posti dalla Guerra Fredda e poi per il suo radicarsi in aree del paese in cui il proprio potere non è in discussione.

Si è amato dire paternalisticamente (qui è il dalemismo che stiamo sottoponendo a critica) che i dirigenti politici devono essere “più avanti” delle masse dei propri elettori, implicitamente subendo un assorbimento nel pensiero unico elitista che da tempo domina la politologia. Da questo punto di vista la distanza fra il partito comunista di Togliatti e Berlinguer e i suoi epigoni è, certo, abissale, dato che il dirigismo di allora era calato in una realtà in cui il partito era a stretto contatto con i bisogni e la realtà partecipante delle masse, oltre a collocarsi in un fronte internazionale in cui le prospettive rivoluzionarie non erano mai del tutto tramontate.

Anche la critica del “giacobinismo” in politica, e cioè dell’idea di sottoporre l’esistente ad una critica razionale intorno a cui cercare il consenso delle masse è proprio ciò che contraddistingue la sinistra dal moderatismo. Non era “elitario” rifiutare di assecondare il ventre nazional-popolare del paese (che in alcune sue zone significa localismo razzista, in altre folklorismo paramafioso) cercando il suo consenso senza provare a suscitare in esso la coscienza dei propri reali interessi, ma era, per l’appunto, profondamente anti-trasformistico. E allo stesso tempo la critica dell’ “azionismo” come intransigenza riluttante ai compromessi, confliggeva non solo con la storia di Gramsci, che fonda il PCI proprio in nome di una politica intransigente, ma anche con la genesi stessa del comunismo italiano.

È stato persino invocato l’hegelismo per giustificare l’accettazione delle attuali politiche economiche: ma in tal modo quasi recuperando una visione crociana della dialettica, in cui nell’identificazione fra reale e razionale è il primo termine che prevale.

Inoltre c’è da accennare ad un altro punto per completare questa rassegna critica delle posizioni, diciamo così, della dirigenza post-togliattiana: e cioè l’idea che essa non debba ispirarsi alla socialdemocrazia, essendo quella degli eredi del PCI un’origine “gramsciana”, giustificandosi con ciò l’accettazione (con più o meno correttivi) dell’attuale gestione neo-liberista della politica europea con le sue annesse “riforme” volte alla distruzione del Welfare e dei diritti dei lavoratori. Ma per Gramsci il problema era non solo contrastare un interventismo statalistico volto a tutelare le concentrazioni di capitale privato (triangolate, in Italia, già da allora, con il ceto politico e la grande stampa), ma opporsi a queste stesse.

Inutile invece spendere troppe parole sul carattere “trasformistico” dell’altra anima del partito post-comunista italiano, e cioè quella “nuovista” (e cioé veltroniana), che ha “trasformato” senza troppe mediazioni culturali i propri riferimenti in una piattaforma liberal all’americana in cui scompaiono il problema della disuguaglianza economico-sociale, quello degli effetti socialmente distruttivi del mercato deregolamentato e quello del potere coercitivo esercitato attraverso i media e le merci, in una sorta di grande sogno “americano” fuori dal tempo. In realtà questa versione del partito di centro-sinistra, tutta incentrata sulla società civile, finisce per condividere con quella “politicista” la stessa tendenza alla subalternità verso le istanze e i valori degli avversari, sebbene in questo caso ciò avvenga non attraverso un’alleanza in cui si viene a subire l’egemonia del partner, ma per una vera e propria mutazione genetica e trapasso nell’”altro”. Una visione tutta incentrata sulla “società degli individui” ha aperto il varco, anche grazie al predetto cedimento neo-liberistico, alla progressiva affermazione del mainstream neo-liberale e talvolta anche neo-conservatore (si pensi a certi spunti securitari e neo-identitari) nel soggetto politico post-comunista e nella sua base sociale, a sua volta sempre più assoggettata alle nuove forme di produzione dei valori basate sul mercato e sull’industria culturale.

Questo è il terreno su cui la politica può definitivamente essere ridotta ad amministrazione “tecnica”. In cui, cioè, si rinuncia ad ogni prospettiva di progettualità trasformatrice per abdicare ad una realtà naturalizzata caratterizzata soltanto da una logica economica e tecnologica di tipo strumentale. In essa, sulla base magari di uno stato di eccezione permanente definito “crisi”, viene considerato “necessario” per tutti ciò che in realtà corrisponde ad un interesse particolare di classe. Ma questo è anche il terreno su cui può dilagare la colonizzazione dell’area politica di centrosinistra da parte di un neo-populismo di mercato, questa volta non “trasformato” in quanto del tutto estraneo alla tradizione del movimento operaio italiano. Stiamo ovviamente parlando del “renzismo”.

Proprio mentre il berlusconismo sembra tramontare con la persona da cui il fenomeno prende il nome, cioè, esso celebra la sua più profonda vittoria mostrando di aver improntato di sé l’intero sistema politico e di valori. Non si tratta soltanto del fatto che anche in area democratica l’agire politico tenda alla personalizzazione leaderistica, votata ad una legittimazione popolare diretta, al caratterizzante utilizzo del marketing e dell’elemento “spettacolare”, oltre che al puntello economico di potenti lobbies. Ma si tratta anche e soprattutto del fatto che il nuovismo giovanilistico (fenomeno, peraltro, importante nella fenomenologia dei movimenti fascisti della prima metà del Novecento) costituisce oggi, come ieri lo furono il leghismo e il berlusconismo, la risposta anti-politica alla crisi dei partiti, il trascendimento populistico della loro autoreferenzialità, che, vendendosi come merce nuova, riproduce in realtà – ma in forme più dirette e prive delle mediazioni sociali e culturali a cui la politica tradizionale doveva il suo tributo – il medesimo blocco d’interessi confindustriale e locale-privatistico. I riferimenti della tradizione politica costituzionale-repubblicana vengono sostituiti da quelli della cultura di massa, che viene vista, per le nuove generazioni, come grande collante integrazionista, nell’esigenza “post-moderna” di sciogliere i legami con la memoria storica della democrazia italiana, ancorandola all’atemporale vuoto pneumatico in cui cresce lo spettatore-consumatore: una cittadinanza, cioè, trasformata in “pubblico” pagante.

Il “renzismo” attua sostanzialmente quello che dalemismo e veltronismo non riuscivano a mettere in pratica. I poteri forti e mediatici, infatti, invano corteggiati dal precedente ceto politico post-comunista, accorrono ora senza remore alla corte del nuovo sovrano democratico, che non ha più la necessità di rendere compatibili le controriforme con le esigenze degli insediamenti tradizionali della sinistra: sindacati, associazionismo diffuso, circoli intellettuali. Il “decisionismo”, corroborato dallo stato d’eccezione della crisi, non deve più fare i conti con l’eredità costituzionale e antifascista della centralità della rappresentanza politica pluralistica.

Il “giovanilismo” e il marketing post-democratico possono non fare alcuno sconto al gusto del “ceto medio riflessivo”. Ora i moderati, a lungo rincorsi dai DS, si saldano al vecchio elettorato di centrosinistra “trasformato” in un nuovo liquido blocco storico, a sostegno di una piattaforma neo-liberista che, se fosse stata portata avanti dai governi di Berlusconi, avrebbe portato a sollevazioni di piazza e a indignate campagne stampa del “Corriere della Sera” e di “Repubblica”. La residuale sinistra radicale si è peraltro sfarinata per una perdita di consenso dovuta a un processo a sua volta trasformistico, per cui i programmi politicamente alternativi sono continuamente smentiti dalla tendenza a ricostituire alleanze con un Partito Democratico, con cui poi vengono divise risorse e rendite di potere.

* Questo testo riproduce, con cospicui tagli e adattamenti, il quarto paragrafo del saggio Gramsci, il trasformismo e l’Italia della globalizzazione, uscito in A.Simoncini, Del pensiero critico. Filosofie e concetti per il tempo presente, Mimesis, 2015, pp. 305-312. Ad esso si rimanda anche per la relativa documentazione. Questo testo è uscito in forma ridotta ne Il grandevetro, rivista bimestrale di immagini, politica e cultura.

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