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La divergenza bancaria fra Usa e Ue (e Giappone)

di Maurizio Sgroi

In tempi di divergenza monetaria diventa interessante osservare come stiano reagendo le banche, ossia l’oggetto della costante preoccupazione degli osservatori. Ci viene in aiuto l’ultimo quaterly report della Bis, che va abbastanza in profondità per offrirci una visione aggiornata delle complessità con le quali gli istituti di credito devono fare i conti. Fra queste primeggia l’andamento calante dei tassi di interesse, che erode i margini e conseguentemente la redditività, finendo con l’indebolire notevolmente le aspettative e quindi l’appetito degli investitori.

Non è certo un caso che a pagare il prezzo più salato all’indomani di Brexit siano state proprio le banche. All’indomani del referendum l’indice Euro Stoxx Banks ha perduto il 18%, “il maggior calo mai registrato”, nota la Bis. L’azione delle banche centrali, in particolare di quella britannica, ha consentito lievi recuperi. Ma all’inizio di settembre “le azioni degli istituti di credito dell’area euro erano scambiate a meno del 50% del valore contabile del proprio patrimonio netto, a indicazioni di preoccupazioni crescenti circa la loro capacità di generare profitti in un contesto di tassi bassi e crescita debole”. In questo contesto è apparsa con grande chiarezza la divergenza fra le banche euro-giapponesi e quelle statunitensi che questo grafico fotografa con grande chiarezza, a cominciare dalle valutazioni di borsa.

In questa temperie si comprende perché le banche giapponesi, nel tentativo i recuperare reddito, abbiano venduto grandi quantità di titoli di stato nel corso del secondo trimestre 2016. Così facendo hanno più che raddoppiato i proventi netti da negoziazione, ma è evidente che si tratta di misure di respiro corto. “Il contesto di tassi di interesse negativi e la crescita economica persistentemente debole – sottolinea la Bis – hanno continuato a erodere gli utili, spingendo le valutazioni azionarie su nuovi minimi”.

Sicché è emersa prepotente la divergenza. “I risultati positivi delle banche statunitensi – osserva la Bis – hanno accentuato il divario con Europa e Giappone. Gli utili delle sei maggiori banche statunitensi hanno soddisfatto o superato le aspettative nel secondo trimestre, mentre la maggior parte del settore ha ottenuto risultati soddisfacenti alle prove di stress della Fed, a eccezione delle controllate di due banche europee. I margini netti di interesse sono rimasti sostanzialmente stabili dal rialzo dei tassi di dicembre della Fed”.

Questo andamento è chiaramente visibile osservando l’andamento del ROE (return on equity) fra le banche delle aree geografiche considerate. Il grafico elaborato dalla Bis mostra che le banche Usa hanno visto crescere costantemente il ritorno sul capitale dal 2010 in poi, seppure con un andamento incerto, al contrario di quanto è avvenuto per le banche europee, che fino al 2014 hanno oscillato fra lo zero e il negativo, per riprendersi solo negli ultimi due anni, ma rimanendo ben al di sotto del livello Usa. Le banche giapponesi, dal canto loro, hanno iniziato a declinare dal 2014, man mano che si sviluppava la divergenza monetaria generata dalla politica delle banche centrali, e ancor peggio è andata alle banche inglesi, che sono il fanalino di coda con un ROE che punta decisamente verso lo zero.

Che tale situazione dipenda sostanzialmente dalle scelte di politica monetaria è poco dubbio. “Nell’attuale contesto di tassi di interesse persistentemente bassi e di compressione dei premi a termine, la bassa redditività mette in discussione i tradizionali modelli di business delle banche”, scrive la Bis, rilevando come gli investitori rimangano scettici circa la possibilità che le banche tornino a generare utili. “La redditività è pregiudicata dall’appiattimento delle curve dei rendimenti. I tassi a lungo termine sono scesi, soprattutto nei paesi in cui gli investitori si aspettavano che i tassi a breve rimanessero bassi più a lungo e dove le banche centrali hanno avviato programmi di acquisti di attività su vasta scala per comprimere i premi a termine”.

Questa tendenza di lungo periodo può contrastare con quella di breve periodo nel quale le banche possono trarre vantaggi dai tassi bassi in virtù delle plusvalenze ricavate dalla vendita di asset e dai tassi passivi più bassi che possono spuntare sul mercato per piazzare i propri debiti e gestire la raccolta bancaria. Ma alla lunga questi vantaggi svaniscono. “Nel lungo termine -sottolinea ancora – l’appiattimento della curva può spingere al ribasso i rendimenti ottenuti dalla trasformazione delle scadenze e comprimere i margini netti di interesse”.

Come se non bastasse, a lungo andare emerge un altro fattore critico. “Via via che i tassi di interesse calano e si spostano in territorio negativo, il repricing delle passività in linea con le attività allo scopo di proteggere i margini diventerà sempre più difficile”. Anche perché le banche non sono granché disposte a scaricare i tassi negativi sui depositanti. “Di conseguenza, le pressioni sui margini netti di interesse sono particolarmente pronunciate nei paesi con tassi di interesse negativi”. Come esempio viene citato quello delle banche danesi, svedese e svizzere, dove la compressione dei proventi lordi da interessi ha superato i vantaggi della riduzione degli oneri per interessi, con la conseguenza che i margini netti di interessi sono diminuiti.

In sostanza, se i tassi bassi o addirittura negativi potevano essere gestiti nella fase iniziale delle politiche monetarie non convenzionali, adesso risulta chiaro che alla lunga tutto ciò finirà col danneggiare le banche. La divergenza con gli Usa, avviati seppure fra mille incertezze verso la normalizzazione monetaria a differenza di quanto si prevede in Europa e Giappone, è destinata perciò ad aggravarsi. Sicché le banche Usa, che così tanto hanno contribuito alla crisi del 2008, oggi stanno bene, mentre quelle euro-giapponesi, che l’hanno subita, sono inguaiate. Questo nel caso aveste dubbi su chi regge il gioco della finanza internazionale.

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