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Soggettività radicali contro la nuova ragione del mondo

Neoliberalismo e movimento in Francia

Loris Narda intervista Pierre Dardot

A margine del convegno “Logiche dello sfruttamento” organizzato da Federico Chicchi il 21 ottobre all’università di Bologna, abbiamo intervistato Pierre Dardot, studioso francese negli ultimi anni particolarmente noto in Italia per i libri scritti con Christian Laval, La nuova ragione del mondo e Del comune, entrambi editi da DeriveApprodi, come quello di recente pubblicazione, Guerra alla democrazia.

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All’ottavo anno di inizio dalla crisi globale, qual è lo stato delle politiche neoliberali in Francia, come si è evoluta la governamentalità e quali sono le prospettive di ulteriore sviluppo di questi dispositivi?

Innanzitutto è necessario sottolineare come non ci sia alcun rapporto tra la crisi che stiamo vivendo oggi con le politiche che la accompagnano e la Grande Crisi del 1929/’30, troppo spesso si assiste a una comparazione di questi due periodi storici. Tra coloro i quali hanno sostenuto questa comparazione c’è Joseph Stiglitz, che nel 2008 ha pubblicato un articolo in cui sosteneva la fine del neoliberismo, sbagliandosi completamente a mio avviso, credendo che avremmo assistito a un ri-orientamento – così come era accaduto negli anni ’30 negli Stati Uniti – delle politiche pubbliche a seguito della crisi, cosa che in realtà non si è verificata.

È necessario sbarazzarsi dell’idea secondo la quale la crisi sia una sospensione di quella che è l’ordinarietà, una sorta di intervallo rispetto a “tempi normali”: in realtà oggi assistiamo a una crisi che diventa permanente, che diviene una specificità del neoliberalismo nel modo di orientare le condotte e di governare. Ricordiamo anche l’origine della parola crisi che in greco che vuol dire “giudicare, decidere”. Abbiamo assistito a piccole esitazioni, per un periodo molto breve, nell’arco di sei mesi le classi dirigenti dei paesi a capitalismo avanzato hanno iniziato a produrre una certa retorica in merito alla necessità di moralizzare il capitalismo, di mettere fine a quelli che erano stati gli “eccessi” che avevano determinato la crisi, ma quello che si è verificato successivamente è stato questo: abbiamo assistito a una ingiunzione nei confronti dei cittadini che hanno dovuto ri-finanziare e ripagare quel buco che era stato creato dalle banche e quindi rafforzando quel dispositivo neoliberale.

 

A proposito del dispositivo di comando neoliberale, qualche tempo fa avevamo individuato il debito come uno dei principali meccanismi di produzione di soggettività; qual è la trasformazione di questa architettura disciplinare negli ultimi anni?

La questione del debito rimane centrale all’interno del dispositivo di governo, ma bisogna fare una distinzione dentro il suo meccanismo: da un lato abbiamo il tentativo da parte delle governamentalità neoliberale di orientare delle condotte, e il debito studentesco è un'esemplificazione di ciò, in quanto viene visto come anticipazione di un futuribile reddito prodotto dalle competenze acquisite grazie a questo debito contratto per la formazione, quindi un governo delle condotte sottile e non troppo evidente; dell’altro, abbiamo il debito che si configura come un’arma brutale nei confronti degli stati. Un esempio lampante è quello della Grecia: l’Unione Europea dice allo stato greco di rimborsare il debito, perché qualora questo rifinanziamento non dovesse avvenire l’economia verrà strangolata. Bisogna mantenere bene questa distinzione.

 

La nuova riforma del governo francese,la Loi Travail, da un lato come si inserisce all’interno delle riforme globali del lavoro, in Europa portate avanti principalmente da governi di centro-sinistra, come la Hartz 4 di Schroeder o il Jobs Act di Renzi? E quali sono le specificità francesi?

La Francia aveva accumulato un certo “ritardo” dal punto di vista delle regole neoliberali, come la Hartz 4 di Schroeder, o le riforme di Tony Blair o di Matteo Renzi, perché prima della Loi Travail non c’era stata alcuna riforma neoliberale che andasse verso la flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro. Quindi, l’obiettivo del governo francese era quello di eliminare il ritardo accumulato negli anni. D’altronde lo stesso Hollande ha dichiarato che per quanto questa riforma possa determinare un effetto impopolare, per lui era importante lasciare un segno del suo senso dello stato, dell’impegno profuso per la forza lavoro francese e della necessità di rifarsi a quelli che erano gli esempi vincenti come quello di Schroeder.

 

Come ci descrivi, dall'interno del contesto francese, le mobilitazioni contro la Loi Travail?

Il primo punto da mettere in rilievo rispetto al movimento che si è opposto a questa legge è che la prima manifestazione, quella del 9 marzo, è stata completamente spontanea, partita da una petizione online che aveva raccolto milioni di firme, supportata dai sindacati ma in alcun modo organizzato da loro; per la prima volta da molto tempo si sentivano nuove parole d'ordine.

 

Quali sono le prospettive che ha aperto questo conflitto sociale in Francia?

Ricordiamo che il movimento è nato durante lo stato d’emergenza, che vigeva dagli attentanti dell'anno scorso; nonostante ciò è stato in grado di riaprire nuove frontiere di riflessione e di dibattito, ma le istanze del movimento sono state ripiegate sulle elezioni presidenziali che hanno ripreso l'egemonia del dibattito.

Ciò che non dobbiamo assolutamente mettere da parte del movimento è la sua insistenza sulla necessità di abbandonare il sistema democratico-rappresentativo così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, e di riportare il terreno del dibattito e dello scontro sulla democrazia radicale, che preveda un coinvolgimento di tutte le soggettività presenti all'interno del reticolo sociale, e che dunque tutti possano partecipare a quelle che sono le decisioni politiche che interessano le nostre vite.

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