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I voucher, l’autogol della CGIL e l’attacco al sindacato

di Marta Fana

Che assist, che autogol! Staranno ancora ridendo tutte le lingue allenate a battere i tamburi, gaudenti della pessima figura di un pezzo della CGIL. E sì, perché si è scoperto che anche una sezione di una categoria, quella dei pensionati (Spi-Cgil di Bologna) ha utilizzato i voucher. Sicuramente non  l’unica, e questo di certo è un problema. Un problema per i lavoratori, innanzitutto.

Ma la questione è più complessa, soprattutto in termini di narrazione. L’attesa per la pronuncia della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti referendari, tra cui l’abolizione tout court dei voucher, quale strumento di regolazione delle prestazioni di lavoro, è frenetica e non meno tesa. Da settimane, o meglio dal 4 dicembre – all’indomani della sconfitta referendaria sulla Costituzione – i megafoni del governo e dell’intero blocco di potere italiano non fanno altro che sfornare interviste e articoli post-verità sui buoni lavoro.

Più volte è stato sottolineato come le argomentazioni edotte siano fallaci alla luce della realtà, sintetizzata dai dati statistici a disposizione. Primo tra tutti, la tesi per cui i voucher sono indispensabili per combattere il lavoro irregolare è semplicemente falsa. Gli strumenti normativi a disposizione delle imprese, dei privati e delle pubbliche amministrazioni per regolare rapporti di lavoro saltuari e di breve durata, anche nell’arco della giornata, esistono e sono antecedenti l’introduzione dei voucher. Questo basta per spiegare che il ruolo dei voucher è altro e cioè la definitiva messa al bando dei diritti dei lavoratori, l’abbattimento di ogni principio democratico nell’organizzazione del lavoro e, dulcis in fundo, la semplificazione totale per l’abbattimento del costo del lavoro via deflazione salariale (presente e futura).

Nel dibattito contingente, legato più alle geometrie di potere che ai diritti dei lavoratori, scagliarsi contro la CGIL fa emergere due riflessioni di fondo.

Innanzitutto, è giusto avere memoria degli errori storici della CGIL nell’ultimo ventennio, errori legati certamente alla scarsa autonomia rispetto alla politica dell’attuale partito democratico e delle sue meno recenti vesti (DS, Ulivo, vocazioni maggioritarie ecc). Di questo dovrebbe esserne cosciente prima di tutto lo Spi CGIL che avrebbe dovuto guidare una mobilitazione a tutto spiano durante l’approvazione della Riforma Fornero, che non soltanto modificava le regole sui pensionamenti, ma liberalizzava in modo indiscriminato i voucher. Responsabilità che nessuno si sente di sottrare alla più grande organizzazione del lavoro, che ha mostrato cedimenti e subalternità nei confronti di una politica che da centro-sinistra ha sferrato l’attacco progressivo ai diritti dei lavoratori. La mancata opposizione intransigente a quella riforma, che ha abbracciato tutti gli aspetti del mercato del lavoro, dalle pensioni ai voucher, fino all’articolo 18, è stato un errore.

Preso atto di ciò, bisogna chiedersi se siamo disposti a rinunciare a riappropriarci dei diritti che sono stati tolti e di quelli che ci son sempre stati negati per un errore storico. Scagliarsi oggi contro la Cgil che, con tutte le contraddizioni, ha comunque condotto la raccolta firme per i referendum abrogativi, grazie soprattutto a quella parte dell’organizzazione che ha sostenuto l’iniziativa in modo fermo ma democratico, significa cedere diritti per il rancore, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore delle ipotesi significa assumere la posizione di chi contro i lavoratori c’è sempre stato, almeno nell’ultimo ventennio.

Non esiste terza via. O si sta con i referendum o si sta contro.  Ai lavoratori occupati e non, la guerra contro la Cgil non produce alcun effetto, non sul terreno dei referendum almeno. Di conseguenza, chi supporta tale attacco oggi sta attaccando i lavoratori e la possibilità di determinare un avanzamento nelle loro condizioni di vita attraverso lo strumento referendario. Sicuramente, dal punto di vista politico è poi possibile dibattere se questi referendum siano o meno un punto d’arrivo o d’inizio, come ritiene chi scrive, ma tutti gli obiettivi più organici, rivendicativi e strutturali non possono prescindere dalla tutela reale del lavoratore (l’articolo 18), così come dall’abolizione dei voucher.

La seconda considerazione è legata alla prima e attiene alla dialettica intera al sindacato di Corso d’Italia. La delegittimazione in corso a mezzo di stampa non può essere considerata estranea all’organizzazione, ma va rintracciata nel conflitto interno alla CGIL. Contrariamente a quanto sostiene Staino dalle pagine dell’Unità, la Cgil non è un corpo unico e prova ne è l’atteggiamento già adottato in vista degli scorsi referendum, dalle trivelle a quello costituzionale del 4 dicembre. Pezzi di segreterie e vertici hanno votato insieme al governo, o più precisamente in linea con il PD a conferma che il legame tra pezzi di Cgil e Partito democratico non è mai stato reciso, nonostante tutto. Un aspetto rilevante per comprendere da dove arriva l’attacco ai referendum, che secondo chi scrive è interno prima ancora che esterno. La volontà di far fallire il tentativo referendario opera in continuità alla volontà di affermare quella linea subalterna che ha provocato gli errori storici di cui si è detto.

In ragione di ciò, cavalcare l’onda contro la Cgil in questo preciso momento storico implica il rafforzamento delle posizioni più conservative del sindacato, le stesse che hanno impedito al sindacato di farsi portatore della tutela dei diritti dei lavoratori. Più in generale, queste posizioni interne al sindacato sono ostacolo alla capacità di operare oltre la burocratizzazione dell’apparato e adottare una visione complessiva che abbracci oggi non soltanto chi già vive, seppure in condizioni sfavorevoli nel mondo del lavoro, ma tutti coloro che ne sono esclusi: i disoccupati, i marginalizzati, gli inattivi.

Unirsi al coro di delegittimazione della Cgil per disinnescare i referendum sociali colpisce il mondo del lavoro: i lavoratori non la CGIL. Potere padronale e arrivisti della politica dal PD a Grillo hanno tutto l’interesse a farlo, mostrando ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che gli interessi che oggi promuovono e tutelano non sono quelli dei lavoratori bensì della parte più forte, di chi percepisce quotidianamente il lavoro come un costo, una merce. Lo stesso vale per tutti coloro che dalle pagine dei giornali e dalle comode poltrone inveiscono contro il sindacato mentre i propri collaboratori vengono pagati pochi euro ad articolo e vivono in balia del ricatto intrinseco allo stato di precarietà. Non stupisce nel momento in cui i collaboratori e i giornalisti precari possono, grazie alla vittoria referendaria, rivendicare senza mezzi termini e forti dei propri diritti tutele e salari dignitosi. Uno spettro di giustizia sociale vissuto come un incubo da chi sul precariato costruisce quotidianamente la propria posizione di potere, di ricatto.

Da questo bisognerebbe partire per decidere da che parte stare durante la campagna referendaria che anche in questo caso non è limitata all’affermazione di tre ambiti di diritto per i lavoratori, bensì alla costruzione di un processo molto più lungo e impegnativo per il rovesciamento dei rapporti di forza nella società, nella politica, nel sindacato.

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