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manifesto

La comune legge

I piccoli protezionisti del mercato

Ugo Mattei

La parola d'ordine è che serve una «nuova Bretton Woods». Per stabilire però norme non vincolanti per gli stati nazionali. In nome della continuità, per escludere i paesi emergenti e le vittime del neoliberismo dalle decisioni necessarie per uscire dalla recessione economica

br9 pasticcioDifficile immaginare un gruppo più screditato rispeto a quello dei ministri economici del G7 che si è tenuto a Roma in vista dello sfoggio muscolare annunciato per quest'estate alla Maddalena, quando i capi di stato degli otto paesi più industriailizzati si incontreranno per decidere la sorte del mondo. Un gruppo di impotenti «ex potenti» che si ritrova per discutere di una crisi di fronte alla quale non ci sono che due certezze dettate dal puro buon senso: a) che essa è la conseguenza strutturale di un modello di sviluppo capitalistico di cui i paesi del G7 sono stati, chi più chi meno, i principali interpreti da Bretton Woods (1944) in poi; b) che la soluzione della crisi non può essere indicata dagli stessi interpreti che l'hanno causata. In primo luogo, per la «dipendenza da percorso» (path dependency) che li rende del tutto prigionieri di modi di pensare superati. In secondo luogo, perchè essi continuano a non dialogare con quei soggetti politici internazionali con i quali viceversa si dovrebbe concertare qualsiasi via d'uscita. Mi riferisco da un lato ai paesi del Bric (Brasile, Russia, India, e Cina), dall'altra a rappresentanze estese dei continenti che più hanno subito (e ancor stanno subendo) gli effetti della dissennata politica del saccheggio post-coloniale, dal mondo arabo all'Africa al Sud Est Asiatico al cono sud Americano solo per citarne alcuni.

In questo scenario surreale, con i generali senza truppe in preda ai sussulti finali di un delirio di onnipotenza inconcludente, si invoca l'intervento del «diritto» e delle «regole». Si cerca così di mettere all'ordine del giorno la necesità di produrre dei legal standards per ovviare al Far West finaziario; standards, si fa intendere,dalla vocazione potenzialmente espansiva che si candidino a disciplinare una nuova globalizzazione delle regole, senza perciò «limitarsi» alla finanza.

Si invoca il diritto come strumento di posa in opera di alcuni concetti (spesso stravolti) che sono stati frettolosamente ripescati dall'ideario ocidentale, più per ragioni simboliche che di effettivo contenuto: a) pensare ad una nuova Bretton Woods; b) non cedere alle «sirene» del protezionismo; c) dar vita ad una nuova stagione keynesiana in cui, come riportato dalla copertina ultima dell'Economist, la bibbia del pensiero economico dominante, «siamo tutti un pò socialisti».


Flessibilità delle regole


Nell'improvvisazione arrogante e di breve periodo tipica del nostro capitalismo-spettacolo, a queste vaghe invocazioni non segue alcuna analisi seria, neppure una verifica della fattibilità sui due versanti minimali della non contraddittorietà delle politiche che si vorrebbe rendere possibili attraverso il diritto. Né ovviamente ci si interroga sulla possibilità strutturale del diritto di servire alla bisogna.

Gioverà perciò qui cominciare almeno ad indicare qualche tensione e qualche implicazione di questo tentativo di risolvere la crisi attraverso questi non ben definiti legal standards.

Innanzitutto, nella letteratura gius-economica soprattutto nord-americana l'idea di standard si contrappone all'idea di regola (rule), un po' come nel diritto dell'Unione Europea l'idea di una «direttiva» si contrappone a quella di un «regolamento». Lo standard, come la direttiva, fissa flessibili criteri di scopo senza disciplinare in dettaglio i comportamenti sociali ammissibili o meno per raggiungerlo. Si possono rispettare standards con un'ampia pluralità di comportamenti (uno standard giuridico nella tradizione di common law è la «ragionevolezza» o in quella continentale il comportamento del «buon padre di famiglia») mentre una regola definisce il comportanmento in dettaglio. Per esempio, nella disciplina del traffico urbano si preferiscono regole (non guidare oltre 50 chilometri orari; non imboccare una strada con cartello senso unico in direzione vietata) piuttosto che standards tipo «guidate con prudenza e ragionevolezza», utilizzato come criterio generico vigente in mancanza di ordini specifici.

Gli standards sono assai più pluralisti rispetto alle regole. Per esempio, ciò che viene considerato del tutto ragionevole alla guida in India comporterebbe l'immediate traduzione in galera in California o in Svizzera. Non a caso, è molto più facile ottenere consenso politico internazionale su uno standard piutosto che su una regola. Per esempio fin dal 1985 in Europa si è accettata una direttiva (contenente standards) per la responsabilità civile del produttore, mentre è sempre stato molto più difficile accordarsi sulle regole del diritto civile. Infatti i governi sanno che «il diavolo è nei dettagli» e perciò accettano standards assai più agevolmente che regole perchè così mantengono discrezionalità e potere in fase di esecuzione. Tant'è che la giurisprudenza della Corte Europea di Lussemburgo (che presiede alla corretta interpretazione nazionale del diritto dell'Unione europea) si configura storicamente come un progressivo tentativo di trasformare le direttive da standards a regole, cercando creativi strumenti per renderne alcuni contenuti oggettivamente ed immediatamente vincolanti.


Scelte unilaterali


Il capitale globale (e i governi occidentali, ormai da tempo trasformati in «consigli di amministrazione» che ne curano gli interessi), non teme perciò gli standards (sovente indicati anche come soft law) tant'è vero che quando davvero vuole utilizzare la spada del diritto utilizza regole eccome! Si pensi alle regole in materia di proprietà intellettuale contenute nei Trips (Trade related aspects of intellectual property, a loro volta parte del Wto) o a quelle che disciplinano l'immigrazione dei lavoratori.

Invocare una nuova Bretton Woods «minacciando» l'introduzione di standards è perciò una operazione puramente cosmetica. In realtà Bretton Woods è già stata unilateralmente svuotata di contenuto con la rinuncia all'ancoraggio del sistema monetario internazionale all'oro (il cosiddetto gold standard), e trasformata così del tutto visibilmente in bracco armato del capitalismo finanziario statunitense: ancor più di quanto già non fosse nel 1944 una accordo volto a blindare la supremazia anglo-americana. Viviamo perciò già da quasi quarant'anni sotto una «nuova Bretton Woods».

Ha senso immaginarne un'altra adesso per consacrare l'emergere di nuove potenze escludendole al contempo dal tavolo dei lavori? Ovviamente non vi sarebbe nulla di «nuovo»: soltanto la riproduzione pervicace della stessa logica della crescita e della soluzione dei problemi del capitalismo tramite una sua espansione quantitativa. La «nuova Bretton Woods» cerca soltanto riparo dalle forze che potrebbero far tesoro della crisi per raggiungere finalmente una trasformazione qualitativa del nostro modello di sviluppo suicida.

Molti dubbi dovrebbero poi sorgere sulla serietà di chi dice di non voler «cedere alle sirene del protezionismo» e sostenga al contempo un ritorno a Keynes (per giunta vestito di panni per lui osceni del socialismo!). è evidente che il mainstream oggi brancola nel buio della propria ignoranza storica. Mai contradizione in termini potrebbe essere piùnetta. La possibilità (e io direi la desiderabilità) di un keynesianismo globale (privo del protezionismo che ne è sempre stata la sola effettiva forza) costituisce una pura manifestazione di velleitarismo o forse una nuova insopportabile manifestazione di falsa coscienza da parte dei poteri ad oggi dominanti.


Salvarsi dalla catastrofe


Dal G7 sta pertanto uscendo l'indicazione di raggiungere con mezzi del tutto inadeguati (gli standards) dei risultati del tutto contraddittori (un keynesismo «socialista» non protezionista!). Risultati che, proprio in quanto contraddittori, si pongono in piena continuità rispetto all'ipocrisia e alla violenza predatoria neoliberista. Senza alcuna soluzione di continuità rispetto alla «castrazione» della Bretton Woods di Keynes avvenuta con la «liberazione» del dollaro dallo standard dell'oro, si cerca nuovamente di far pagare la crisi a quanti appaiono meno forti. Per questo non li si invitano ai processi decisionali. Con l'idea dei legal standards si cerca insomma di muoversi d'anticipo, fissando l'agenda ed il vocabolario con cui si vorrebbero trasferire i costi di questa catastrofe nell'esclusivo interesse del capitale finanziario globale.

Ma le vie nuove da esplorare sono ben altre e con queste occorre confrontarsi perchè presumibilmente sapranno conquistare la scena, invitate o non invitate. In prima battura occorre dire forte e chiaro che la distorsione più profonda deriva dal fatto che alla libera circolazione del capitale non corrisponde la libera circolazione del lavoro. Se si vogliono mantenere le frontiere aperte per il capitale occorre aprirle per il lavoro, togliendo di mezzo le più barbare fra le politiche protezionistiche esacerbate dal neoliberismo e mai contestate dal mainstream economico, quelle che colpiscono i migranti.

Per converso, se si vuole cercare di tener chiuse le frontiere ai migranti non si possono che chiuderle anche al capitale finanziario.

Occorre poi fare i conti col fatto che la legalità globale che si invoca parlando di legal standards è un fantasma del tutto privo di legittimazione politica se non quella proveniente dall' essere al servizio del capitale e quindi della violenza del più forte. Occorre perciò confrontarsi sulle dimensioni della democrazia possible, e sul riarmo degli strumenti capaci di realizzare una politica dei servizi che garantisca l' essere e non soltanto l' avere e l' accumulo. Insomma, la critica del «doppio standard» nel diritto (per i ricchi e per i poveri, per i cittadini e per i migranti, per il capitale e per il lavoro, per il pubblico e per il privato) deve precedere la discussione sui legal standards.

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