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Dal 1931 al 2010

Roberto Artoni e Carlo Devillanova

Introduzione

In una precedente nota (Dal 1929 al 2008, Short Note Econpubblica, novembre 2008.) avevamo sottolineato che fattori finanziari, reali e culturali comuni erano riconoscibili nell’innesco della crisi del ‘29 e di quella iniziata nel 2008. Sottolineavamo anche che raramente la storia si ripete, pur riconoscendo che esistevano elementi di preoccupazioni derivanti, in particolare, dall’ideologia economica dominante.

Effettivamente, le politiche di sostegno della domanda adottate in molti paesi hanno impedito un approfondimento della caduta dei livelli di attività. In altri termini, l’allontanamento dall’ortodossia neoclassica, con il generico richiamo a impostazioni keynesiane, ha consentito, da un lato, un rimbalzo sia pur limitato, della produzione e, dall’altro, ha evitato la ripetizione delle vicende dei primi anni ’30, quando la caduta della produzione industriale a livello mondiale è continuata per 38 mesi dal giugno 1929 (per i necessari riferimenti statistici si veda B. Eichengreen & K.H.O’Rourke, What do the new data tell us?, Vox, 8 marzo 2010).

Nel corso degli ultimi mesi dell’anno in corso si sono tuttavia manifestate turbolenze sui mercati valutari e delle obbligazioni governative che, partendo dal caso in ultima analisi marginale della Grecia, si sono estese ad altre realtà, sollecitando sia politiche economiche restrittive sul fronte fiscale (antitetiche a quelle seguite nell’ultimo biennio), sia un riesame dell’architettura finanziaria internazionale, in particolare nell’area europea.

Anche i problemi manifestatisi nel 2010 possono, nei limiti di cui diremo, essere interpretati alla luce di vicende assimilabili verificatesi nel 1931 negli Stati Uniti. Dati gli effetti negativi che ebbero le scelte di politica economica di quell’anno, non è inopportuno chiedersi se analoghi pericoli di approfondimento della crisi, o di aborto della ripresa economica in atto, non possano manifestarsi nel prossimo futuro.

 

1931

Nel 1931 la recessione si aggravò ulteriormente, pur essendo convinzione delle autorità di politica economica che il punto di svolta inferiore fosse stato superato e che the recovery was in sight [H.Stein, The Fiscal Revolution in America, The AEI Press, Washington D.C., 1996]. In questo quadro il presidente Hoover propendeva per un’inversione di rotta della politica di bilancio, che riportasse sotto controllo il disavanzo pubblico, fortemente aumentato per effetto di una riduzione delle entrate del 50% e di un aumento delle spese del 60% (anche per effetto di erogazioni welfaristiche a favore dei veterani della I guerra mondiale). Il riequilibrio dei conti pubblici era motivato con l’esigenza di non sottrarre risorse finanziarie, attraverso il sistema creditizio, alle imprese. La situazione finanziaria interna rimase stabile per larga parte dell’anno, non manifestandosi, pur in presenza di un elevato indebitamento pubblico, alcuna crisi di fiducia: i titoli pubblici continuarono ad essere collocati a tassi molto contenuti.

Le intenzioni rigoristiche della Presidenza degli Stati Uniti trovarono peraltro concreta realizzazione solo alla fine del 1931, quando si impostò la politica di bilancio per l’anno successivo, in una situazione finanziaria internazionale fortemente deteriorata. In quell’anno fallì in luglio una banca austriaca, il Credit-Anstalt (cui seguirono gravi turbolenze finanziarie) e, con una rilevanza molto maggiore, in settembre l’Inghilterra abbandonò il gold standard.

Le conseguenze per gli Stati Uniti furono drammatiche: forti deflussi di oro in un regime di convertibilità, aumento dei tassi di interesse all’interno ed estensione dei fallimenti bancari. In questo contesto, e con la finalità essenziale di salvaguardare il valore del dollaro (o la sua convertibilità) attraverso politiche finanziarie ortodosse, Hoover decise un consistente aumento delle imposte, pari ad 1/3 del gettito corrente. Stein (pag. 32) sottolinea che nessuno pose in discussione the wisdom dell’aumento delle imposte; il dibattito si concentrò piuttosto sull’individuazione delle imposte da inasprire. Nel 1932 fu evitato il collasso finanziario degli Stati Uniti, anche se la recessione economica continuò senza segni di miglioramento (annullando, anzi, i sintomi di ripresa che si erano via via manifestati).

La crisi finanziaria riesplose nella primavera del 1933, quando iniziò la presidenza Roosevelt, con una virulenza analoga a quella dell’autunno del 1931. Nel marzo del 1933 la risposta di Roosevelt fu tuttavia antitetica a quella di Hoover: revocò la convertibilità del dollaro in oro per i residenti; sospese l’esportazione dell’oro; chiuse temporaneamente le banche, riservandosi di autorizzare la riapertura degli istituti che dessero garanzia di solvibilità; con un provvedimento legislativo autorizzò la Federal Reserve ad effettuare prestiti without limitations on the character of the security accepted. Sempre Stein (pag. 41) scrive che these steps freed the government from monetary restraints, foreign or domestic. Sulla base di questa riconquistata libertà fu avviato il New Deal, senza che peraltro la gestione della cosa pubblica desse luogo a comportamenti inappropriati o irresponsabili. Nel marzo del 1933 il ciclo recessivo, iniziato nell’agosto del 1929, raggiunge il suo minimo (National Bureau of Economic Research, US Business Cycle Expansions and Contractions, 12 aprile 2010).

Prima di esaminare gli sviluppi più recenti, è bene sottolineare gli aspetti più significativi della vicenda americana di quegli anni. In primo luogo, in periodi di profonda recessione anche rilevanti squilibri di bilancio sono compatibili con quadro finanziario complessivamente stabile. La destabilizzazione in quell’episodio storico, ma probabilmente nella generalità dei casi, è innescata dal disordine monetario internazionale, che alimenta fenomeni speculativi sotto forma di movimenti internazioni dei capitali. Manovre restrittive di finanza pubblica hanno effetti, in quanto tali, negativi sulla domanda aggregata, peggiorando le condizioni economiche generali. I fenomeni speculativi sono controllabili solo con scelte di politica economica drastiche, che spesso comportano l’isolamento di un’area economica dai movimenti finanziari destabilizzanti, tipicamente attraverso la delimitazione delle possibilità di azione di alcune categorie di operatori (come venne poi riconosciuto con gli accordi Bretton Woods).

 

2010

La crisi in corso si è manifestata con una rilevante caduta del livello di attività produttiva in tutti paesi avanzati (rispetto all’aprile 2008, la produzione industriale mondiale è scesa nel suo punto di minimo del 13% e, a febbraio 2010, rimane inferiore del 6%, si veda B. Eichengreen & K.H.O’Rourke, What do the new data tell us?, Vox, 8 marzo 2010) e con correlato aumento dei tassi di disoccupazione. Gli effetti sui conti pubblici, che qui ci interessano, sono stati altrettanto dirompenti. Partendo da una situazione di relativo equilibrio nei conti pubblici nel 2007 (lo squilibrio più rilevante era quello del Regno Unito, mentre la Spagna registrava un consistente avanzo), si è assistito ad un forte peggioramento dei saldi di bilancio, dell’ordine in media di 5 punti di prodotto interno (si veda la tabella 1). In questa corsa al disavanzo si sono segnalati Usa, Uk e Spagna che nel biennio 2009 e 2010 hanno raggiunto, o si prevede raggiungeranno, squilibri superiori ai 10 punti.

Si possono richiamare anche alcuni dati relativi alla consistenza relativa di debito pubblico aumentata nei paesi da noi considerati di circa 30 punti. A questo proposito nel Fiscal Monitor dell’IMF, 14 maggio 2010) si legge:

“In advanced G-20 economies, the debt surge is driven mostly by the output collapse and the related revenue loss. Of the almost 39 percentage points of GDP increase in the debt ratio, about two-thirds is explained by revenue weakness and the fall in GDP during 2008-09 (which led to an unfavorable interest rate-growth differential during that period, in spite of falling interest rates). The revenue weakness reflected the opening of the output gap, but also revenue losses from lower asset prices and financial sector profits. Fiscal stimulus—assuming it is withdrawn as expected— would account for only about one-tenth of the overall debt increase. This is somewhat more than the contribution of direct support to the financial sector. Finally, a fairly sizable component arises from lending operations in some countries—Canada, Korea, the United States—involving student loans, loans for consumer purchases of vehicles, and support to small and medium enterprises— arguably in response to the crisis. While structural spending pressures unrelated to the crisis are also projected to continue in the medium term, including for health and pensions, these are projected to be increasingly offset by measures from 2011 onwards.”

Il fatto che un’istituzione prudente come il Fondo attribuisca una rilevante parte del deterioramento della situazione debitoria agli effetti diretti della crisi dimostra che le azioni discrezionali hanno avuto un ruolo limitato; comunque, risulta molto arduo ipotizzare che azioni restrittive esplicitamente finalizzate alla riduzione del disavanzo possano compensare gli effetti sui saldi di bilancio della crisi in corso.

Possiamo a questo punto individuare una prima analogia fra il 1931 (soprattutto nell’atteggiamento tendenzialmente favorevole di Hoover ad un inasprimento fiscale) e l’evoluzione più recente. Allora, come nel corso del 2009, si sono levate ripetutamente voci che sottolineavano l’esigenza di ripristinare ragionevoli equilibri di bilancio, ma, ripetendo quanto avvenne allora, il borbottio richiedente il rigore fiscale non ha dato luogo ad alcuna realizzazione concreta, sulla base della considerazione che la ripresa economica appariva e appare talmente fragile da non sopportare alcun intervento restrittivo della domanda aggregata.

L’atteggiamento delle autorità di politica economica è radicalmente mutato nei primi mesi dell’anno, quando le difficoltà di finanziamento e soprattutto di rifinanziamento del debito pubblico di un paese piccolo come la Grecia hanno innescato una forte corrente speculativa contro l’Euro, cui aderisce la stessa Grecia. Un fenomeno apparentemente marginale, gestibile con un ragionevole rigore fiscale interno e con una relativamente circoscritta assistenza finanziaria internazionale (le difficoltà finanziarie della Grecia non dovevano comunque essere esasperate, aggravando drammaticamente il costo del rifinanziamento del debito pubblico di quel paese), ha assunto dimensioni tendenzialmente planetarie. Com’è stato osservato, è stata rapidamente scritta una tragedia greca (si potrebbe pensare che all’origine gli effetti del fallimento del Credit-Anstalt fossero altrettanto circoscritti).

In ogni caso, le conseguenze, al momento solo al livello di annuncio o di intenzione, sono del tutto assimilabili a quelle che seguirono l’abbandono del gold standard da parte dell’Inghilterra. Pur essendo ampiamente riconosciuto, anche da parte dell’IMF, che il peggioramento della situazione finanziaria pubblica è conseguenza non mediata della recessione economica, si vuole il ritorno generalizzato dei saldi di bilancio alla situazione del 2007, eventualmente anche con il riassorbimento programmato dell’eccesso di debito di alcuni paesi. Ricordiamo che, in un quadro interpretativo del tutto analogo, Hoover ottenne un fortissimo incremento della pressione tributaria nel dicembre 1931. Si sperava in questo modo di convincere gli operatori ad arrestare le azioni ribassiste nei confronti del dollaro. Se l’esperienza degli Stati Uniti insegna qualcosa, appare piuttosto che un’efficace azione di contrasto delle pressioni speculative richiede importanti interventi istituzionali, che allora si risolsero nel superamento del gold standard e che oggi richiederebbero l’assunzione di una responsabilità europea in materia di gestione dei mercati dei capitali e di rifinanziamento del debito pubblico (al di là di quanto è stato probabilmente fatto nelle ultime settimane), oltre alla creazione di un quadro regolatorio che riconosca l’ineliminabile propensione dei mercati finanziari alla creazione di bolle speculative.

Ma i problemi riconducibili alla creazione di un’effettiva integrazione europea possono essere ulteriormente inquadrati con un altro riferimento alla storia degli Stati Uniti. Nel 1790 il segretario al Tesoro Alexander Hamilton propose, e alla fine ottenne, il trasferimento del debito dei singoli stati al governo federale, creando un debito pubblico federale capace di riscuotere la fiducia degli investitori con più facilità di quanto non avrebbero fatto i singoli stati. Hamilton incontrò l’opposizione degli Stati virtuosi dell’epoca, che avevano rimborsato una quota consistente dei loro debiti (come la Virginia, rappresentata da Jefferson e Madison). La vicenda politica e legislativa si concluse con l’accettazione del piano di Hamilton, con effetti crediamo positivi per il futuro degli Stati Uniti.

Ci possiamo chiedere cosa sarebbe successo in questi mesi se con il Trattato di Maastricht fosse stato trasferito ad un governo europeo il debito dei singoli stati nella misura indicata come livello massimo dallo stesso Trattato (il 60%), lasciando l’eccedenza in carico ai singoli stati. A quel punto gli stati nazionali avrebbero avuto la responsabilità della gestione della quota residua, senza poter probabilmente influire sulla stabilità finanziaria complessiva dell’Unione Europea, in analogia a quanto si verifica oggi con la California o, in passato, con New York o Orange County.

Nel 1931 le politiche intempestivamente restrittive non potevano che agire sulle imposte, data l’incapienza della spesa pubblica di quegli anni a fronte di un radicale intervento di riequilibrio. Oggi gli interventi, pur essendo ugualmente inappropriati dal punto di vista macroeconomico, possono essere molto più articolati, potendo investire diversi comparti di spesa pubblica. In particolare, è del tutto naturale che l’attenzione dei diversi attori coinvolti nell’analisi della situazione corrente si sia rivolta alle spese che si possono far rientrare nel cosiddetto welfare state.

Nella riduzione di queste spese si vede la soluzione dei problemi speculativi in corso, ma anche la soluzione dei problemi di lungo periodo delle economie occidentali avanzate. Non scorrettamente Paul Krugman ha osservato che la crisi greca era stata accolta quasi con soddisfazione dai nemici della social security americana, una creazione del New Deal roosveltiano, che sarà comunque in attivo finanziario fino al 2040.

I livelli di spesa sociale nei diversi paesi calcolati, secondo una metodologia che, correttamente, tiene conto del ruolo svolto dalle componenti fiscali, sono esposti nella tabella 2. Con l’eccezione di Francia e Svezia (che hanno evidentemente optato per un particolare livello di servizi sociali), gli altri paesi europei e gli Stati Uniti sono allineati. Solo la Spagna, un paese che si dice essere oggetto di attacchi speculativi, ha un livello di spesa sociale molto basso. Anche se non è possibile elaborare questo punto, si può ragionevolmente affermare che, così come l’aumento d’imposte di Hoover non restituì la stabilità finanziaria agli Stati Uniti, così la riduzione della spesa sociale in Europa (in molti paesi non diversa da quella statunitense) non porterà in quanto tale ai risultati attesi sugli andamenti dei mercati finanziari. Si produrrà invece un forte arretramento in termini di coesione sociale e di qualità della vita civile, data la polarizzazione nella distribuzione dei redditi e l’inadeguatezza dei mercati assicurativi privati di coprire larga parte dei rischi sociali. Anche da questo punto di vista l’esperienza del New Deal è istruttiva.

 

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