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cumpanis

Che farcene del “Che fare?” di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij

di Mariano Guzzini

Schermata del 2021 06 08 14 45 30aMi si consenta di ricordare a me stesso ed al “lettore perspicace” (come lo chiama Černyčevskij) le circostanze che mi misero in contatto con l’edizione italiana del “Che fare?” di Černyševskij, edito nel febbraio 1977 dagli Editori Riuniti. Quaranta quattro anni fa.

Per me quello fu un anno di svolta.

Dal giugno dell’anno prima ero segretario – a 33 anni – della federazione provinciale del Pci di Ancona (14.300 iscritti, veri), avevo in agenda il viaggio in Unione Sovietica che spettava ai segretari di federazione dei capoluoghi di regione appena eletti, per farsi conoscere al Cremlino, e soprattutto per conoscere dall’interno la sorgente dell’ “Oro di Mosca” (Cervetti), e stavo preparando un congresso provinciale in vista del primo congresso regionale, di Pesaro, sull’onda dell’entusiasmo per l’avanzata elettorale dei comunisti del 20 e 21 giugno 1976, il migliore risultato della storia del Pci. Arrivammo al 34,37%, guadagnando oltre sette punti. La Dc si attestò sul 38,71, perdendo qualcosa (4 seggi, mentre noi ne conquistammo ben 49) e cominciando a sentire il fiato dei comunisti sul collo.

Quel libro arrivò in federazione nel solito pacco che gli Editori riuniti spedivano a tutti i componenti del Comitato centrale per far circolare tutto quello che erano in grado di stampare, grazie al sullodato “oro di Mosca” e al nostro lavoro di autofinanziamento. Non ho mai fatto parte del Comitato centrale, ma ero in grado di intercettare quei pacchi dono e di alleggerirli di qualche volume, grazie alla benevola indifferenza del destinatario, Paolo Guerrini, che proprio in quella tornata del 15 giugno era entrato in Parlamento proponendomi alla segreteria da lui tenuta fino a quel momento.

Sicchè da quel pacco rubai i due volumi del “Che fare?”, e me li portai a Mosca, a Pietroburgo, a Vilnius e ad Odessa. Le ultime pagine e l’ampia (49 pagine!) introduzione di Ignazio Ambrogio le lessi nella nave sovietica che da Odessa mi riportava a Genova, mescolando i ricordi della visita nella patria del comunismo realizzato con il racconto di quello che nel 1862 era di là da venire.

Avevo 34 anni, e quella lettura, sovrapposta alle esperienze che stavo incamerando filtrandoli con la diffidenza del sessantottino con la puzza sotto il naso, mi aiutò molto ad affrontare con la schiena dritta i momenti meno eleganti e meno esaltanti del lavoro politico come professione (“Politik als Beruf” secondo il titolo originale del noto scritto di Max Weber).

In quel testo, e nella storia della sua stesura e della sua diffusione, spiegata da par suo dallo slavista marxista Ignazio Ambrogio, trovavo echi profondi e risonanze fondamentali, mescolate a banali coincidenze che all’epoca mi suonarono quasi profetiche.

Per dirne solo una il testo di Černyševskij uscì in più puntate sulla rivista Sovremmenik, nel 1863. Che in italiano sarebbe “il contemporaneo”. Ebbene il caso vuole che la rivista “Il contemporaneo”, italiana, fondata da Romano Bilenchi, Carlo Salinari e Antonello Trombadori nel marzo 1958, arrivasse nell’edicola principale del mio paesello, sotto il loggiato del palazzo comunale in piazza Boccolino Guzzoni, e che avesse contribuito a formare lo studente liceale ventenne insofferente delle medesime falsità piccolo borghesi, e della prepotenza soft della potentissima democrazia cristiana, che lo convinse nel 1964, a 21 anni, a prendere la tessera della Fgci, con i ragazzi con le magliette a strisce che si erano battuti contro la polizia di Tambroni nel cuore dell’Emilia rossa stampati sopra la medesima.

Il romanzo di Černyšcevskij lo avrei potuto leggere solo nel 1977, tredici anni dopo quella prima iscrizione al paese diverso, al mondo del sottoproletario che non si arrendeva al clientelismo democristiano ed alle meschinità piccolo borghesi, ma la sostanza dei valori ritrovati sul transatlantico che da Odessa mi portava a Istambul, e di lì a Genova, a mio modo di vedere erano proprio gli stessi, e in qualche modo la ragazza Veročka non dico che fosse precisamente il ragazzo che ero allora, ma lo ricordava molto da vicino. Ma ormai è tempo di venire al dunque.

 

1. Il romanzo vero e proprio

Apparentemente il lungo testo (570 pagine, in due volumi) racconta la storia di tre personaggi: Vera Pavlovna, Dmitrij Sergeič Lopuchov, e Aleksandr Matveič Kirsanov.

Vera Pavlovna, figlia di Pavel Kostantinyč Rozalskij e di Marja Aleksevna, soffre per l’angustia piccolo borghese della famiglia dove cresce come in prigione, turbata dai valori meschini dei genitori, preoccupati esclusivamente di accumulare rubli con il magro stipendio di funzionario pubblico del padre, e l’esercizio dell’usura da parte di ambedue.

Vera Pavlovna, Veročka, deve evadere. E raggiunge lo scopo sposando uno studente in medicina che dà lezioni private al fratellino minore, di nove anni: Fedja.

Lo studente è Lopuchov. Che la libererà dall’ambiente familiare e le sarà accanto nella realizzazione di un laboratorio di sartoria autogestito dalle lavoranti. Ma quando si accorgerà che l’amore di Veročka si sta rarefacendo e che l’amico fraterno Kirsanov sta prendendo il suo posto nel cuore della moglie, con un colpo di scena che apre l’intera narrazione precedendone addirittura la prefazione, mette in scena un finto suicidio e si dà alla clandestinità, salvo tornare molti anni dopo, con il finto nome di Charles Beaumont.

Ho scritto “apparentemente”. Perchè il romanzo (che non a caso ha un sottotitolo: “Dai racconti sugli uomini nuovi”) in realtà afferma una serie di principii che sono impersonati da alcuni altri personaggi.

L’intera opera introduce il lettore alle tesi socialiste e comuniste, chiarendo che non si rivolge a lettori particolarmente “perspicaci”, smascherati nella “digressione sulle saccenti”, che sono in realtà piattamente conservatori, incapaci di riconoscere quanto di nuovo stanno preparando quegli uomini normali intenti alla formazione di un nuovo tipo umano, alla creazione di un diverso ambiente sociale, di una comunità di lavoro e di vita retta da norme etiche razionali, fondate sull’interesse e sul bisogno e non su un astratto dover essere imposto dal costume (o mainstream, o algoritmo) corrente.

In questo senso il romanzo propone l’eroe positivo Rachmetov, che appare e scompare nelle pieghe della narrazione, ma che fino dalla sua prima apparizione viene presentato come una roccia, un uomo di solidissime convinzioni, e che nel prosieguo della narrazione viene definito un’aquila. Siamo nel quarto capitolo, e questa è la descrizione:

“Gli uomini come Rachmetov sono d’una specie particolare: si fondono a tal punto con la causa comune che essa diventa per loro una necessità, ossia qualcosa che riempie tutta la loro esistenza e sostituisce in loro ogni vita personale.”

Insomma Rachmetov è qualcosa di molto simile al rivoluzionario di professione. L’aquila. Che entrerà in scena in poche occasioni, rispettando i principi che si è dato di non parlare quando l’interlocutore non è interessato ad ascoltare, e di non forzare mai nessuno a fare cose che non intende fare. Ma esprimendo con completezza di argomenti e con la forza della convinzione l’opinione che riesce a orientare il percorso e a sbloccare l’ostacolo.

Qualche critico ha scritto che il romanzo ruota attorno a questo personaggio. Ma io invece credo che sia un lavoro letterario ricco di ironia e di giuochi (quando l’autore si rivolge direttamente al lettore è irresistibile, ma anche quando sbugiarda i luoghi comuni borghesi, introducendo una nuova idea di lavoro liberato dall’interesse padronale e dalle “leggi” dell’economia capitalistica), che attraverso la narrazione di episodi di vita vissuta si propone di ampliare il numero degli uomini nuovi, motivandoli a “fare”, oltre che a leggere e riflettere.

 

2. Una letteratura nuova

Tuttavia non ci si trova di fronte ad un imbroglio. A un signore che con la scusa di raccontare una storia ti vuole solamente indottrinare, mettendo in fila le questioni che oggi come allora sono le principali.

La liberazione dalla schiavitù del lavoro, il diritto all’eguaglianza, l’emancipazione femminile, la costruzione di una società del tutto diversa da quella attuale dove mettere in pratica i nuovi principii organizzando ogni cosa in modo che essi non vengano soffocati dal ritorno del vecchio che non vuole morire, e che impedisce al nuovo di nascere.

Tutto questo alla fine si chiarisce, e molti lettori che sono diventati poi dirigenti del movimento operaio (uno per tutti: Georgi Dimitrov, dirigente bulgaro della terza internazionale, nel rievocare la sua educazione di militante operaio comunista afferma che nessuna opera letteraria ha tanto influito su di lui quanto il “Che fare?”, e di “avere vissuto con i personaggi per mesi interi, e in particolare con Rachmetov, modello vivente di un comportamento etico-intellettuale rivoluzionario”) hanno sottolineato l’influsso profondo dell’opera di Nikolaj Černyšcevskij sulla propria formazione culturale e politica.

Ma a questo effetto è giusto aggiungerne un altro.

Quando si chiude il libro e si prova a riannodare i suoi fili multicolori (perché non propone esclusivamente fili rossi) viene spontanea una botta di simpatia per un autore che, dall’interno delle galere dello Zar, è riuscito a intrecciare un racconto che spesso è pura letteratura, con preziosi espedienti, come i quattro sogni di Veročka, le già citate apparizioni dell’autore che in prima persona si rivolge al lettore, spesso scherzosamente, e il dire e non dire, la verità che sembra menzogna e la menzogna che si scopre essere verità, che è un modo nuovo per metterci in guardia contro le certezze credulone, e gli imbrogli della società borghese che si rifiuta di morire, senza mai smarrire il filo (in questo caso inequivocabilmente rosso sovietico) della proposta principale.

La critica “perspicace” ha dato addosso all’opera negandone l’artisticità, e riducendola ad una esposizione romanzata delle tesi progressiste dell’epoca. Altri, mediando, si sono appoggiati ad un saggio di Anatolij Vasil’evič Lunačarskij che aveva scritto di “uno scrittore importante, che, pur non essendo un sommo, ha prodotto opere artisticamente valide”.

 

3. Invece è stato un sommo

A mio modesto avviso la critica di parte comunista a volte ha sottovalutato il fatto che il romanzo è stato composto di getto in appena quattro mesi nella fortezza di Pietro e Paolo (che ho visitato con il libro nella borsa), con fatali elementi di autocensura, per sfuggire alla vigilanza zarista. La quale si accorse della pericolosità di quel testo soltanto dopo la pubblicazione di “Čto delat?” nei numeri 3 – 5 della rivista “Sovremennik” (il Contemporaneo) fondata da Aleksandr Sergeevič Puškin, e diretta in quel 1863 da Nikolaj Nekrasov. Quei numeri della rivista furono confiscati, mentre il suo autore viene condannato a sette anni di lavori forzati e all’esilio in Siberia, nel maggio del 1864.

Rileggere oggi i due volumi usciti nel 1977 significa mettere in moto emozioni che avrei potuto considerare sepolte.

La limpida profezia di una generazione di uomini nuovi che riprendono il controllo della società, modificandone radicalmente tutte le forze propulsive, cattura l’anima del lettore.

E l’impegno dei personaggi per sciogliere con la massima onestà intellettuale e con un amore universale costantemente in funzione tutti i nodi e tutti gli impicci che l’esistenza frappone alla felicità fa riflettere parecchio anche su quello che è mancato al socialismo realizzato.

Inoltre almeno a me appare incredibile che nel 1862, in una cella del fossato di Alessio nella fortezza di Pietro e Paolo il nostro autore concepisse il percorso della liberazione dal lavoro capitalistico proponendo un sistema gestito totalmente da donne, che democraticamente producevano i loro abiti in una sorta di comune, elegantissima e vantaggiosissima, in una logica che oggi chiameremmo femminista.

Ma assieme alle proposte politiche c’è la poesia.

I quattro sogni di Veročka, che segnano altrettanti momenti di svolta nel dipanarsi degli avvenimenti, altre figure che animano gli appartementi dei protagonisti e le gite collettive: i giovani, l’ambiguo personaggio di Julie, una sorta di Traviata con tendenze anticonformiste e forse rivoluzionarie.

E i molti passaggi che accompagnano il dipanarsi dell’intreccio principale moltiplicandone il fascino come se lo osservassimo al caleidoscopio: è per ragioni di questo tipo che la lettura diventa trascinante, le proposte comuniste si adattano alle circostanze esposte e appaiono assolutamente naturali, e si rincorrono i protagonisti quasi fossero compagni di vita o persone di famiglia.

Il pic-nic finale, le due slitte che si rincorrono sulla neve, e poi la serata attorno al pianoforte con la misteriosa signora in nero che cita poeti e canzoni popolari, e che nelle ultime pagine sarà invece vestita di rosa chiaro, con una mantellina bianca e un mazzo di fiori in mano, è il trionfo dell’imprevedibile, la scarica finale di fuochi artificiali, in apparenza del tutto sconnesso dalla narrazione precedente, eppure astuzia romanzesca per ottenere lo smascheramento polemico e parodistico del tradizionale lieto fine.

Attraverso la tecnica artistica del contrappunto ironico, del niente è come sembra, e volendo tutto si può rovesciare, trapassando dall’arguzia al sarcasmo, si consente all’autore di integrare i molteplici piani di discorso e di articolare la narrazione di un presente tutto proteso nella lotta per un avvenire socialista.

Se facciamo mente locale agli avvenimenti di quegli anni, la cosiddetta “riforma agraria” che rendeva l’esistenza dei contadini russi ancora più problematica ad esclusivo vantaggio della corte zarista, e se dalla Russia ci spostiamo in Italia, dove Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini non riuscivano a risolvere a modo loro né la questione romana, né quella del Lombardo Veneto, impaniati e traditi da Vittorio Emanuele II e da Urbano Rattazzi (sono gli anni che Giuseppe Tomasi di Lampedusa descrive nel “Gattopardo” e Federico de Roberto nei “Vicerè”) ci rendiamo meglio conto di cosa fosse nell’aria in quegli anni dei quali a noi resta soltanto il ricordo confuso della guerra di Crimea, e delle rivolte dei contadini, assieme ai fatti tragici dell’Aspromonte e della battaglia di Mentana, mentre con tutta evidenza stavano maturando nelle intelligenze colte, nei libri che si scrivevano e nelle riviste che circolavano, ben altre culture minoritarie che, allora come oggi, si opponevano al “mainstream” dominante.

 

4. Concludendo

Cara lettrice o caro lettore che mi hai seguito fin qui, e che ancora non riesci a farti una idea completa del “Che fare?” di Nikolaj Černyševskij, non dare a me tutta la colpa del tuo stato d’animo.

Ho tentato di rammentare a beneficio delle compagne e dei compagni che leggono “Cumpanis” l’esistenza di un testo che ha formato alcune generazioni di rivoluzionari russi, dai populisti, a Lenin, a Majakovskij. È un testo all’interno del quale si cammina come in un parco naturale, respirando aria buonissima e imbattendosi in piante e in animali che non ti aspettavi di incontrare.

Se ne può parlare, assemblando qualche concettino.

Ma non credo che se ne possa riassumere la trama. Almeno le mie forze si fermano peplesse davanti a quella sfida. È un libro che va assolutamente letto. E tanto per cominciare va ristampato. Non ho idea in che mani siano attualmente i gloriosi Editori Riuniti.

Se ancora esistessero, dovrebbero ristamparlo. Oppure (piano b) lo potrebbe fare Giordano Manes, per “La Città del Sole”, altrettanto – anche se diversamente – gloriosa. Oppure … non mi vengono altre idee.

Anche se qualche buona biblioteca pubblica potrebbe fornire a te, cara lettrice o caro lettore che mi hai seguito fin qui, la copia per verificare se ha qualche margine di verità quello che sto terminando di digitare. Buona lettura, se lo trovi.

Comments

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Joseph Halevi
Wednesday, 09 June 2021 02:32
Notevole articolo.
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