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sinistra

Un conflitto politico-ideologico del 1957

Le allegorie marinare di Italo Calvino, di Maurizio Ferrara e di Giorgio Galli

di Eros Barone

header Italo Calvino 1Le fiabe sono vere.

I. Calvino

 

La gran bonaccia delle Antille

di Italo Calvino 1

Dovevate sentire mio zio Donald [Palmiro Togliatti], che aveva navigato con l’ammiraglio Drake [Stalin], quando attaccava a narrare una delle sue avventure.

Zio Donald, zio Donald! – gli gridavamo nelle orecchie, quando vedevamo il guizzo di uno sguardo affacciarsi tra le sue palpebre perennemente socchiuse, – raccontateci come andò quella volta della gran bonaccia delle Antille!

– Eh? Ah, bonaccia, sì, sì, la gran bonaccia… – cominciava lui, con voce fioca. – Eravamo al largo delle Antille, procedevamo a passo di lumaca, sul mare liscio come l’olio con tutte le vele spiegate per acchiappare qualche raro filo di vento. Ed ecco che ci troviamo a tiro di cannone da un galeone spagnolo [la Democrazia Cristiana]. Il galeone stava fermo, noi ci fermiamo pure, e lì, in mezzo alla gran bonaccia, prendiamo a fronteggiarci. Non potevamo passare noi, non potevano passare loro. Ma loro, a dire il vero, non avevano nessuna intenzione di andare avanti: erano lì apposta per non lasciar passare noi. Noialtri invece, flotta di Drake, [il Partito comunista italiano] avevamo fatto tanta strada non per altro che per non dar tregua alla flotta spagnola e togliere da quelle mani di papisti il tesoro della Grande Armada e consegnarlo in quelle di Sua Graziosa Maestà Britannica la Regina Elisabetta [l’Unione Sovietica]. Però ora, di fronte ai cannoni di quel galeone, con le nostre poche colubrine non potevamo reggere e così ci guardavamo bene dal far partire un colpo. Eh, sì, ragazzi, tali erano i rapporti di forza, voi capite.

Quei dannati del galeone avevano provviste d’acqua, frutta delle Antille, rifornimenti facili dai loro porti, potevano stare lì quanto volevano: anche loro però si trattenevano dallo sparare, perché per gli ammiragli di Sua Maestà Cattolica quella guerricciuola con gli Inglesi così come stava andando era proprio quel che ci voleva, e se le cose si mettevano diversamente, per una battaglia navale vinta o persa, tutto l’equilibrio andava all’aria, certo ci sarebbero stati dei cambiamenti, e loro di cambiamenti non ne volevano. Così passavano i giorni, la bonaccia continuava, noi continuavamo a star di qua e loro di là, immobili a largo delle Antille…

E come andò a finire? Diteci, zio Donald! – facemmo noi, vedendo che il vecchio lupo di mare già piegava il mento sul petto e riprendeva a sonnecchiare.

– Ah? Sì, sì, la gran bonaccia! Settimane durò. Li vedevamo coi cannocchiali, quei rammolliti di papisti, quei marinai da burla, sotto gli ombrellini con le frange, il fazzoletto tra il cranio e la parrucca per detergere il sudore, che mangiavano gelati di ananasso. E noi che eravamo i più valenti marinai di tutti gli oceani, noi che avevamo per destino di conquistare alla Cristianità tutte le terre che vivevano nell’errore, noi ce ne dovevamo star lì con le mani in mano, pescando alla lenza dalle murate, masticando tabacco. Da mesi eravamo in rotta sull’Atlantico, le nostre scorte erano ridotte all’estremo e avariate, ogni giorno lo scorbuto si portava via qualcuno, che piombava in mare in un sacco mentre il nostromo borbottava in fretta due versetti della Bibbia. Di là, sul galeone, i nemici spiavano col cannocchiale ogni sacco che sprofondava in mare, e facevano segni con le dita come affaccendati a contare le nostre perdite. Noi inveivamo contro di loro: ce ne voleva prima di darci tutti morti, noialtri che eravamo passati attraverso tanti uragani, altro che quella bonaccia delle Antille…

Ma una via d’ uscita come la trovaste, zio Donald?

– Cosa dite? Via d’ uscita? Mah, ce lo domandavamo di continuo per tutti quei mesi che durò la bonaccia… Molti dei nostri, specie tra i più vecchi e i più tatuati, dicevano che noi eravamo sempre stati una nave da corsa, buona per azioni rapide [lotta di liberazione], e ricordavano i tempi in cui le nostre colubrine sguarnivano delle alberature le più potenti navi spagnole, aprivano falle nelle murate, giostravano con brusche virate… Ma sì, nella marineria di corsa, certo eravamo stati bravi, ma allora c’era il vento, si andava svelto… Adesso, in quella gran bonaccia, questi discorsi di sparatorie e d’abbordaggi erano solo un modo di trastullarci aspettando chissacché; una levata di libeccio, un fortunale, addirittura un tifone… Perciò gli ordini erano che non dovessimo neanche pensarci, e il capitano ci aveva spiegato che la vera battaglia navale era quello star lì fermi guardandoci, tenendoci pronti, ristudiando i piani delle grandi battaglie navali di Sua Maestà Britannica e il regolamento del maneggio delle vele e il manuale del perfetto timoniere, e le istruzioni per l’uso delle colubrine, perché le regole della flotta dell’ammiraglio Drake restavano in tutto e per tutto le regole della flotta dell’ammiraglio Drake: se si cominciava a cambiare non si sapeva dove…

E poi, zio Donald? Ehi, zio Donald! Come riusciste a muovervi?

– Uhm… Uhm… Cosa vi dicevo? Ah sì, guai se non si teneva la più rigida disciplina e obbedienza alle regole nautiche. Su altre navi della flotta di Drake c’erano stati cambiamenti d’ufficiali e anche ammutinamenti, sommosse: si voleva ormai un altro modo di andar per i mari, c’erano semplici uomini della ciurma, marinai di quarto e pure mozzi che ormai s’erano fatti esperti e avevano da dir la loro sulla navigazione [l’ala stalinista del PCI] … Questo i più degli ufficiali e quartiermastri ritenevano il pericolo più grave, perciò guai se sentivano in aria discorsi di chi voleva ristudiare da capo il regolamento navale di Sua Maestà Elisabetta. Niente, dovevamo continuare a ripulire le spingarde, lavare il ponte, assicurarci del funzionamento delle vele, che pendevano flosce nell’aria senza vento, e nelle ore libere delle lunghe giornate lo svago ritenuto più sano erano i soliti tatuaggi sul petto e sulle braccia, che inneggiavano alla nostra flotta dominatrice dei mari [l’URSS]. E nei discorsi si finiva per chiudere un occhio su quelli che non riponevano altra speranza che in un aiuto del cielo, come un uragano che magari ci avrebbe mandato a picco tutti, amici e nemici, piuttosto che quelli che volevano trovare un modo per muovere la nave nella condizione presente… Capitò che un gabbiere, certo Slim John [Antonio Giolitti, esponente dell’ala riformista del PCI], non so se il sole in testa gli avesse fatto male o che cos’altro, cominciò a trastullarsi con una caffettiera. Se il vapore solleva il coperchio della caffettiera, – diceva questo Slim John, – allora anche la nostra nave, se fosse fatta come una caffettiera potrebbe andare senza vele… Era un discorso un po’ sconnesso, bisogna dire, ma forse, studiandoci ancora sopra, se ne poteva cavare qualche costrutto. Macché: gli buttarono in mare la caffettiera e poco mancò che ci buttassero anche lui. Queste storie di caffettiere, presero a dire, erano poco meno che idee da papisti… è in Spagna che si costuma il caffè e le caffettiere, non da noi… Mah, io non ne capivo nulla, ma purché si muovessero, con quello scorbuto che continuava a falciar gente…

E allora, zio Donald, – esclamammo noi, gli occhi lucidi d’impazienza, prendendolo per i polsi e scuotendolo, – sappiamo che vi salvaste, che sgominaste il galeone spagnolo, ma spiegateci come avvenne, zio Donald!

– Ah sì, anche là nel galeone, mica che fossero tutti della stessa idea, manco per sogno! Lo si vedeva, osservandoli col cannocchiale, anche lì c’erano quelli che volevano muoversi, gli uni contro di noi a cannonate, altri che avevano capito che non c’era altra via che affiancarsi a noi, perché il prevalere della flotta d’Elisabetta avrebbe fatto rifiorire i traffici da tempo languenti… Ma anche lì, gli ufficiali dell’ammiragliato spagnolo non volevano che si muovesse nulla, per carità! Su quel punto i capi della nostra nave e quelli della nave nemica, pur odiandosi a morte, andavano proprio d’accordo.

Cosicché, la bonaccia non accennando a finire, si prese a lanciare dei messaggi, con le bandierine da una nave all’altra come si volesse aprire un dialogo. Ma non si andava più in là d’un Buon giorno! Buona sera! Neh, che fa bel tempo! e così via.

Zio Donald! Zio Donald! Non riaddormentatevi, per carità! Diteci, come riuscì a muoversi la nave di Drake!

– Ehi, ehi, non sono mica sordo! Capitemi, fu una bonaccia che nessuno s’aspettava durasse tanto, addirittura per degli anni, là al largo delle Antille, e con un’afa, un cielo pesante, basso, che pareva fosse lì lì per scoppiare in un uragano. Noi stillavamo sudore, tutti nudi, arrampicati su per le sartie, cercando un po’ d’ombra sotto le vele avvoltolate. Tutto era così immobile, che anche quelli di noi che erano più impazienti di cambiamenti e di novità, stavano immobili anche loro, uno in cima all’albero di parrocchetto, un altro sulla randa di maestra, un altro ancora cavalcioni del pennone, appollaiati lassù a sfogliare atlanti o carte nautiche…

E allora, zio Donald! – ci buttammo in ginocchio ai suoi piedi, lo supplicavamo a mani giunte, lo scuotevamo per le spalle, urlando – diteci come andò a finire, in nome del cielo! Non possiamo più aspettare! Continuate il vostro racconto, zio Donald!

* * * *

La gran caccia alle Antille

Little Bald (Maurizio Ferrara) 2

«Sempre allegri ragazzi, non vi manchi la lena quando il buon ramponiere colpirà la Balena!»

(Canto baleniero)

«Sapete com’è, ragazzi – brontolò Fratello Charlie [voce narrante filo-togliattiana] – a quell’epoca si buttarono tutti alla balenerìa, qui alle Antille. Iddio mi fulmini se a bordo della “Speranza” s’era in più della metà capaci di distinguere la Balena Franca dalla vacca marina!» -. Fratello Charlie ciccò. «Evidente che scoppiarono pasticci».

«Pasticci? Che pasticci?» ansammo. Fratello Charlie sputò nel fuoco. «Vedete questo? – ci urlò protendendo il pollice mozzo alla radice -. Me lo strappai via io stesso con un morso di rabbia quando ci ordinarono di pazientare durante la rivolta dei gabbieri » [il dissenso degli intellettuali per la repressione del moto ungherese].

«Una rivolta? E come fu?» mugolammo.

«Eh!, come fu … Fu nel ’48, ragazzi, pochi anni dopo la fine della pirateria nera di Testa di Morto [Benito Mussolini]. I mari erano stati ripuliti finalmente, e dopo vent’anni che s’era stati sottovento a incrociare su banchi di aringhe, tornò l’epoca della Grande Caccia. L’ultima barca pirata era andata giù, con Testa di Morto impiccato per i piedi all’alberatura: ed era toccato a noi della “Speranza” affondarla a pochi gradi di latitudine dagli altri. E così ce ne tornammo a casa».

«E vi fu gaudio? Foste onorati?» domandammo.

«Altroché! Ma capimmo subito che le cose non sarebbero andate lisce. Eravamo affamati, pochi e segnati dalla fatica. Ci accolsero come trionfatori sul molo. Ma tra di noi mica pochi guardavano bramosi alle case sulla riva: Iddio mi fulmini se sulle più ricche non c’era tra di noi chi pensava di averci sopra il diritto del padrone poiché avevano tenuto al caldo osti e banchieri che s’erano dati ai traffici con Testa di Morto, rifornendolo di viveri, munizioni e perfino donne. Ora tocca a voi, ghignavano».

«E allora?» prememmo.

«Eh … allora … appena gettata l’ancora davanti al molo fitto come un formicaio di gente che gridava “evviva”, il capo-stivatore [Pietro Secchia] s’avventò al cannone. “Evviva un corno – gridò – Adesso vi brucio!”. Un urlìo sinistro percorse la tolda strapiena, vidi balenar serramanichi e navaje fra le mani di Fabrizio lo Stravizio [Fabrizio Onofri, esponente della destra comunista] e di Marcone il Gagliardone [?]. “A morte, a morte!” ululavano. “Tutto a noi, sotto a chi tocca!”».

Fratello Charlie tacque, pensieroso. «E come finì, dicci, come finì?» lo pungolammo.

«Eh… come finì -. Vedemmo a un tratto il Vecchio [Palmiro Togliatti] salire sul cassero; era disarmato e con sul naso gli occhiali di quando alla domenica ci leggeva i Salmi sul castello di poppa. “Fratelli – disse con voce ferma – levatevi dalla testa idee sinistre. Noi siamo quelli della “Speranza”, ramponieri-cacciatori e non pirati. La gente buona spera in noi. Davanti a noi non vi sono case da assediare, ma pascoli acquatici ove soffia, ancora libera, la Balena Bianca [il socialismo]. Il suo olio darà vita e sorriso per l’eternità ai patiti figli delle Antille. Riponete archibugi e spingarde, impugnate il rampone, la Grande Caccia è aperta”».

Fratello Charlie si asciugò una lacrima. «Che discorso ragazzi! Il capo-stivatore e gli altri ammutolirono come seppie, e le grida divennero mugugni. Ma ubbidirono perché erano soli. Tutto il popolo infatti era con noi, e allibimmo davvero tutti al vedere che perfino il banchiere Miller [rappresentante del potere capitalistico] saliva a bordo e facevasi un dagherrotipo tra Jack Nostromo [Luigi Longo] e Jimmy Fischietto [?]. Il reverendo Jonas [rappresentante della Chiesa] benedì la “Speranza” e i capi armatori venivano sotto il bordo, ci protendevano i figlioletti sedicenni. “Prendeteli con voi!” piangevano. “Prendeteci” imploravano tutti gli altri. “Vogliamo cacciare la Balena Bianca!”. E, malgrado i mugugni di parecchi, ne prendemmo a bordo tanti, raddoppiammo in poche ore il ruolino. E fu un bene, perché il comando fu severo con quelli del mugugno: in parecchi furono spediti a terra o messi in stiva a salare la pesca. E su in quadrato, accanto ai vecchi che sapevano riconoscere le correnti del golfo dall’odore dell’aria [i dirigenti comunisti più anziani], furono chiamati sbarbatelli che barcollavano con la nave in porto [i dirigenti comunisti della generazione più giovane]. Ma vedemmo che sapevano a memoria i paragrafi del “Manuale del Baleniere”, che nessuno di noi aveva mai letto. “E dunque imparate gli uni dagli altri, Iddio vi fulmini” disse il Vecchio».

«E dicci, imparaste?» chiedevamo. Fratello Charlie sorrise: «I migliori dei vecchi e i migliori dei giovani, impararono. Cosa credete? Io stesso ho insegnato a Bobi il Mano Bianca [?] la differenza tra un rampone e una lancia. E non fu Bobi ad insegnarmi le ascisse? Iddio mi fulmini, ma dopo sei mesi di navigazione certuni di quei nuovi erano così dentro alle cose di mare e di costa, che divennero ufficiali al posto di certi altri che avevano fatto il tempo loro e di notte scambiavano gli icebergs per le scogliere di Dover. E ci fu del buio, Iddio mi fulmini, perché il capo-stivatore non la mandò giù».

«E che fece?» domandammo.

Charlie dondolò. «Lì per lì tacque. Poi cominciò a navigare di sotto, come il luccio di scoglio. E spiava, mugugnava, concertava con certi suoi una specie di sottocomando, invertiva nottetempo la rotta. Finché gli altri non si seccarono e al primo approdo, senza far chiasso, lo sbarcarono [la svolta neo-revisionista del PCI e l’emarginazione della frazione stalinista]. Ma non navigava sotterraneo solo lui. Lui era andato in giro dicendo fra i boccaporti che la Balena Bianca era un miraggio, che era meglio tirar giù con le spingarde i villaggi della costa: Fabrizio lo Stravizio – che aveva cambiato parere di colpo [esponente dei neo-revisionisti] – diceva anche lui che la Balena Bianca era un miraggio. Ma adesso proponeva sempre di ritornare a casa, di spremer l’olio di balena dai merluzzi».

«E poi, - incalzammo – che avvenne allora?».

Fratello Charlie sospirò ancora. «Avvenne quel che doveva. Noi eravamo balenieri e non pirati: e continuammo a cacciare. Ma non i merluzzi o le aringhe perché sapevamo che solo le balene danno l’olio di balena e non c’era ritrovato al mondo che potesse far spremere una sola goccia di spermaceti da un merluzzo o una aringa: checché, sulle gazzette della costa, ne scrivesse un ex cacciatore di aringhe passato alla baleneria, un certo Riccardo il Lombardo (esponente della sinistra socialista). Ma tant’è: malgrado che la stagione fosse particolarmente buona per via di quel famoso scioglimento di ghiacci dell’80, che voi ricorderete, ci fu chi si ribellò. Cominciarono ad accusare il comando di “acabismo” [stalinismo], di voler fare cioè come il vecchio capitano Acab che sul finire della vita s’era quasi fissato per via di Moby Dick e aveva istaurato al suo bordo una vita durissima. Da noi non era così. Ma, Iddio mi fulmini!Non appena le gazzette della costa riportarono la notizia che il vecchio Acab era morto e che a bordo di un battello ungherese era scoppiato l’ammutinamento contro i vecchi capi che s’erano fitti in testa di fare come Acab [i fatti di Ungheria del 1956], anche da noi scoppiò la maretta [ripercussioni della crisi ungherese nel PCI]. Un gruppo di gabbieri [l’ala riformista e la componente liberaldemocratica degli intellettuali] si mise si mise a rapporto e disse che era ora di cambiare tutto, che la Balena Bianca non l’avremmo presa mai, che la “Speranza” era un ferrovecchio, bisognava mettergli certe vele rotonde di nuova invenzione e smetterla con la caccia e darsi al turismo, guadagnando di più con le crociere. Gli stivatori [gli operaisti vicini a Pietro Secchia] volevano linciarli, dar loro addosso col gatto a nove code. Ma noi fummo saggi. Radunammo l’equipaggio e chiedemmo: “Uomini, siamo balenieri o siamo portavilleggianti?”. “Balenieri!” gridò la ciurma. “Uomini, siamo cacciatori o pirati?”. “Cacciatori!” risposero tutti. “Uomini, vogliamo la Balena Bianca o l’aringa affumicata?”. “La Balena Bianca!”, ulularono i marinai. E allora dicemmo: “Chi è d’accordo rimanga, chi no, sbarchi”. E nessuno sbarcò».

«E allora, perché scoppiò la rivolta?» chiedemmo noi. Fratello Charlie sospirò: «Ci si misero anche altri a pestare l’acqua nel mortaio. Tanto più invidiosi delle buone cacce che la “Speranza” accumulava mentre cercava la Balena Bianca, il reverendo Jonas [la Chiesa] e il banchiere Miller [il capitale finanziario] avevano da tempo cominciato a cospirare apertamente contro di noi».

«I vili!» fremevamo noi.

«Facevano il loro mestiere – disse Fratello Charlie – come noi il nostro. Ci sabotavano i rifornimenti di acqua e di viveri e sparsero sul nostro conto voci di peste gialla a bordo. Avevano spaventato le popolazioni costiere a tal punto che noi per mesi e mesi fummo costretti a impiegare il tempo nel persuadere le genti della costa che non eravamo né selvaggi, né pestilenti, né pirati. Alla fine le genti capivano, ma il tempo passava e la caccia ne soffriva».

«E andò sempre così», ci rattristavamo.

«Andò peggio – brontolò Fratello Charlie -. Visto che da soli non riuscivano a persuadere la gente che la Balena Bianca non c’era e che la “Speranza” era una nave pirata, padre Jonas, Miller e quel certo Riccardo il Lombardo si misero d’accordo. Miller si fece mandare da una lontana fabbrica di salvagenti una balena bianca finta, tutta in canapa e guttaperca verniciata [il dissenso antisovietico animato da Antonio Giolitti]; nottetempo fu legata alla poppa di una vecchia goletta che teneva appena il mare e rimorchiata fino al molo del porto. Padre Jonas suonò le campane e la popolazione accorse. “Ecco la Balena Bianca” gridarono il reverendo e il banchiere – “Non date retta a balle! La “Speranza” è perduta!”».

«E che accadde allora!» chiedemmo ansiosi.

Fratello Charlie continuò: «Lì per lì noi ci facemmo beffe della balena finta. Ma poi no. Accadde infatti che alcuni del popolo vi credettero davvero, e altri, ch’erano stanchi di attendere, si adattarono. All’interno della balena finta era stata stivata una pompa che dava ai poveri un po’ d’olio, solo che lo chiedessero esibendo un certificato di Padre Jonas [l’unificazione socialista tra il PSI e il PSDI nel 1956-1957]. Noi, da lontano, li vedevamo sul molo fare la fila e tornarsene a casa coi pentolini. E subito, anche fra noi, scoppiò la rivolta».

«Quella dei gabbieri?» - ansimammo.

«E degli stivatori» aggiunse Fratello Charlie. «Gli uni e gli altri cominciarono ad accapigliarsi. Gli stivatori, uomini di ferro, rudi, protervi e vendicativi, avrebbero voluto rizzare la prora della “Speranza” contro la goletta concorrente con la balena finta attraccata alla poppa e far fuoco a palle incatenate. I gabbieri, al contrario, volevano che la “Speranza” s’adattasse ai mutamenti godendosi anch’essa i frutti della balena di gomma. Gli uni, da sotto, imprecavano che era giunta l’ora della resa dei conti: gli altri, dall’alto, che il progresso tecnico può arrivare laddove non arriva la caccia, che è meglio una balena così così attraccata al molo che una balena vera libera sull’oceano». «Eh, sospirò Fratello Charlie – ne udimmo delle belle!».

«E come finì?» rabbrividimmo.

«Si coalizzarono, gli uni e gli altri, all’insegna della fretta. Iddio mi fulmini se non facevano un tristo vedere Antonio il Nipote e Nino il Ladro [Giulio Seniga, che con il denaro sottratto alla cassa del PCI finanziò vari gruppi della dissidenza comunista], uniti assieme a berciare: “Basta, basta, vogliamo andare a terra, vogliamo donne, liquori e aringhe”. Un gran tristo vedere, sì, maggiorato, Iddio mi fulmini, dai battimani che salivano dalla riva dove Miller e il reverendo Jonas li incitavano. La goletta rattoppata messa in mare per darci contro, ora incrociava sottovento timonata da Riccardo il Lombardo e Ughetto il Mafiosetto [leader repubblicano] tutta pomposa, ridipinta dalla chiglia alla coffa di maestra, con perfino il nome nostro copiato sotto la polena: “Speranza II”, s’era ribattezzata la vigliacca. “Venite, venite – urlavano alcuni da quel bordo – la “Speranza I” affonda!” E ci fu, salvognuno, chi si gettò a mare per la paura, chi salì su in cima al maestro e gridò “aita, aita”. Carlos il Moscetto [?], ch’era stato gran bestemmiatore al cospetto di Dio e degli uomini, si tuffò vestito; e, poiché non aveva mai imparato a nuotare in dieci anni ch’era a bordo, affogò invocando Nostra Signora di Guadalupe. Gegè le Mokò [?], s’inginocchiò, al passaggio della goletta concorrente e, acchiappata una gomena lanciatagli tentò di issarsi a bordo; ma, essendo esaurito, rimase a mezz’aria come un salame. E altri, ragazzi miei, altri ancora caddero fuori delle murate, a babordo e a tribordo come Italo il Pétalo [?] e Vezio il Trapezio [?]. Chi finì in bocca ai pesci, chi nuotò fino a riva e fu accolto da Miller e Padre Jonas che subito dettero loro un pentolino d’olio e un’aringa. E chi invece, dopo il tuffo e una nuotatina, se ne tornò a bordo. Che momenti, ragazzi miei, che momenti!».

«E voi, diteci, e voi che faceste?».

Fratello Charlie sgranò gli occhi. E voi? Che volevate che facessimo? Noi badavamo alla nave, che del resto ne aveva bisogno: tiravamo su le vele, tamponavamo le falle, cambiavamo i turni di guardia. Alcuni di noi si mordevano le mani dalla rabbia, io – ve l’ho detto – persi il pollice in quel furore che mi invase. Ma intanto, appena incominciato il bailamme, puntammo al largo, sempre in caccia della Balena Bianca. Eravamo nati per questo, ragazzi, non per tirare spingardate al cielo o mungere balene di guttaperca!».

«E la Balena Bianca?» interrogammo ansiosi - «la prendeste poi?».

Fratello Charlie ghignò. «E come!» - ci guardò fisso e sospirò. «Studiate, ragazzi, studiate la storia di come le navi vanno per mare, studiate la storia delle vostre Antille. Gabbieri frettolosi e stivatori protervi finirono tutti, per campare, nell’industria dei sottaceti, quando la balena fasulla un brutto giorno si sgonfiò. E noi cacciatori dopo la prima Balena Bianca ne cacciammo un’altra, e poi un’altra ancora, fino a dieci, a cento, a mille. Che iddio mi fulmini se non c’è sempre una Balena Bianca da cacciare, con tempesta o bonaccia che sia, per chi ha un rampone da stringere in pugno…».

* * * *

I gran vili delle Antille

Un gruppo di Stivatori protervi

(Giorgio Galli) 3

Dio mi fulmini, fratelli, se tutte le domeniche il Vecchio Istrione [Palmiro Togliatti] non saliva sul castello di poppa per spiegarci di quante miglia ci si era avvicinati alla Balena Bianca; e due o tre volte ci giurò sui suoi occhiali che la Balena era a tiro e tutto l’equipaggio, via che metteva mano ai ramponi!

Ma no! Il Vecchio Istrione aveva una tesi sua e ci diceva con voce dolce e suadente: «Ragazzi miei, adesso che siamo nelle acque della Balena Bianca, gettate in mare le lenze… ».

- Sacramento! – tuonava Tony Cica [?] che era da tanto in baleneria – con le lenze prenderemo i lucci e i balbi, ma quando mai si è visto che si buttan gli ami alla Balena Bianca?!

Noi, stivatori novellini, eravamo mica male sbalorditi al vedere come si faceva la caccia: le lenze in mare, e attaccato all’amo un pezzo di carta ripiegato con una crocetta sopra. «Sto qua – dicevamo – vuol prendere le balene con la carta schedacea, e si vede che ne sa una più del diavolo!»

Manco a dirlo, la Balena Bianca non la si vedeva ma il Vecchio Istrione che tra l’altro era più superstizioso di un ciabattino napoletano, saliva sul castello e ripeteva in tono di giaculatoria: «Calma, ragazzi, se non l’abbiamo presa adesso, la prenderemo un’altra volta. Intanto, tenete pulite le lenze».

Questa storia che si andava con lenze a prender balene,. Ci lasciava alquanto perplessi, finché un bel giorno capimmo come andavan le cose sulla nave. Il fatto era, fratelli, che il Vecchio istrione la Balena Bianca se l’era già presa per conto suo, ci aveva spremuto tutto l’olio che poteva e se lo teneva nella stiva, di riserva per una tranquilla vecchiaia. E noi stivatori, un po’ perché nella stiva eravamo, un po’ perché si cominciava a studiar le carte nautiche, un po’ perché facevamo la guardia alle cabine del comando, cominciammo a capire come andava la gran caccia.

Intanto la cabina del Vecchio Istrione: Dio mi fulmini, fratelli, se quello era posto da capitano di baleniera: c’eran tappeti, quadri, libri rari, vasi cinesi e porcellane, e non ci fu quella volta che il Vecchio disse: «non virate troppo a babordo, se no mi spaccate questo prezioso Capodimonte»! Basta: ogni volta che tirava un po’ di vento e che noi si sperava di prender, se non la Balena Bianca, almeno qualche cetaceo consistente, il Vecchio era lì che tremava che andassero in pezzi le sue porcellane.

Non vi dico il mugugno, tra gli stivatori, a veder che non c’era neanche più rotta e che si toccava terra una volta la settimana a imbarcar vino di Porto e Panforte di Siena per il Vecchio Istrione e il suo comando, che ogni volta che si toccava terra, tra donne e liquori si riducevano che parevano stracci, e a noi toccava riportarli a bordo imbesuiti, né era fatica da poco, perché tra i più inciucchiti c’era sempre Giorgio il Grosso [Giorgio Amendola, il maggiore esponente della destra comunista], che pesava un quintale e mezzo a dir poco.

Basta, questo è niente: o che un bel giorno non ti salta in testa al Vecchio Istrione di imbarcare donne a bordo; e non dico le donne dei marinai, ma certe tencine che dovevan tenerlo su di morale? Fu allora che Tony Cica disse: «Adesso siamo a posto, abbiamo anche la Vacca Sacra [Nilde Jotti, giovane compagna di Togliatti proveniente dal mondo cattolico]».

E mica arrivò a bordo lei sola: per non mettere in imbarazzo il Vecchio Istrione, eccoti gli altri ufficiali [Umberto Terracini e Luigi Longo divorziarono, alla pari di Togliatti, dalle rispettive mogli e si unirono a donne più giovani] pigliarsi pure loro le loro ragazzette. Non vi dico fratelli che cosa divenne allora la nave: il ponte fu trasformato in un solarium, ci misero le sedie a sdraio e tutto il comando, uomini e donne, faceva i bagni di sole e appena si alzava un po’ di vento, ci si rintanava nel primo porticciuolo che capitava a tiro.

I vecchi del mugugno, Remo tra gli altri che ai suoi tempi aveva catturato certe balene tedesche [Remo Scappini, dirigente comunista e capo partigiano], e Vittorio il Granduca [Vittorio Sereni?], soprattutto quando c’era stata distribuzione di rhum, parlavan fuori dai denti e volevan buttare in mare la Vacca Sacra e tirava un’aria tale che Jack Nostromo [Luigi Longo] e il capo degli stivatori [Pietro Secchia] pensavano se non si potesse sbarcare persino il Vecchio Istrione, profittando che lui era ospite sulla nave del capitano Acab [il tentativo di esautorare Togliatti trasferendolo dall’Italia nell’URSS e ponendolo alla testa del Cominform: tentativo compiuto dall’ala stalinista del PCI, con l’appoggio del PCUS, nel 1950].

Che tempi, quelli, fratelli miei! E quel che è giusto è giusto: bisogna dire che allora fu proprio la Vacca Sacra a salvare il Vecchio Istrione. Erano già andati là, sulla nave di Acab, il capo stivatore e Arturo il «muratore» [Arturo Colombi, dirigente comunista e figura di spicco dell’ala stalinista del PCI], a confermare che il Vecchio correva pericoli, che forse era anche un po’ stanco, che era meglio lasciasse ad altri il comando, che finisse insomma la sua vita sul bordo di Acab, che navigava nel mare delle Balene Bianche da tanto tempo, e Acab a dire che era ben lieto di tenerlo con lui, e i suoi secondi, a rincarar la dose… Ma fu allora che i pianti e gli svenimenti della Vacca Sacra toccarono il cuore di Arturo il «muratore», e anche del capo stivatore che era più uomo da lenza che da rampone [stoccata a Secchia per la sua subalternità a Togliatti], e così Acab disse che mica lo voleva tenere prigioniero e congedò il Vecchio Istrione, che ricomparve a bordo tra la sua porcellana e i suoi libri rari.

­ - Sacramento! – tuonava Tony Cica – ma questa che è, nave baleniera o bordello? – e infatti, tra le sedie a sdraio, i vini scelti, i bagni piastrellati, i vasi cinesi, gli amuleti porta fortuna e le lenze, di baleniera non vedevamo più neanche l’ombra. E intanto il Vecchio Istrione, che non perdonava lo scherzo che il capo-stivatore gli aveva combinato con Jack Nostromo, si concertava con certi ufficialetti («i macachi», li chiamavano i mugugnatori) che adesso dicevano che le lenze erano ramponi camuffati che avrebbero tratto in inganno la Balena Bianca, qualcuno perché il Vecchio Istrione lo aveva convinto e qualche altro per procurarsi anche lui la sedia a sdraio e prendere il sole sul ponte.

Insomma, a bordo era vita da nababbi per il comando. Il banchiere Miller, che il Vecchio Istrione aveva aiutato e salvato quando aveva incoraggiato i pirati e dopo gli stivatori lo volevan linciare, mandava a bordo per lui casse di spumante, argenteria e gioielli e il vecchio Acab, che gli era affezionato, gli faceva arrivar da lontano pellicce preziose e diamanti siberiani, sì che a un certo momento la cabina del Vecchio Istrione e della Vacca Sacra sembrava diventata un incrocio tra via Condotti e la banca d’Inghilterra.

A questo punto, fratelli, c’era poco da fare. Noi stivatori ci eravamo messi per mare per procurar l’olio alla gente e non porcellane al Vecchio Istrione. E fu allora che la cassa segreta coi libri di bordo e le carte nautiche saltò con tutto l’armamentario e i trucchi di scena del vecchio Istrione, barbe, baffi e falsi passi e famosi archibugi che ancora hanno dove non sanno [riferimento alla vicenda di cui fu protagonista Giulio Seniga, segretario di Pietro Secchia: il Seniga fuggì con soldi e documenti, determinando l’emarginazione politica di Secchia, il quale aveva nel PCI un ruolo di primo piano, secondo solo a quello di Togliatti, in quanto responsabile dell’organizzazione del partito dal 1945 al 1954].

Il Vecchio Istrione ci rimase male! Non che mancasse di esperienza in fatto di casse saltate, che sia pure alla sua maniera di navigar di sotto, come il luccio di scoglio, e con mano svelta giusto trent’anni prima, di un malloppo di bordo si era impadronito [riferimento calunnioso all’episodio della perdita, da parte di Togliatti, di un assegno del Komintern destinato al PCd’I clandestino]. Ma insomma uno scherzo simile, e sul più bello, proprio non se lo aspettava. E per la verità si spaventarono un poco anche i mugugnatori e il capo stivatore, che non si aspettavano che che noi prendessimo tanto sul serio i loro gran propositi. Comunque sia, al Vecchio Istrione per poco non gli andò di traverso il caviale che stava degustando e ci mandò a dire che se volevamo tornare a bordo un po’ di olio della Balena Bianca ci sarebbe stato anche per noi.

Ma noi ne avevamo abbastanza di tirare a fregar la gente dicendo che si andava a caccia di balena con la lenza, e così ci siamo messi a lavorare d’ascia, e abbattiamo alberi per costruire poi una nave che, se non sarà una baleniera famosa, non sarà neanche lo yacht da diporto camuffato da vascello d’alto mare come quello sul cui castello di poppa il Vecchio Istrione racconta ogni domenica di quante miglia ci si è avvicinati alla Balena Bianca.

Adesso, dopo la gran tempesta di un anno fa, il comando si è riorganizzato. Ci sono i migliori dei vecchi, Gigi Nostromo che ha fatto ammenda dei suoi tarscorsi e Antonio Gigante [?] che si dà tono bestemmiando e berciando, e ci sono i migliori dei giovani, come Pietro Lacrima [Pietro Ingrao], Alfredino il Pariolino [Alfredo Reichlin] e Maurizio il Cornizio [Maurizio Ferrara], che accompagnano con la cetra i salmi domenicali del Vecchio Istrione. E Giorgio il Grosso, comandante in seconda, va in giro per la stiva e per i boccaporti a dire che le lenze sono diventate addirittura spingarde. (E quando i poveretti che non credevano più alla balena Bianca del Vecchio Istrione, già facevan la fila coi pentolini pensando di poter prendere almeno un po’ d’olio, allora il banchiere Miller e padre Jonas vennero in aiuto al Vecchio Istrione e per non dare neanche un po’ d’olio alla gente fecero di gran polemiche con lui, come se il suo yacht fosse davvero una baleniera, e la gente a discutere di alberature e di rotte e intanto l’olio non arrivava e Miller si prendeva pure i pentolini che la gente buttava via sfiduciata, per metter su un’altra fabbrichetta per la trasformazione dei rottami).

Ora c’è luna nuova in cielo, il vecchio istrione si tiene la sua Balena Bianca nella stiva, le sue porcellane in cabina, e Giorgio il Grosso dice a tutti di tenersi pronti a gettar le lenze per acchiappare Moby Dick. Ma studiate, fratelli, studiate la storia di come le navi vanno per mare. E saranno gli stivatori protervi che vi daranno i libri sui quali la potrete studiare, la vera storia, leggendo carte di bordo e non istrionesche novelle.

 

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  1. La lotta interna al PCI

Nel 1957, dopo i fatti di Ungheria, Italo Calvino, già in rotta con il PCI, scrive un’allegoria marinara, intitolata La gran bonaccia delle Antille, che viene pubblicata su «Città aperta», una rivista che gravita nell’area del PCI. Togliatti incarica Maurizio Ferrara di scrivere in risposta un’allegoria analoga, con il titolo La gran caccia delle Antille: allegoria che prenderà l’avvìo dall’insurrezione dell’aprile 1945 e da piazzale Loreto. Il racconto è firmato “Little Bald” (pseudonimo di Maurizio Ferrara),

Le allusioni sono chiarissime; l’allegoria delinea tutta la storia del PCI dal punto di vista togliattiano ed è, proprio per questo, il primo accenno pubblico, anche se metaforico, alle divergenze tra Secchia e Togliatti: un accenno che muove da lontano, addirittura da piazzale Loreto. Dopo la liberazione e l’insurrezione, l’ala stalinista del partito, guidata dal capo stivatore Pietro Secchia, ha quasi compromesso la politica delle larghe alleanze. Per fortuna il vecchio con gli occhiali, Togliatti, la emargina e chiama nella direzione i giovani come Alicata e Ingrao, che non hanno un’esperienza di partecipazione a lotte rivoluzionarie ma conoscono il marxismo. La morte di Stalin, il vecchio Acab, libera il partito dagli opportunisti come Giolitti, «Antonio il Nipote». E così, con gli stalinisti emarginati e confinati in ruoli modesti, il partito passa di vittoria in vittoria. Dal canto suo, Giulio Seniga pubblica su «Azione Comunista» una allegoria marinara in cui si rivelano quasi tutti i nomi dei dirigenti comunisti citati da Ferrara, non senza condire la novelletta con pesanti riferimenti a Togliatti e alla Jotti.

Secchia reagirà sdegnato, rivolgendosi ai vecchi compagni della Resistenza, a Longo e a Pajetta: come avete potuto permettere una cosa simile su «Rinascita»? Questi gli rispondono: nessuno ci ha interpellati, ha deciso lui, cioè Togliatti. Allora Secchia scrive a Togliatti: «È possibile che la rivista ideologica del partito presenti i comunisti all’indomani della guerra di liberazione come dei pirati bramosi di impossessarsi delle case e delle ricchezze altrui, di distruggere i villaggi della costa, di mettere a ferro e a fuoco il nostro paese? Non si è mai visto né un esercito né un partito rivoluzionario come il nostro, con una storia eroica come quella che ha il nostro, permettere che si insultino i suoi militanti soltanto perché sono diventati anziani e hanno perso nel corso di quelle lotte una parte delle loro energie». 4 Alle rimostranze di Secchia, Togliatti, assumendosi tutta la responsabilità della pubblicazione, risponde in modo sarcastico e canzonatorio: «La tua lettera del 21 novembre mi ha fatto cadere dalle nuvole. Tu hai preso a giudicare quel pezzo quasi come una direttiva del partito o come una storia di esso. È assurdo! Non si tratta né di una direttiva (di andare a caccia di balene) né di una storia. […] Gli sfoghi della tua lettera sulla storia eroica non hanno proprio niente a che fare. Anche gli eroi qualche volta si mettono a ridere». 5

Per quanto concerne «Azione Comunista», l’estensore della presentazione della terza allegoria («I gran vili delle Antille»), dopo aver ricordato lo spunto da cui la polemica ha preso le mosse (il racconto di Calvino), sunteggia la ricostruzione svolta, in forma di allegoria spiritosa, da «Rinascita» (ossia «La gran caccia delle Antille»), definendola senza mezzi termini “un quadro complessivo degli ultimi 12 anni di sconfitte del movimento operaio italiano”. Precisa poi che il racconto si riallaccia a Moby Dick, la balena bianca, famoso romanzo di Melville, e vorrebbe spiegare come si è svolta la caccia per catturare la Balena (cioè il socialismo): la nave baleniera sarebbe il PCI, mentre i personaggi citati riassumono le vicende di questo periodo storico. Alla Liberazione, scrive Seniga citando «Rinascita», «eravamo affamati, pochi e segnati dalla fatica… Ma tra di noi mica pochi guardavano alle case della riva: Iddio mi fulmini se sulle più ricche non c’era tra di noi chi pensava di averci sopra il diritto del padrone». E indica il nome di Pietro Secchia come capo di quegli avidi pirati (i partigiani) descritti da «Rinascita». Quindi così prosegue, sempre citando il passo del racconto allegorico di “Little Bald”: «Il capo stivatore si avventò al cannone», ma per fortuna interviene Togliatti, «il Vecchio che la domenica ci leggeva i Salmi», il quale dice: «Noi siamo ramponieri-cacciatori e non pirati… Riponete archibugi e spingarde, impugnate il rampone, la Grande Caccia è aperta». Ma «il capo stivatore non la mandò giù… Cominciò a navigare di sotto, come il luccio di scoglio. E spiava, mugugnava, concertava con certi suoi una specie di sottocomando, invertiva nottetempo la rotta»… diceva «che la Balena bianca era un miraggio, che era meglio tirar giù con le spingarde i villaggi della costa».

Insomma - sottolinea l’estensore della presentazione della terza allegoria -, «è la solita storia: quando si parla di lotta di classe, si viene descritti come petrolieri e sanguinari, mentre la Balena Bianca elettorale del Vecchio dei salmi è una prospettiva seria». Sennonché ecco che arrivano i guai, ovviamente per colpa del capitano Acab (Stalin): «il vecchio capitano Acab… sul finire della vita s’era quasi fissato per via di Moby Dick e aveva instaurato sul suo bordo una vita durissima. Da noi non era così… ma non appena le gazzette della costa riportarono la notizia che il vecchio Acab era morto e che a bordo di un battello ungherese era scoppiato l’ammutinamento, anche da noi scoppiò la maretta… cominciarono ad accusare il comando di acabismo». Prosegue indi la presentazione: «Ma veniamo alla fine del racconto, dove risulta che “gabbieri frettolosi e stivatori protervi finirono per campare nell’industria dei sottaceti…e noi cacciatori dopo una prima Balena Bianca ne cacciammo un’altra, e poi un’altra ancora, fino a dieci, a cento, a mille”». «Dunque – così conclude «Azione Comunista» nella presentazione in parola - secondo questa favola la burrasca è passata, e al lume della nuova luna il Vecchio dei salmi riprende la caccia elettorale».

Ed ecco la chiusa, che è tagliente: «Poiché la forma della favola allegorica è l’unica sulla quale Togliatti e i suoi hanno osato misurarsi con i dissidenti ed i ribelli, crediamo che anche gli “stivatori protervi” possano raccontare, con lo stesso linguaggio, qualche episodio della “grande caccia” alla quale hanno assistito». 6

 

  1. Un comunista irriducibile e un intellettuale dissidente: Pietro Secchia e Italo Calvino

È opportuno precisare che nell’ottica del quadro dirigente del PCI la genesi della distanza tra il “capostivatore” Secchia e il “Vecchio” Togliatti viene collocata nella Resistenza, piuttosto che in una fedeltà maggiore a Stalin e all’Unione Sovietica. In effetti, il diverso parere sulla situazione politica italiana che Secchia trasmette al gruppo dirigente del PCUS nell’inverno del 1947 e che lo fa emergere agli occhi di Stalin come una potenziale alternativa alla direzione neorevisionista di Togliatti, deriva proprio dall’esperienza della lotta di liberazione sia nei metodi che nei contenuti: non già un dissenso sulla valutazione dei rapporti di forza e sulla strategia della democrazia progressiva, bensì l’indicazione di «lotte più ampie, più dure, più decise» dettata dal rischio di «cedere oggi una posizione, domani un’altra e trovarci poi nella condizione di non poter più avere l’iniziativa». 7 Per converso, le seguenti indicazioni, ricevute allora da Stalin, sono integralmente accolte da Secchia: «Riteniamo che adesso non si debba adottare la linea dell’insurrezione, ma bisogna essere pronti, nel caso il nemico attacchi. Sarebbe bene rafforzare le organizzazioni dei partigiani italiani, accumulare più armi». 8

Le implicazioni politiche di quelle direttive staliniane sono rilevanti e si ritrovano puntualmente nell’itinerario politico-ideologico di Secchia: la diffidenza nei confronti del lealismo costituzionale della DC, il puntare sulle risorse organizzative (anche in senso militare) del partito, la svalutazione del ruolo legislativo del parlamento, la previsione di un decisivo scontro finale anziché di una collaborazione tra forze diverse. Nel rivendicare una maggiore mobilitazione delle masse proletarie, Secchia si richiama con insistenza allo scontro insurrezionale organizzato e diretto dai comunisti nella primavera del 1945: un patrimonio di insegnamenti che viene contrapposto sia ai momenti di scontro acuto ma spontaneo come il luglio 1948, sia al comportamento rinunciatario del PCI dopo l’estromissione dal governo nel maggio del 1947.

Se è vero che, nel complesso, il PCI supera la crisi del periodo immediatamente successivo ai fatti di Ungheria senza scosse troppo gravi, è indubbio però che si aprono nel corpo del partito due scissioni. Infatti, rompono con il partito non solo alcuni quadri dirigenti di orientamento apertamente riformista, che negli ultimi tempi avevano manifestato il loro dissenso, come Fabrizio Onofri, Eugenio Reale e Antonio Giolitti, ma anche non pochi intellettuali di grande prestigio, come Italo Calvino, Carlo Muscetta e Vezio Crisafulli. Togliatti è il primo a rendersi conto che è entrato in crisi il rapporto privilegiato che il PCI era riuscito a stabilire, dopo la Liberazione, con la parte più viva della cultura italiana, e a rendersi conto di quanto sia importante recuperare tale rapporto. Ciò non toglie che sul terreno della polemica politica la sua posizione sia molto netta: al moltiplicarsi dei dubbi e alle istanze revisioniste e riformiste manifestate dagli intellettuali, egli contrappone l’istanza del rigore ideologico e il senso della disciplina collettiva che cementa intorno al partito la sua base proletaria: «Per camminar diritto occorre una coscienza di classe e politica dove il ragionamento e la fede si intrecciano e compenetrano sempre nel modo più stretto. Occorre siano sempre presenti quella rottura con l’ordinamento attuale della società e quella certezza del futuro che nell’animo dell’uomo semplice, dello sfruttato, della massa dei proletari sgorgano dalle condizioni stesse dell’esistenza.

Togliatti, in sostanza, riconduce il fenomeno del distacco degli intellettuali di origine borghese e piccolo-borghese dal partito ad una crisi dovuta alla loro incapacità di rapportarsi alla dura realtà della lotta di classe. Significativo sarà pertanto il suo atteggiamento nei confronti di Calvino. Allo scrittore, che lascia il partito il 1° agosto 1957, con una lettera di dimissioni indirizzata al Comitato federale di Torino ed eccezionalmente pubblicata dall’«Unità», Togliatti riserva in pubblico un trattamento quasi sprezzante, quando, nel suo intervento al Comitato centrale del settembre 1957, gli dedica, commentando l’allegoria marinara svolta nel racconto satirico La gran bonaccia delle Antille, questo durissimo giudizio: «Il letterato che ieri si rifiutava di scrivere qualcosa che significasse un suo impegno politico a sostegno di nobili battaglie che il partito conduceva, appena uscito dal partito ha scritto la novelletta per buttar fango, agli ordini dei giornali della borghesia, sopra il partito e i suoi dirigenti, per accrescere la confusione, la sfiducia, il disfattismo».

Rispondendo poi in privato alle rimostranze dello scrittore, precisa di non aver preso di mira lui personalmente, ma di aver voluto qualificare piuttosto un “tipo”, alcuni tratti del quale «furono purtroppo propri, tradizionalmente, di troppi uomini di lettere italiani: giullari di corte, non caratteri»; e conclude: «Se in questo tipo rientri, in qualche misura e per qualche cosa, anche tu, è questione di fatto di minore interesse. Certo vi rientra in pieno la lettera con la quale hai dato le dimissioni dal Partito. Perciò hai torto di dolerti se esprime un aspro giudizio di condanna, che colpisce anche te, un compagno che avrà probabilmente commesso errori numerosi, non mai però quello di venir meno alla lotta per il partito e contro tutti coloro che in un modo o nell’altro gli recano danno». 9

 

  1. Un bilancio storico del biennio 1956-1958

Dagli episodi cruciali che sono stati citati è possibile ricavare alcune conclusioni di ordine storico, politico e ideologico. Durante la “tempesta perfetta” che si scatena nel biennio 1956-1957 per via del sommarsi di più eventi di grande portata (XX congresso del PCUS, fatti d’Ungheria, dissenso interno al PCI, rapporti con le tendenze liberal-borghesi di alcuni quadri dirigenti e di un notevole numero di intellettuali dissidenti, VIII congresso del PCI ed elaborazione di una strategia compiutamente revisionista denominata “via italiana al socialismo”) bisogna riconoscere che Togliatti non dètte il minimo spazio all’inquietudine della base del partito, controllando e manovrando con forza e spregiudicatezza la barra del timone - per giocare sulla metafora marinara attorno a cui ruotano i racconti allegorici qui esposti ed esaminati -.

 Alla fine di quel biennio dirompente il galeone comunista, dopo essersi sbarazzato degli archibugi e delle spingarde, riprende il largo e naviga solitario. Tuttavia, non ha tralasciato di approntare le lenze e di epurare i ranghi dell’equipaggio nell’intento di condurre la “grande caccia” alla Balena Bianca in modo non solo differente, ma alternativo a quello seguìto dal capitano Acab. Applicando la tattica della lotta sui due fronti, il PCI togliattiano ha anche scaricato in mare gli ufficiali che intendevano muovere con scialuppe più agili e nuove bandiere verso approdi consentiti. Così. la grande bonaccia delle Antille sta per calare sulla politica italiana, nel mentre il galeone è fermo in mezzo al Mar dei Sargassi e sta cambiando rotta perché ha cambiato approdo.

Ai suoi marinai Franco Fortini scriverà una lettera che suona come un amaro e rassegnato consuntivo: «Sei uscito dall’Università al tempo della guerra d’Etiopia; con l’Anschluss eri al confino, nel ’40 in prigione, alla fine del ’43 in montagna. L’Italia, sotto i tuoi occhi, si è trasformata, è diventata quasi irriconoscibile; ma quello che abbiamo voluto e per cui siamo vissuti, quella inversione del moto, del senso del lavoro di tutti, quella trasmutazione, quella convergenza delle energie che non so chiamare se non Rivoluzione e che non è né delirio né utopia – non l’abbiamo veduta, almeno nel nostro paese». 10


Note
1 «Città aperta», n. 4-5, 25 luglio 1957 (l’articolo verrà ripubblicato il 25 agosto sull’«Espresso»).
2 «Rinascita - rivista diretta da P. Togliatti», n. 9, ottobre 1957.
3 «Azione Comunista – organo della Sinistra Comunista», n. 24, 15 novembre 1957. Per la storia di questa rivista e dei gruppi della sinistra comunista che collaboravano con essa, è da vedere, facendo la tara alle simpatie bordighiste dell’autore, la documentata ricostruzione svolta da Arturo Peregalli, accessibile al seguente indirizzo sulla Rete:
https://www.aptresso.org/files.spazioweb.it/Storia_di_classe/Arturo_Peregalli_Le_dissidenze_comuniste_tra_Lenin_e_Mao_Azione_Comunista_(1956-1965).pdf. Dalle ricerche e dai raffronti che ho condotto non risulta con chiarezza chi sia l’autore di questo terzo racconto allegorico: se sia, cioè, Giorgio Galli o Giulio Seniga. Ho optato per l’attribuzione della paternità dello scritto in questione al primo, ritenendo tale ipotesi più probabile.
4 Lettera di Secchia a Togliatti, 21 novembre 1957, Archivio Pietro Secchia, Feltrinelli, Milano 1979.
5 Risposta di Togliatti a Secchia, 23 novembre 1957, Archivio Pietro Secchia cit., ivi.
6 «Azione Comunista – organo della Sinistra Comunista», n. 24, 15 novembre 1957, p. 3.
7 Cfr. la nota introduttiva di E. Collotti alla Relazione sulla situazione italiana presentata da Secchia nel dicembre 1947 a Mosca su diretta sollecitazione di Stalin, in Archivio Pietro Secchia cit., pp. 609-610.
8 F. Gori e S. Pons, L’Urss, il Cominform e il Pci 1943-1951, in «Annali della Fondazione Istituto Gramsci», VII (1998), pp. 177-178.
9 Nel tratteggiare questo spaccato della storia politica e culturale italiana della seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso mi sono servito, come testi di riferimento, del bel libro di Paolo Spriano, Le passioni di un decennio. 1946-1956, Garzanti, Milano 1986, del secondo volume della biografia pubblicata da Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, Laterza, Roma-Bari 1977, e della Storia del Partito comunista italiano – Dall’attentato a Togliatti all’VIII congresso di Giovanni Gozzini e Renzo Martinelli, Einaudi, Torino 1998.
10 F. Fortini, Lettera a un comunista, in Id., Dieci inverni 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, De Donato, Bari 1973, p. 298.

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