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Turchia: la vittoria di Erdogan mette in discussione il futuro della NATO?

di Fulvio Bellini

Immagine per home articolo TURCHIA.jfif Premessa: lo strano concetto di democrazia propagandata in Italia

Il 28 maggio scorso si è svolto il ballottaggio per l’elezione del Presidente turco tra il candidato uscente Recep Tayyip Erdogan e lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu. Il 14 maggio, in concomitanza del primo turno delle presidenziali, si erano svolte anche le elezioni generali per la composizione del nuovo parlamento. L’esito delle elezioni ha visto la vittoria di Erdogan che, grazie ai 27.834.692 (52,18%) consensi ricevuti, ha ottenuto il terzo mandato consecutivo. Se si sommano i gli incarichi come Primo ministro e Capo dello Stato, Erdogan si trova ai vertici del potere turco da vent’anni, avendo preso la guida del governo il 14 marzo del 2003. Se si guarda ai risultati delle elezioni parlamentari, la compagine del Presidente confermato, Partito della Giustizia e dello Sviluppo è risultato il più votato. Personalmente nutro un certo rispetto nei confronti di Radio Radicale che nasce dalla sua linea editoriale netta e trasparente, anche se non condivisibile: atlantismo senza tentennamenti, russofobia e cinofobia spinti al loro eccesso, apprezzamento dell’attuale stato di vassallaggio della UE nei confronti degli Stati Uniti, promozione dei diritti civili ma solo se disgiunti da quelli sociali ed economici, i quali vanno ignorati, liberismo senza limiti in economia, privatizzazioni di ogni servizio e di ogni risorsa. In estrema sintesi: libertà totale per la borghesia, elevazione dei suoi capricci e delle sue perversioni al rango di diritti civili. Se si sceglie Radio Radicale si sa chi si ascolta. Non è una notazione marginale, esistono radio intellettualmente disoneste, le quali condividono in gran parte la piattaforma politica radicale ma si travestono da radio di sinistra: il riferimento a Radio Popolare è puramente voluto.

Durante il pomeriggio di quel 28 maggio, se ci si fosse sintonizzati su Radio Radicale appunto, si sarebbe potuto ascoltare uno speciale sulle elezioni turche, nel quale conduttore, giornalisti, commentatori e personaggi politici, specialmente appartenenti a +Europa ed al Partito Democratico, non riuscivano a capacitarsi della vittoria di Erdogan. Molti interventi, specialmente di esponenti del PD, adombravano la possibilità che vi fossero stati atti intimidatori, violenze su candidati ed elettori, brogli tutti orchestrati dal Presidente Erdogan. Al contrario, Kemal Kılıçdaroğlu veniva descritto come un autentico paladino della democrazia e dei valori occidentali, non importa se in campagna elettorale avesse promesso di cacciare immediatamente i rifugiati siriani in Turchia, lo aveva promesso anche Erdogan. Il capo dell’opposizione era stato eroico ed aveva ottenuto un risultato miracoloso, viste le condizioni di estrema disparità, ad esempio, nella possibilità di accedere ai mezzi di comunicazione, soprattutto televisivi. Insomma a Radio Radicale andava in scena una curiosa narrativa: in Turchia si stavano svolgendo delle elezioni quasi truccate, gestite da un quasi dittatore, che era riuscito ad imbrogliare i turchi i quali, ingannati dalla potenza manipolatrice erdoganiana, non hanno potuto capire che dovevano votare Kılıçdaroğlu. Per fortuna, aggiungiamo noi, siamo in Italia, un paese dalla democrazia compiuta, dove non si corrono gli stessi rischi dei turchi, nonostante la recente vittoria di Giorgia Meloni. Prima, però, di addentrarci nell’analisi del voto turco e delle sue rilevantissime conseguenze geopolitiche, mi soffermerei sul dato dell’affluenza alle urne e sui macro risultati elettorali per porre un quesito a Radio Radicale: quando un paese si definisce democratico e quando autocratico? Facciamo l’esempio dell’affluenza alle urne. Per pura coincidenza il 28 maggio, nella democratica Italia si svolgevano i ballottaggi per l’elezione di sindaci, anche d’importanti capoluoghi. Nella “vessata” Turchia l’affluenza al voto è stata dell’84,15%, una partecipazione elevata e che garantisce l’adeguata presenza del voto d’opinione, che come abbiamo spiegato in passati articoli, affianca sempre quello clientelare e quello organizzato in ogni tornata elettorale, in Italia come in Turchia. In occasione del ballottaggio delle amministrative italiane del 14 e 15 maggio, ad esempio, ad Ancona l’afflusso è stato del 51,75%, a Vicenza il 52,78% a Siena il 56,96%, a Brindisi il 43,79%. Si obbietterà che paragonare le elezioni presidenziali turche con le amministrative italiane non ha nessun senso, replicherò che il paragone è pertinente laddove l’attrazione alle urne in Italia per le amministrative è più forte rispetto alle politiche, in quanto nelle prime le componenti di vicinanza ed anche di conoscenza personale dei candidati giocano un ruolo rilevante come spinta per l’elettorato ad esprimersi; nel caso in questione, la relazione era rappresentata semplicemente dalla concomitanza temporale tra le due elezioni e le rispettive narrazioni. Se poi vogliamo fare un paragone tecnicamente corretto è presto fatto: le elezioni politiche in Italia del 25 settembre 2022 hanno visto l’affluenza del 63,85% degli aventi diritto per la Camera dei Deputati, quelle politiche turche del 14 maggio 2023 hanno visto l’affluenza del 86,93% degli aventi diritto. Ma non è tutto: per vincere le elezioni in Italia alla coalizione guidata da Giorgia Meloni sono bastati 12.305.014 voti su 45.210.950 aventi diritto, pari al 27,21%; in Turchia la maggioranza di centro destra che sostiene Erdogan in parlamento ha dovuto ottenere 26.934.455 suffragi su 64.190.651 aventi diritto, cioè il 41,96%. Dal punto di vista dei vincitori: dove sta il paradiso elettorale e dove il purgatorio? Dal punto di vista della partecipazione popolare: dove sta la democrazia e dove l’autocrazia? In altre parole, l’elevata astensione è sintomo di un regime democratico oppure di un’”autocrazia di sistema”? Non è forse vero che la totale assenza di un’autentica opposizione deprime il voto d’opinione dando mani libere al ceto politico nell’indefesso affondamento del Bel Paese (basta vedere l’ultima catastrofe in Romagna) senza mai pagarne il conto politico e soprattutto giudiziario? Nella Turchia dell’autocrate Erdogan, dove secondo +Europa e PD i diritti democratici sono calpestati, i numeri hanno dimostrato che ciò che accade normalmente in Italia è impensabile. In Parlamento, la coalizione che ha sostenuto Kemal Kılıçdaroğlu ha ottenuto 19.063.781 suffragi pari al 29,69% degli aventi diritto, un risultato sorprendente se è vero, come sostengono gli indignati democratici italiani, che l’elettorato turco è stato manipolato dai mass media di regime ed intimidito dal potere erdoganiano. Chiederei a Radio Popolare di spiegarci come mai nella democratica Italia si è maggioranza di governo con il 27,21% dei suffragi, mentre nell’autocratica Turchia si è minoranza con il 29,69%? Siccome non penso che la radio della Lista Pannella mai ci risponderà, facciamolo da soli. Le elezioni parlamentari turche comparate a quelle italiane hanno dimostrato che l’elettore turco è stato libero di scegliere tra due reali alternative e per questa ragione è stato stimolato a partecipare attivamente all’espressione del voto. In Italia non vi è una vera opposizione, ma ci si trova in presenza di un Partito Unico che manda al governo alternativamente, ma nemmeno troppo come dimostrato dal gabinetto Draghi, le proprie correnti, gabbando con sommo piacere l’elettore italiano, che percepisce l’inutilità del suo voto e quindi va ad ingrossare il primo partito nazionale, quello dell’astensione, pensando così di “punire” i partiti che non lo rappresentano, ed invece rendendoli ancora più forti ed impuniti.

 

Erdogan ha vinto ma non era un risultato scontato

Torniamo alla Turchia. Da alcuni anni Recep Tayyip Erdogan è stato soprannominato “il Sultano”, e da un certo punto di vista non è un soprannome errato, ma non per le ragioni che hanno mosso i suoi detrattori. Nell’articolo dell’agosto 2022 “Turchia: specchio di un’Italia che non esiste più” pubblicato su Cumpanis, si cercava di dare una veste obiettiva ed oggettiva alla figura di Erdogan ed alla sua politica: l’uomo veniva definito un Giulio Andreotti turco, la sua politica una versione islamica di quella democristiana. La capacità che ha avuto Erdogan di prevalere in queste difficilissime elezioni mi ha rinfrancato in quell’analisi ed in quelle definizioni, perché la vittoria in questa tornata è stata un piccolo capolavoro. Ai blocchi di partenza della corsa alle presidenziali, la posizione di Erdogan non era affatto quella descritta da Radio Radicale nel suo livido speciale elezioni, anzi il Presidente uscente era elettoralmente vulnerabile come mai gli era successo in passato. Dal punto di vista internazionale, il Sultano scontava l’aperta ostilità degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. I rapporti tra Erdogan e la Casa Bianca sono compromessi almeno dal 15 luglio 2016, allorquando l’idolo Radical Chic Barak Obama (è sempre affascinante osservare lo spirito democratico ad intermittenza di questi personaggi) ispirò un tentativo di colpo di stato militare per rovesciare il Presidente turco, alla fine scongiurato. Tra il 2016 ed il 2022 il Sultano ha eccessivamente flirtato con i russi: in Libia, oscurando definitivamente lo storico ruolo ricoperto dalla decadente Italia; in Siria, facendo l’ambiguo con il regime di Damasco, alleato dei russi e nemico degli americani; con l’Ucraina, dimostrando alle cancellerie del mondo di essere l’unico, ancor più della Cina, ad essere riuscito a portare il presidente-attore-burattino Zelensky al tavolo delle trattative coi russi in occasione della soluzione del dossier grano. Insomma di ragioni per l’intelligence americana per organizzare l’ennesimo tentativo di golpe, pardon di rivoluzione colorata, vi erano con abbondanza. Gli Stati Uniti si sono dati da fare per influenzare la campagna elettorale a favore del candidato sfidante se si dà credito al commento di Erdogan riportato da ADN Kronos del 16 maggio: “Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha festeggiato i risultati ottenuti nelle elezioni presidenziali (del primo turno n.d.r.) di domenica, che gli hanno assicurato il 49,51 per cento dei voti secondo il Consiglio elettorale supremo. Ma allo stesso tempo ha accusato l’opposizione guidata da Kemal Kilicdaroglu e gli Stati Uniti di aver tentato di interferire nei risultati elettorali. La nostra nazione ha rivendicato il suo libero arbitrio, nonostante l’ingerenza politica dell’opposizione, della Pennsylvania (dove è nato il presidente americano Joe Biden e dove vive in esilio Fetullah Gulen, n.d.r.), i social media e le copertine delle riviste straniere”, ha detto Erdogan su Twitter”. La gran cassa della propaganda americana aveva quindi suonato contro il Sultano. Dal punto di vista economico, secondo elemento a sfavore del Presidente uscente, la situazione si mostrava quanto meno complessa visto il tasso d’inflazione che, nel mese di Aprile era stato del 43,68% e tale dato, seppure in miglioramento rispetto ai mesi precedenti, veniva additato da Reuters del 3 Maggio come elemento a sfavore della rielezione di Erdogan: “L’inflazione annuale turca è scesa al 43,68% ad aprile, secondo i dati ufficiali mostrati mercoledì, in calo in vista delle elezioni che i sondaggi mostrano che il presidente Tayyip Erdogan rischia di perdere in gran parte a causa della crisi del costo della vita. I tagli dei tassi non ortodossi ricercati da Erdogan hanno scatenato una crisi valutaria alla fine del 2021, portando l’inflazione a un picco da 24 anni dell’85,51% lo scorso anno. È sceso a dicembre e ha toccato il 50,51% a marzo con un effetto base favorevole e una lira relativamente stabile. La crisi del costo della vita ha divorato i risparmi delle famiglie e anche la popolarità di Erdogan in vista delle votazioni presidenziali e parlamentari del 14 maggio, viste come la più grande prova del presidente nei suoi 20 anni di regno. Alcuni sondaggi mostrano Erdogan dietro al suo principale avversario Kemal Kilicdaroglu”. Il terzo elemento di criticità proveniva dalla difficile gestione del sisma del 5 e 6 febbraio 2023 avvenuto tra Turchia e Siria e che ha causato 57.700 morti, e più di 122.500 feriti, nonché immani distruzioni in entrambi i paesi. Il governo turco fu investito della responsabilità di aver sanato costruzioni che non hanno retto l’impatto sismico: “Terremoto in Turchia, gli esperti: “Le città sono cimiteri a causa di licenze illecite… Condono 2018 – Gli urbanisti avvisarono Erdogan del disastro”, il Fatto Quotidiano del 8 febbraio 2023. La macchina dei soccorsi non si dimostrò efficiente ed efficace quanto doveva essere: “Erdogan: soccorsi più lenti del previsto. Il presidente turco Erdogan ammette che i soccorsi “non procedono velocemente come sperato”, come riferisce RaiNews del 10 febbraio 2023. Anche dal punto di vista della salute personale, Erdogan si presentava alle elezioni con evidenti segni di stanchezza se non peggio: “Erdogan cancella gli impegni elettorali dopo un malore” ci informa l’ANSA del 27 aprile scorso. Insomma l’occasione di detronizzare l’odiato Sultano era decisamente imperdibile per l’Occidente: “se non ora, quando?” come recita il Talmud.

 

L’Unione Europea ha scritto il programma di Kilicdaroglu

Per capire le ragioni della difficile vittoria di Erdogan occorre partire dal programma elettorale dello sfidante Kemal Kilicdaroglu, ma ancora prima di esso, è utile analizzare un importante documento redatto dall’Unione Europea sulla Turchia di Erdogan: il rapporto intitolato “Key findings of the 2022 Report on Türkiye” pubblicato sul sito della Commissione Europea il 12 ottobre 2022. Questo documento valuta lo stato di fatto del processo d’integrazione della Turchia nella UE, anche se non è chiaro quale delle due parti lo sostenga ancora. Il rapporto è fortemente critico nei confronti dell’azione di Erdogan, al potere da vent’anni ad Ankara e quindi principale responsabile della ragguardevole distanza che separa ancora la Turchia dalla “Terra Promessa” europea. Il programma dello sfidante, invece, prende le mosse soprattutto da questo rapporto, vediamo quindi alcuni passaggi illuminanti. “Ci sono gravi carenze nel funzionamento delle istituzioni democratiche della Turchia. Durante il periodo in esame, è proseguito il regresso democratico. Sono rimaste carenze strutturali nel sistema presidenziale…. L’architettura costituzionale ha continuato a centralizzare i poteri a livello di presidenza senza garantire una solida ed effettiva separazione dei poteri tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario…. La magistratura ha continuato a colpire sistematicamente membri dei partiti di opposizione in Parlamento, in relazione a presunti reati legati al terrorismo”. Il candidato ideale per la UE deve quindi invertire la rotta presa da Erdogan, che secondo la Commissione europea segue le orme degli altri autocrati Putin e Xi Jinping. “La situazione nel sud-est rimane molto preoccupante. Nell’ottobre 2021, il parlamento di Turchia ha prorogato di altri due anni il mandato dell’esercito per avviare operazioni antiterrorismo transfrontaliere in Siria e Iraq…. L’UE ha condannato senza ambiguità gli attacchi del PKK ed ha espresso solidarietà alle famiglie delle vittime. Il governo ha il legittimo diritto e la responsabilità di combattere il terrorismo, ma è essenziale che lo faccia nel rispetto dello stato di diritto, dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Le misure antiterrorismo devono essere proporzionate”. Il rapporto tra curdi e Stati Uniti è stato costellato da ripetuti innamoramenti e successivi abbandoni da parte di Washington, ma i curdi si possono definire quasi amici dell’Occidente. Un presidente ideale per la UE deve quindi tenere conto degli “amici”, anche quando sono terroristi e compiono attentati. L’attenzione che un bravo presidente turco deve agli affezionati all’Occidente è un punto fondamentale nel rapporto della UE, ed è ribadito quando si parla di giustizia e diritti civili: “Il sistema giudiziario della Turchia è in una fase iniziale di preparazione. Il grave regresso osservato dal 2016 è proseguito durante il periodo di riferimento. Permangono preoccupazioni, in particolare per la sistematica mancanza di indipendenza della magistratura e l’indebita pressione su giudici e pubblici ministeri… Il deterioramento dei diritti umani e fondamentali è continuato. Molte delle misure introdotte durante lo stato di emergenza restano in vigore…. Il continuo rifiuto della Turchia di attuare determinate sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare nei casi di Selahattin Demirtaş e Osman Kavala (entrambi in carcere con l’accusa di aver ricoperto ruoli di rilievo nel tentato golpe del 2016 n.d.r.), è fonte di grave preoccupazione per quanto riguarda l’adesione della magistratura agli standard internazionali ed europei e l’impegno della Turchia a promuovere lo stato di diritto e il rispetto dei diritti fondamentali”. Dove un bravo presidente turco per la UE deve dare chiari segnali di cambio di rotta è in politica estera, essendo quella praticata da Erdogan duramente criticata dalla UE: “La politica estera unilaterale della Turchia ha continuato a essere in contrasto con le priorità dell’UE nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (PESC), in particolare a causa della sua azione militare in Siria e Iraq e del mancato allineamento con le misure restrittive dell’UE nei confronti della Russia. La Turchia ha mantenuto un tasso di allineamento molto basso con la posizione dell’UE sulla politica estera e di sicurezza del 7% (ad agosto 2022). Il sostegno militare della Turchia alla Libia, compreso il dispiegamento di combattenti stranieri sul campo, e le sue continue critiche e la mancanza di cooperazione con l’operazione IRINI pregiudicano l’effettivo contributo dell’UE all’attuazione dell’embargo delle Nazioni Unite sulle armi e hanno portato ad approcci contrastanti nei confronti della Libia. La Turchia rimane un attore di fondamentale importanza nella crisi siriana e condivide con l’UE l’obiettivo di una Siria stabile e prospera. Tuttavia, le sue truppe hanno mantenuto una presenza significativa nella regione e in altre parti della Siria settentrionale”. Eppure Erdogan ha svolto un ruolo rilevante nella soluzione del dossier grano nel 2022, e la Commissione lo deve ammettere a denti stretti: “La Turchia ha mirato a facilitare i colloqui tra Ucraina e Russia e lavorare alla riduzione dell’escalation e alla realizzazione di un cessate il fuoco. Ha inoltre intrapreso un’iniziativa diplomatica per facilitare l’esportazione di grano ucraino; l’accordo concordato da Ucraina e Russia il 22 luglio a Istanbul, facilitato dall’ONU e dalla Turchia, non sarebbe stato possibile senza il ruolo costruttivo della Turchia, che è anche coinvolta nel facilitare l’attuazione dell’accordo”. Invece di ricevere il plauso della Commissione, al Sultano viene ribadito che: “Tuttavia, la Turchia si è astenuta dall’allinearsi alle sanzioni dell’UE contro la Russia. La Turchia ha firmato un memorandum d’intesa per lo sviluppo di relazioni economiche e commerciali con la Russia”.

Il rapporto, però, non spiega come avrebbe fatto Ankara ad intraprendere un’azione diplomatica positiva se si fosse allineata alle sanzioni UE contro Mosca. Un bravo presidente turco non deve disturbare le attività di ricerca e perforazione svolte dalle compagnie occidentali nel mediterraneo orientale, come invece ha fatto il bieco Sultano: “Sebbene non vi siano state attività di perforazione non autorizzate da parte della Turchia nel Mediterraneo orientale durante il periodo in esame, le tensioni sono aumentate. Le navi da guerra turche hanno ostacolato illegalmente l’attività di rilevamento nella zona economica esclusiva cipriota”. Infine il rapporto UE non può esimersi dal criticare e condannare la famosa Erdoganomics: “La politica monetaria eccessivamente accomodante del paese e la mancanza di credibilità politica hanno indebolito la lira e portato l’inflazione ufficiale a un massimo di due decenni di oltre l’80%. I prezzi più elevati delle materie prime importate hanno ampliato gli squilibri esterni, che rimangono una delle principali vulnerabilità in una situazione di maggiore incertezza e basso livello delle riserve internazionali. L’esecuzione del bilancio ha superato i piani, ma il debito pubblico è aumentato e la politica fiscale è stata sempre più messa sotto pressione, gravata dai tentativi falliti di frenare l’aumento dell’inflazione e sostenere la valuta nazionale. Persiste l’intervento dello Stato nei meccanismi di fissazione dei prezzi… Il settore bancario è rimasto sostanzialmente stabile e l’adeguatezza patrimoniale al di sopra dei requisiti regolamentari. I prestiti in sofferenza sono diminuiti e la redditività è migliorata, ma sono aumentati i rischi di dollarizzazione e stabilità finanziaria… La Turchia è moderatamente preparata sulla libera circolazione dei capitali, poiché continuano le limitazioni alla proprietà straniera e alla circolazione dei capitali… La banca centrale continua a subire forti pressioni politiche e la sua indipendenza funzionale deve essere ripristinata”. Un bravo presidente turco deve quindi attuare politiche che siano pienamente nell’alveo liberista targato Stati Uniti ed Unione Europea, ed ogni impedimento alla libera circolazione degli interessi e dei capitali occidentali va prontamente rimossa, indicando tale necessità nella chiusura del rapporto: “Nel complesso, in molti settori è necessario un ulteriore lavoro significativo per l’allineamento legislativo con l’acquis dell’UE… Garantire l’indipendenza delle autorità di regolamentazione e sviluppare la capacità amministrativa sono fondamentali affinché la Turchia possa compiere ulteriori progressi”. Ecco che il programma di Kemal Kilicdaroglu era già scritto, e da egli confermato nei punti principali: in politica estera ribaltare completamente la posizione del Paese, portando in Turchia tutte le regole democratiche previste dall’Unione europea per ottenere l’ingresso nella UE; condannare senza scusanti l’invasione russa dell’Ucraina; liberare subito gli amici dell’Occidente Osman Kavala e Selahattin Demirtas; infine limitare il ruolo dello stato sul sistema finanziario (leggi Banca centrale) e quindi permettere l’inevitabile aumento del tasso ufficiale di sconto. Breve osservazione: Kilicdaroglu si è presentato con una coalizione di sei partiti, detto il Tavolo dei 6, presentando un programma atlantista ed iper liberista, con la prospettiva di far entrare la Turchia in una UE in crisi economica, flagellata dall’inflazione importata dal dollaro e priva di una politica estera indipendente dai voleri di Washington. I partiti che sostengono una simile piattaforma sono stati definiti di centro-sinistra, ed il partito repubblicano CHP viene descritto come in viaggio verso la socialdemocrazia. In Turchia, amici ed estimatori degli USA e della UE stanno più nella cosiddetta sinistra che nella cosiddetta destra, a differenza dell’Italia dove stanno in tutto l’emiciclo. Appare fondata l’impressione che la socialdemocrazia europea, compresi verdi ed ambientalisti, si stiano rivelando validi pilasti dove far poggiare l’influenza politica americana sul vecchio continente, ed è ragguardevole notare che non vi è nessun paese, Turchia inclusa, che sia in grado di sfuggire alla nemesi della socialdemocrazia europea.

 

Le ragioni della vittoria di Erdogan: la grandeur turca e l’Erdoganomics

Abbiamo visto che la vittoria di Erdogan era tutt’altro che scontata, e che l’Occidente plurale abbia perso l’occasione di scalzare il Sultano dal suo Trono di Ankara. Abbiamo anche smentito le ragioni addotte da Radio Radicale nel suo speciale del 28 maggio, evidentemente vittime di un abbaglio: stavano scambiando le elezioni amministrative in Italia con le presidenziali turche. Altri commentatori si sono lamentati della debolezza dello sfidante Kilicdaroglu, oppure del fatto che il leader dell’opposizione di sia auto imposto in qualità di capo del partito maggiore della coalizione sfidante. Questa critica sembra debole in quanto Kilicdaroglu ha raccolto la ragguardevole cifra di 25.432.951 voti al secondo turno, ed ha perso per soli 2.401.741 suffragi. Gli stessi risultati provano il fatto che l’elettorato turco non è stato manipolato dai mass media e non è neppure stato intimidito dai partiti di maggioranza. Le ragioni della vittoria di Erdogan risiedono nei due programmi politici, e non si intende quelli scritti che nessuno legge, bensì le visioni strategiche sul futuro della Turchia che sono state opposte. L’elettorato turco aveva netta la sensazione di scegliere tra due differenti strade, ed ha scelto quella che ha percepito la migliore per il proprio futuro, facoltà che nella democratica Italia è stata negata dall’affermarsi del Partito Unico. Le ragioni sono quindi molteplici, ma ve ne sono alcune fondamentali, e foriere di conseguenze nel quadro politico internazionale. Iniziamo dalla prima, la più evidente in quanto basilare: Erdogan ha vinto perché ha restituito ai turchi l’orgoglio di essere tali, dando agli stessi la sensazione che la Turchia sia un paese importante, rispettato, apprezzato e con un ruolo politico crescente nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Utilizzando la crescente importanza della Turchia nei vari scacchieri mediterranei, dalla Libia alla Siria, dal Mediterraneo al Mar Nero, Erdogan ha potuto rinsaldare i suoi rapporti con le forze armate, tradizionali fonti di colpi di stato. Analogamente a quanto accaduto ai vertici militari latino americani, il ruolo internazionale svolto dalla Turchia ha convinto le gerarchie che fare gli aguzzini sporchi, brutti e cattivi al soldo degli americani in patria oppure in Ucraina è meno affascinante che essere rispettati istruttori militari in Libia, oppure giocare un ruolo significativo in Siria, in Iraq, Mar Nero e nel Mediterraneo. Lo scontro decisivo tra Erdogan e Kilicdaroglu, però, si è consumato sul campo dell’economia, e più specificatamente sulla capacità di attrarre capitali stranieri sia a titolo d’investimenti che di prestiti. Kilicdaroglu, rappresentando gli interessi di Stati Uniti e di UE, avrebbe chiuso l’esperienza della Erdoganomics con due semplici ma letali mosse per i turchi: rialzare significativamente il tasso ufficiale di sconto (alla faccia dell’indipendenza della Banca centrale), ed ovviare al bisogno di valuta pregiata chiedendo prestiti in dollari ai noti strozzini del Fondo Monetario Internazionale, sprofondando la Turchia in una spirale di crescente povertà e debito caratteristica, ad esempio, dell’economia argentina. Al contrario, la politica di Erdogan di deprimere il tasso ufficiale permette ai turchi di reddito medio e basso, nonostante e proprio per la situazione di alta inflazione, di poter accedere al credito a tassi abbordabili, possibilità che la politica liberista di Kilicdaroglu comprometterebbe. Questo ragionamento, solo apparentemente complesso, è stato fatto da milioni di elettori turchi che hanno un mutuo a tasso variabile oppure un prestito bancario da rendere, ed ha influito sull’intenzione di voto. In questo senso è corretto dire che le classi medio alte, soprattutto dei “rentier”, hanno votato Kilicdaroglu mentre quelle popolari si sono espresse per Erdogan. Come risolvere il problema della mancanza di valute pregiate per stabilizzare il corso della lira turca? Ad esempio gli Stati Uniti, oltre a fomentare colpi di stato colorati, cosa stanno facendo per aiutare finanziariamente Ankara? Semplice, fomentare colpi di stato colorati per spalancare le porte agli usurai occidentali. Cosa sta facendo la Russia, invece? “In Turchia, Rosatom sta costruendo la centrale nucleare di Akkuyu, nei pressi della città di Mersin, nel sud del Paese. L’accordo era stato firmato dai governi turco e russo nel 2010 e prevedeva che i russi si facessero carico dei lavori di costruzione e manutenzione. La centrale è stata inaugurata il 27 aprile di quest’anno (2023), alla presenza – in collegamento video – dei presidenti Erdogan e Putin… Si tratta di un progetto del valore di 20 miliardi di dollari, che Rosatom finanzia attraverso la società sussidiaria Akkuyu Nuclear JSC.” Ispi del 12 maggio 2023. Cosa fa l’Arabia Saudita, altro paese che si sta sempre più allontanando dall’orbita americana, per Ankara? “È stato trovato un accordo tra Ankara e Riad attraverso il quale l’Arabia Saudita depositerà 5 miliardi di dollari alla Banca centrale di Turchia. Lo ha fatto sapere l’agenzia governativa saudita ‘Saudi Fund for Development’, come riporta Anadolu. “Sostenere la crescita economica e sociale e anche lo sviluppo sostenibile della Turchia” sono tra gli obiettivi alla base dell’accordo, ha fatto sapere Riad, come riporta la Tv di Stato turca TRT”, Ansa del 6 marzo 2023. Gli aiuti e gli investimenti russi e sauditi sono stati importanti e determinanti ma non sono paragonabili a quelli cinesi come evidenziato da Formiche del 4 aprile ‘23: “La Cina è uno dei principali investitori asiatici in Turchia …. Dal 2015 Ankara ha aderito alla Belt and Road Initiative assumendo il ruolo di 23esimo maggior destinatario di investimenti cinesi tra gli Stati che vi hanno aderito. I numeri dello scorso anno lo dimostrano: la Cina aveva 1148 imprese registrate nel Paese con un investimento totale di poco più di 1 miliardo di dollari. È datato 2018 l’accordo siglato tra le Ferrovie dello Stato turche e il ministero dei Trasporti cinese per realizzare una ferrovia ad alta velocità tra i due lembi turchi da Edirne a Kars…. Ankara inoltre è parte attiva dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), ovvero la banca d’investimento internazionale guidata dalla Cina creata per sostenere finanziariamente i progetti Bri: ha preso più di tre miliardi e mezzo di dollari in prestito per i suoi 18 progetti, ponendosi così come secondo mutuatario dopo l’India… la Bank of China opera in Turchia dal 2017, incorniciandosi all’interno di una strategia altamente penetrante tramite la quale le banche cinesi hanno partecipato al finanziamento di progetti significativi della gestione Erdogan, come il ponte Çanakkale, la centrale termica di Hunutlu, il Salt Lake Natural Gas Storage Project. L’ICBC cinese, la più grande banca al mondo in termini di valore di mercato e attività totali, ha acquisito Tekstilbank ed è entrata nel mercato turco nel maggio 2015.Il termine infrastrutture, sull’asse sino-turco, non si limita alle ferrovie o ai porti, ma abbraccia il settore delle telecomunicazioni come il 5G. Nonostante le reiterate segnalazioni da parte degli Usa, la Turchia ha instaurato solide relazioni con Huawei: due accordi del 2017 e del 2019 daranno vita alla più grande rete centrale All-Cloud orientata al 5G in Turchia…. Da segnalare anche due iniziative: la mossa di Alibaba che ha inglobato il sito di shopping Trendyol per 728 milioni di dollari e la strategia dei vaccini durante il Covid, quando il governo turco ha deciso di acquistare il vaccino cinese come policies eurasiatica”. Di fronte al complesso ed ampio partneriato con grandi player cinesi, russi ed arabi realizzato in questi anni da Erdogan, la strategia alternativa di mettersi nelle mani del Fondo Monetario Internazionale prima, e magari della Troika poi, non ha evidentemente affascinato parte consistente della classe dirigente turca, che dovrebbe pendere naturalmente dalla parte degli occidentali. Ruolo internazionale ed economia sono stati le decisive ragioni di vittoria per Erdogan, ma non spiegano ancora del tutto i motivi del successo.

 

Le ragioni della vittoria di Erdogan: le strategie contrastanti sullo scenario europeo

Tornando alla diretta di Radio Radicale del 28 maggio, ed ai continui riferimenti a violenze e brogli elettorali mi sarei aspettato, il giorno successivo, il rifiuto del candidato perdente di riconoscere la vittoria di Erdogan e la conseguente canea scatenata dai mass media occidentali che accusavano Erdogan di aver compiuto un colpo di stato. I relativamente pochi voti a favore del Sultano sarebbero stati contestati dagli osservatori OCSE presenti, i quali avrebbero dichiarato di aver assistito ad ogni genere di nefandezza sia prima, che durante, che dopo le operazioni di voto; ad esempio, si sarebbero accusati i presidenti di seggio pro Erdogan di aver truccato i dati trasmessi agli uffici elettorali, e via di questo passo. Per la Turchia sarebbe quindi iniziata la nota via crucis fatta di sanzioni politiche, commerciali ed economiche già viste per la Siria. Nulla di tutto ciò è successo. Come mai? Scartando decisamente l’ipotesi che gli Stati Uniti sono un paese democratico e moralmente integerrimo, i quali riconoscono e rispettano la volontà popolare degli altri paesi quand’è a loro sgradita, sorge il dubbio che Washington abbia un particolare bisogno di Erdogan per cercare di risolvere il problema del loro ruolo effettivo nella NATO nel caso di un possibile allargamento del conflitto ucraino a tutta l’Europa orientale. Questo problema nasce dall’azione contrastante degli inglesi che si è intensificata dopo l’incoronazione di Carlo III. Andiamo con ordine. La strategia americana sul fronte europeo segue il solco tracciato nel 2022: aver organizzato la guerra per procura in Ucraina; aver imposto pesanti sanzioni alla Russia; aver costretto gli europei a fare lo stesso; aver fortemente ridimensionato i rapporti commerciali tra UE e Russia soprattutto in materia di energia; aver costretto l’Europa ad acquistare gas e materie prime nei mercati dove il dollaro detta legge, quindi a prezzi notevolmente maggiori; aver esportato parte consistente dell’inflazione del dollaro su sterlina ed euro, scopo della strategia. Facciamo una veloce ricognizione sui tassi inflattivi di Aprile 2023: Stati Uniti 4,9%; Regno Unito 8,7%; Unione Europea 7 % (7,2% in Germania). I tassi sono effettivamente scesi in quanto si è entrati nei mesi caldi dell’anno, tuttavia il divario tra le due sponde dell’Atlantico rimane significativo. La strategia degli inglesi, invece, prende le mosse da un dato di fatto: il macello degli ucraini e la distruzione del loro paese voluto ed organizzato dagli occidentali deve far fronte ai problemi dei costi crescenti da un lato e della diminuzione della “manodopera” ucraina dall’altro; ad esempio è da mesi che si attende una poderosa, decisiva e fantomatica offensiva ucraina che non arriva mai. Occorre quindi allargare il fronte di guerra coinvolgendo altri paesi confinanti la Russia come Polonia, paesi baltici e Finlandia, già pronti all’azione. Gli americani, però, non si fidano dei loro antichi padroni coloniali, temendo che Londra voglia fregare sia Mosca che Washington con una sola mossa, ed hanno probabilmente ragione. Come abbiamo visto, gli Stati Uniti vogliono finanziare la guerra in Ucraina, vogliono costringere gli europei a farlo, il loro obiettivo strategico è di esportare gran parte della loro inflazione in Europa, ma di entrare nel tritacarne ucraino non ci pensano lontanamente. Gli inglesi premono invece per un allargamento del conflitto, proprio per causare il coinvolgimento diretto degli americani, determinando il tracollo del dollaro. Se gli USA guidassero la NATO all’assalto delle pianure russe, Mosca non avrebbe bisogno di minacciare l’uso dell’arma atomica, sarebbe sufficiente che i BRICS, i paesi del golfo persico e di conseguenza gran parte del mondo non occidentale cessassero immediatamente di usare il biglietto verde per le loro transazioni internazionali. Per gli USA significherebbe inflazione a due, anche tre cifre, e la loro implosione finanziaria, economica e sociale. Se lo sappiamo noi, che conduciamo le nostre analisi con informazioni di piccolo cabotaggio, figuriamoci a Washington ed a Wall Street che dispongono di una dovizia di dati e d’informazioni. Per questa ragione gli americani valuterebbero positivamente l’allargamento del conflitto in Europa solo nel caso di un loro coinvolgimento estremamente ridotto, come accaduto per gran parte della seconda guerra mondiale sul fronte continentale europeo. Questo è il braccio di ferro in atto tra le due sponde dell’Atlantico. La chiave di volta dello scontro è l’interpretazione dell’articolo 5 del trattato dell’alleanza atlantica che è meno perentorio e vincolante di quello che si pensi. L’articolo infatti recita: “Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti…” Ma se ad attaccare per primi sono i polacchi oppure i finlandesi magari in Ucraina, come va interpretato questo articolo? Prosegue il testo: “…e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale.” In quest’articolo non sono previsti passi obbligatori, ma vi sono valutazioni politiche che ogni singolo componente della NATO svolge inizialmente in autonomia e solo successivamente in concerto con gli alleati; per intenderci non siamo di fronte agli accordi quasi automatici che hanno scatenato la Grande Guerra. L’articolo 5 prosegue: “Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali”. L’esplicito riferimento al consiglio di sicurezza dell’ONU permette agli americani di mantenere un rapporto diretto con la Russia e con la Cina, potendo quindi trattare costantemente il mutamento delle regole d’ingaggio del conflitto a secondo della necessità. Qual è il ruolo di Erdogan in questo particolare scenario? Lo stesso che ha svolto quando si è discusso di far entrare Svezia e Finlandia nella NATO: “Erdogan ostacolo all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato”, titolava la Repubblica del 13 maggio del 2022. Sappiamo che la Turchia ha successivamente rimosso il veto ai due paesi che oggi fanno parte dell’Alleanza, ma il ruolo di “oppositore interno” di Erdogan nella NATO è ormai consolidato agli occhi di tutti gli altri membri. Enunciate le due strategie anglosassoni, poniamo ora il caso che la Polonia, magari sobillata dagli inglesi, decida di rompere gli indugi e di schierarsi apertamente con l’Ucraina nel conflitto contro i russi; questa ipotesi non è affatto fantapolitica in quanto è da svariato tempo che Varsavia sta perseguendo una politica di forte riarmo, come scrive Il Mattino del 12 marzo scorso “La Polonia sta costruendo l’esercito più grande d’Europa per contrastare la Russia. Varsavia ha iniziato una gigantesca corsa al riarmo. Il 17 marzo 2022, il parlamento ha votato all’unanimità la “Legge sulla difesa della patria”: stanziati 115 miliardi di euro per raddoppiare gli effettivi delle forze armate e le spese militari entro il 2035”. È probabile che il Presidente Andrzej Duda invochi l’applicazione dell’articolo 5 del trattato NATO che, abbiamo visto, funge come una sorta di “chiamata alle armi volontaria”. Si aprirebbe quindi un acceso dibattito nel consiglio dell’Alleanza atlantica e si guarderebbe agli Stati Uniti per ricevere la direttiva definitiva. È assai probabile che il presidente turco, comandante supremo di uno degli eserciti più importanti della NATO, si chiami fuori adducendo problemi alla corretta applicazione dell’articolo 5, ad esempio contestando il fatto che i russi non abbiano attaccato il territorio polacco. Gli Stati Uniti potrebbero usare Erdogan come paravento, tuonando contro Mosca a parole, ma sentenziando l’impossibilità della NATO d’intervenire nel suo complesso a causa dell’opposizione di Ankara. Washington ricorderebbe però che l’articolo 5 concede la facoltà ai singoli membri europei di andare in aiuto dei polacchi e di conseguenza degli ucraini. A questo punto il cerino passerebbe nelle mani di francesi e tedeschi, ed in una certa misura anche di italiani e spagnoli, i quali diventerebbero attori protagonisti del classico film, con il grande Lino Banfi, del 1982: “Vai avanti tu che mi vien da ridere”. In questo modo la NATO, come la conosciamo oggi si dissolverebbe di fatto, lasciando finalmente liberi gli americani di abbaiare forte e di non mordere per niente, ed agli inglesi di manovrare i paesi dell’Europa orientale, e probabilmente anche Italia e Germania, come pedine di una partita a scacchi. Con estrema fatica e non senza rischi, i due paesi anglosassoni avrebbero ricostruito uno scenario bellico simile a quello dell’inizio dell’Operazione Barbarossa la quale, è utile ricordarlo, oltre alla Germania vedeva coinvolti sotto forma di eserciti regolari: Italia, Romania, Finlandia, Ungheria e Slovacchia; sotto forma di milizie volontarie inquadrate nelle Waffen SS: olandesi (ben 50.000 volontari), ucraini (30.000 volontari), francesi, danesi, norvegesi eccetera.

 

Conclusioni

Abbiamo visto che la vittoria di Erdogan alle presidenziali turche non è stata affatto scontata e banale; il Sultano ha dovuto resistere alla spallata tentata dagli occidentali, ma ha ricevuto il sostegno di tre paesi importanti come Russia, Cina ed Arabia Saudita. Abbiamo anche smentito la propaganda di un paese sottoposto ad una quasi dittatura, dove il diritto di voto è stato pesantemente condizionato dal potere erdoganiano. È vero esattamente il contrario: l’elettorato turco si è trovato di fronte a due visioni politiche diverse ed opposte che prospettavano altrettanti diversi futuri. Da un lato gli è stato proposto di unirsi al decadente occidente, composto da paesi in crisi economica, indebitati e che avrebbero cercato di saccheggiare la Turchia blaterando di diritti civili; dall’altro ha potuto intravedere un futuro fatto d’investimenti, di crescita e di speranza accanto al duo Cina-Russia al quale tutto il mondo non occidentale sta guardando con sempre maggiore interesse: “I BRICS attirano offerte di adesione da 19 nazioni prima del vertice” titola Bloomberg del 24 aprile scorso. Abbiamo chiamato Erdogan sultano ma non è esatto; si tratta di un autentico democristiano in salsa islamica, di un politico che fonda i suoi principi nel Corano, ma senza esagerare, e sull’attento studio dei rapporti di forza internazionali, sulla real politic sia negli affari interni che esteri non senza guizzi di fantasia, esattamente come facevano i cavalli di razza della DC. E come un Andreotti, un Fanfani ed un Moro, non è affatto un uomo simpatico, non cerca il consenso mediatico, non è un radical-chic dallo sguardo vitreo di Mario Draghi oppure un brillante alla Barak Obama, ma ha dimostrato di saper fare politica al massimo livello. Per valutare quale sia il domani delle Turchia, se il Presidente turco ci abbia visto giusto, guidando un paese difficile, afflitto da numerose problematiche ed indubbi difetti, è sufficiente paragonarlo al misero presente dell’Italia, ed il suo futuro privo di speranza.

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