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sinistra

Frontiere e diritti

Tra etica, diritto internazionale e politica del potere

di Luca Benedini

Alla luce del recente riesplodere di situazioni cruente e altamente drammatiche nel Nagorno-Karabakh, così come dell’indefinita e tragica prosecuzione della guerra russo-ucraina, appare opportuno ripresentare qui gran parte di due articoli scritti lo scorso anno (rispettivamente nell’aprile e nel maggio) sul tema politico estremamente controverso rappresentato dal rapporto tra popoli e frontiere

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Un delicato nodo profondamente dialettico

Impegnarsi specificamente nella ricerca della pace nel momento presente, in una tremenda situazione come quella ucraina, non significa dimenticare le contraddizioni storiche che in quella parte del mondo possono aver stimolato delle tensioni culturali, etniche, ecc. dalle quali sono poi emerse le minacce per la pace sfociate infine nella guerra attuale.

Basti ricordare per esempio che nei trattati internazionali è ampiamente riconosciuto un generico (ma non per questo privo di significato) diritto dei popoli all’autodeterminazione: è addirittura l’argomento dell’art. 1 sia del Patto internazionale sui diritti civili e politici che del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, entrati in vigore entrambi nel 1976 e ratificati ormai da quasi tutte le nazioni del mondo (che in tal modo hanno fatto entrare nella loro legislazione quanto stabilito in tali Patti), dopo essere stati approvati nel 1966 dall’Assemblea Generale dell’Onu. Questo diritto consente di guardare, con uno sguardo particolarmente consapevole, a una serie di questioni inerenti proprio alle frontiere tra gli Stati.

Ci sono confini di Stato che sono stati tracciati d’autorità da qualcuno senza avere alcun riguardo per la situazione etnica e culturale dei popoli coinvolti. Il caso più drammatico è forse quello del territorio curdo, diviso tra quattro nazioni diverse (Turchia, Iraq, Iran e Siria) dopo la caduta dell’impero ottomano: una divisione – decisa in pratica dai governi britannico, francese e turco nel 1923 – che continua da un secolo a provocare tensioni e conflitti, senza che nessuna autorità politica o giurisprudenziale abbia mai riconosciuto ai curdi un qualsiasi diritto all’autodeterminazione.

Anche in Africa i confini che i colonizzatori europei hanno tracciato costringendo nel medesimo paese popolazioni scarsamente affini, oppure dividendo tra paesi diversi popolazioni fortemente affini o addirittura “sorelle”, hanno generato gravi problematiche identitarie e di convivenza in varie parti del continente [1].

Ma problematiche simili – anche se tendenzialmente meno gravi – si possono trovare in numerose parti del mondo, e ciò anche perché non poche frontiere sono il risultato finale non di assetti geografici naturali o di aggregazioni volontarie di popoli, ma di guerre d’aggressione (a volte sfociate in stabili invasioni armate) avvenute in passato.

Il caso dell’ex Urss e dell’ex Jugoslavia è ancora differente, anche se simile come effetti. Entrambi questi paesi prima del 1990 erano praticamente degli Stati federali suddivisi in una serie di repubbliche, aventi una certa autonomia l’una rispetto all’altra ma facenti parte di un’unica nazione molto unita e salda. I confini tra una repubblica e l’altra erano poco importanti per la vita delle varie popolazioni ed erano stati sovente tracciati più sulla base di motivi politici di interesse soprattutto governativo che in sintonia con le culture, le tradizioni e le etnie. In tal modo, sia in Urss sia in Jugoslavia vi erano consistenti aree di qualche repubblica che erano abitate in grande maggioranza da persone di lingua e tradizioni storicamente “esterne” a quella repubblica, ma in quel contesto ciò non costituiva un vero problema per nessuno.

Quando i due paesi sono crollati e al loro interno sono nate fortissime spinte indipendentiste da parte soprattutto delle élite locali, gli egoismi e la frettolosa superficialità che governavano queste spinte hanno portato a una rapida e insipiente trasformazione dei confini regionali preesistenti in nuovi confini nazionali, senza tener conto di nulla e di nessuno.

Purtroppo, la comunità internazionale stessa ha contribuito direttamente a ciò nell’ex Jugoslavia, istituendo nel 1991 una “commissione di arbitrato” che nell’arco di due anni presentò diverse valutazioni, tra le quali appunto – nel gennaio 1992 – il fatto che i confini delle repubbliche jugoslave avrebbero dovuto diventare rigidamente le nuove frontiere nazionali, a meno che entrambi i governi i cui territori fossero implicati in un possibile mutamento non si dichiarassero ufficialmente d’accordo su di esso (ma si trattava di una ipotesi sostanzialmente impossibile, dato l’esplosivo nazionalismo di tutto il mondo politico jugoslavo di allora...). Si sarebbe invece dovuto cercare dei modi per tener conto non tanto dei governi quanto delle popolazioni, mediante la possibilità di istituire – in situazioni pacifiche protette da forze esterne (come l’Onu o l’Osce) – qualche referendum dotato di effettivi poteri decisionali.

La decisione di quella commissione giuridica mirava a smontare le spinte belliche, ma finì invece con l’ottenere tragicamente l’effetto opposto, mostrando che l’approccio della commissione fu pesantemente intellettualistico e lontano dalla realtà, in particolar modo nel suo essere ingiustificatamente incentrato in modo elitario sul ceto politico (che oltre tutto era proprio quello che in quella situazione più spingeva sotterraneamente per la divisione e per lo scontro, come hanno messo poi in chiara evidenza autori come Cristopher Cviic, Rada Ivekovic e Paolo Rumiz...) [2].

In parallelo con quest’atteggiamento, persino la scissione della Cecoslovacchia in due nazioni fu decisa a fine 1992 dal ceto politico del paese senza che si facesse ricorso ad alcuna consultazione popolare (e ciò benché un ampio sondaggio d’opinione avesse nel frattempo suggerito che meno del 40% degli abitanti desiderasse tale scissione, tanto nel territorio ceco quanto in quello slovacco...).

Dopo il 1990, così, nell’ex Urss è accaduto per esempio che i ceceni si siano ritrovati sul margine interno di una Russia con la stragrande maggioranza della quale avevano culturalmente ben poco in comune (e sia il petrolio del sottosuolo locale sia i profitti collegabili agli oleodotti e gasdotti transitanti nel territorio ceceno facevano estremamente gola tanto alle élite locali quanto ai politici moscoviti...), mentre la maggioranza degli abitanti della Crimea e di certe aree del Donbass si sentiva tradizionalmente più russa che ucraina.

Oltre tutto, all’interno dell’Urss la Crimea era stata parte della Russia sin dal 1921 ed era stata trasferita all’Ucraina solo nel 1954 su iniziativa di Krusciov (che dopo la morte di Stalin era divenuto da poco tempo “primo segretario” nel partito, una carica di vertice ancora provvisoria e instabile), in base a sue motivazioni non esplicitate pubblicamente all’epoca [3]. Si ritiene che Krusciov volesse consolidare il sostegno che gli stavano fornendo i maggiori politici ucraini e nel contempo rafforzare i legami tra Kiev e Mosca dal momento che la Crimea era la sede principale della flotta dell’Urss.

Ora, una delle più belle conquiste della cultura moderna è stata lo “Stato di diritto”, nel quale tutti hanno sostanzialmente una grande libertà, le minoranze linguistiche, etniche e/o religiose sono saldamente tutelate e protette, e così via. In questo senso, nessuno dovrebbe sentirsi gravemente “fuori posto” anche se si trovasse a vivere in un luogo con tradizioni diffuse notevolmente diverse dalle proprie. È così, per esempio, che in Svizzera ci sono Cantoni principalmente tedeschi per lingua e tradizione, altri francesi, altri ancora italiani o ladini, e stanno bene insieme. In Italia ci sono diverse Regioni e Province autonome le cui popolazioni hanno in maggioranza radici ben poco italiane, ma stanno bene in questo paese. In Canada convivono tra loro ormai pacificamente e proficuamente anglofoni e francofoni. E via di seguito.

Perché dunque questa “ossessione” secondo cui – sin dal 2014 – per le popolazioni russofone dell’Ucraina doveva essere vitale distaccarsi urgentemente dal resto del paese, a costo persino di una guerra, come se l’Ucraina fosse una sorta di inferno? Tra l’altro, a vedere come nella Russia dell’“era Putin” il potere ha trattato i ceceni e ancora oggi tratta i diritti civili di chi fa parte delle “opposizioni politiche”, appare evidente che nel complesso le pubbliche istituzioni ucraine si sono mostrate decisamente più civili e democratiche di quelle russe.... Chi ha avuto interesse ad attizzare tra i russofoni del Donbass il senso identitario etnico e lo spirito indipendentista così da evitare che si accontentassero di rivendicare – per lo meno per il momento – una forte autonomia regionale come quella che funziona benissimo in Svizzera, Italia, Canada, ecc.? Oltre tutto, se il Cremlino avesse voluto premere con forza su Kiev perché si attuasse nel Donbass una tale autonomia avrebbe potuto farlo senza alcuna difficoltà, data la grande importazione ucraina di materie prime russe, come il gas combustibile....

Si rivedono, in questo, i temi forzati e artificiosi su cui si è retta negli scorsi anni ’90 la guerra interna all’ex Jugoslavia: l’identità etnico-religiosa come qualcosa di assoluto e fondativo (vedendo le altre etnie e le altre religioni come nemiche); il “proprio” territorio come qualcosa che doveva essere liberato sanguinosamente da ogni traccia di altre etnie e religioni; e così via.... Le vicende storiche hanno mostrato che questa tematica identitaria non soltanto risultava vuota di senso quando sottoposta a una rigorosa analisi storico-culturale, ma in realtà non era nemmeno condivisa da coloro che la propagandavano come una sorta di nuova verità messianica... Tutto quello che c’era davvero dietro a quella guerra erano interessi di parte, di élite politico-militari miranti ad accaparrarsi ricchezze e potere quanto più possibile in quel periodo di grandi trasformazioni istituzionali: élite divenute “signori della guerra”, essendosi rese conto che la guerra era il metodo più efficace per quell’accaparramento.... In altre parole, la “fola” dell’identità etnico-religiosa era solo un’invenzione per procurarsi soldataglie che – convinte ad arte dell’estrema importanza di tale identità e delle “pulizie etniche” – seguissero e aiutassero i “signori della guerra” in quella loro personale caccia [4].

Anche in Cecenia le parti belligeranti – l’esercito russo e varie milizie indipendentiste cecene, impegnati in un conflitto prolungatosi in pratica dal 1994 al 2009, con modalità spesso estremamente brutali – hanno cercato di accreditare la tesi di una “guerra civile” su basi etniche, ma sempre di elitari interessi economici e di potere appare essersi trattato con ogni evidenza, in realtà.

In modo simile a Milosevic e agli altri “signori della guerra” dell’ex Jugoslavia, anche Putin sta ingannando clamorosamente il suo popolo e mentendogli spudoratamente, come del resto ha già fatto a proposito della Cecenia. Lui e il suo entourage non stanno operando per il popolo russo (i cui figli vengono mandati a morire, a uccidere, a torturare, e persino a farsi contaminare gravemente dalle radiazioni a Chernobyl, in questa atroce guerra ucraina), ma per i propri interessi personali di politici, di “oligarchi”, di alti funzionari militari e di grandi commercianti.

Anche se sarà una dinamica faticosa, un giorno o l’altro tantissimi russi si accorgeranno di essere stati ingannati e sacrificati sull’altare di quegli interessi, proprio come è successo appunto nell’ex Jugoslavia....

La comunità internazionale avrà bisogno di grande flessibilità e di profonda sensibilità per affrontare in maniera umanamente davvero efficace il tema delle frontiere e del diritto all’autodeterminazione riconosciuto ai popoli, tenendo anche conto sia delle grandi possibilità che lo “Stato di diritto” può offrire alla gente sia dell’eventuale Costituzione democratica presente in una determinata nazione. Bisognerà essere capaci di ammettere che in passato sono stati fatti degli errori con quelle che oggi sono le frontiere di alcuni Stati. Nel contempo, bisognerà non cedere né agli egoismi dei politici locali che vorrebbero a tutti i costi estendere il loro controllo sulle risorse del luogo, né alle ossessioni identitarie che minano la convivenza tra gli esseri umani e che vedono nemici in chiunque abbia una cultura un po’ diversa.

Sarà una delle nostre prove di maturità come specie vivente, assieme a prove ancor più impellenti come la tutela dell’ambiente e del clima planetari e la sfida del riconoscere i diritti umani attribuiti a tutti dalla Dichiarazione universale del 1948 (e purtroppo calpestati clamorosamente non solo dall’autoritarismo dei regimi antidemocratici, ma anche dal neoliberismo e dal neocolonialismo che da tempo continuano a imperversare nel globo).

 

II

Il caso paradigmatico del Nagorno-Karabakh

A ulteriore illustrazione della questione, un’altra complicata situazione che andrebbe ripresa in esame con particolare attenzione dalla comunità internazionale è quella del Nagorno-Karabakh. Si tratta di una regione che per quasi tutta la storia dell’Urss, pur essendo abitata in grande maggioranza da popolazioni di lingua e cultura armena che rivendicavano di poter esser parte della repubblica dell’Armenia, ha fatto parte della repubblica dell’Azerbaigian come “regione autonoma”.

La scelta ufficiale dell’Urss di inserire nell’Azerbaigian questa regione, che persino la dirigenza azera aveva riconosciuto come armena, rimane una sorta di mistero, collegato come tanti altri alla tendenza accentratrice e autoritaria di Stalin e della sua corrente politica. Allora – nel 1921 – Stalin in Urss era il “commissario per le nazionalità”, oltre ad avere in mano il segretariato generale del partito, ed era lui a sovrintendere alla commissione incaricata di dare un’intelaiatura amministrativa a tutto il territorio caucasico dell’Urss. Si valuta che la corrente staliniana intendesse soprattutto rafforzare il potere del centro moscovita, ricorrendo in ciò a varie strategie tra le quali il mettere in tensione – l’una contro l’altra – le aree periferiche del paese indebolendo così la loro capacità di incidere nel contesto politico [5].

Nel contempo, è evidente l’estremo favoritismo che venne rivolto in quell’occasione al punto di vista dell’etnia azera.

C’erano due regioni “in ballo” allora tra la repubblica armena e quella azera: oltre al Nagorno-Karabakh c’era il Nakhichevan (abitato in maggioranza da azeri ma con un’ampia presenza anche di armeni), ed entrambe queste regioni erano potenzialmente delle enclave all’interno dell’altra repubblica. Più precisamente, il Nakhichevan lo era in modo indiscutibile (essendo una striscia di territorio lontana decine di chilometri dal “corpo principale” dell’Azerbaigian e situata sul confine armeno dell’Urss con l’estremità nordoccidentale dell’Iran), mentre il Nagorno-Karabakh poteva esserlo, a seconda di come si definisse il suo territorio (le commissioni istituite dall’Urss ci misero più di due anni per farlo, e alla fine – nel 1923 – scelsero di porre limiti particolarmente ristretti al territorio della regione così da renderla appunto un’enclave).

Ora, all’Azerbaigian vennero assegnati tanto il Nakhichevan (che dal punto di vista geografico ed economico poteva essere considerato armeno ma dal punto di vista demografico e culturale era prevalentemente azero) quanto il Nagorno-Karabakh (che geograficamente ed economicamente era più associabile alla repubblica azera ma demograficamente e culturalmente era indiscutibilmente armeno). Per assegnare la prima di queste due regioni si utilizzò come metro la demografia (all’inizio del 1921 si tenne anche un referendum locale a questo proposito, con tutti i crismi dell’ufficialità), mentre per la seconda invece la geografia (senza alcun referendum...): in breve, ogni volta si fece ricorso al metro che era radicalmente contrario al punto di vista dell’etnia armena.

Riguardo ai motivi di questa sfacciata parzialità, da un lato è evidente che a Mosca si cercasse di mantenere dei rapporti particolarmente buoni con la confinante e bellicosa Turchia. Questa aveva degli stretti legami culturali e religiosi con l’Azerbaigian (tutt’e due abitati in grande maggioranza da musulmani) e aveva invece combattuto pesantemente negli anni precedenti contro gli armeni (comunemente cristiani ortodossi) per il controllo di un ampio territorio, ricorrendo in ciò anche a delle vere e proprie forme di “pulizia etnica” e di sterminio attuate nei confronti di civili inermi e indifesi. Nel marzo 1921 i governi dell’Urss e della Turchia firmarono anche un trattato, in cui tra l’altro si stabiliva di ampliare verso nord il Nakhichevan in modo tale che l’Azerbaigian potesse avere una decina di chilometri di frontiera in comune con la Turchia stessa, a grande facilitazione delle loro interrelazioni sociali e commerciali. Da un altro lato, appare presumibile che Stalin e altri influenti politici dell’Urss covassero un particolare rancore contro gli armeni, le cui milizie nazionaliste furono di gran lunga le ultime ad arrendersi all’Armata Rossa durante la guerra civile degli anni 1918-21.

Con l’aprirsi della perestrojka e della glasnost nell’Urss gorbacioviana, nella seconda metà degli anni ’80 poté ritrovare espressione pubblica l’ampio movimento che nel Nagorno-Karabakh chiedeva la riunificazione con l’Armenia. Nel 1988, però, il governo dell’Urss finì col rifiutare di modificare la scelta del 1921 per timore di “dare la stura” a numerose altre simili richieste da un capo all’altro del paese... Tuttavia, rendendosi evidentemente conto che questa decisione non era affatto congrua con i valori della perestrojka e della glasnost [6], nell’aprile 1990 i vertici dell’Urss approvarono a parziale compensazione una legge secondo cui, qualora una repubblica dell’Urss decidesse di abbandonare l’Unione e diventare indipendente, un’eventuale regione autonoma interna a tale repubblica avrebbe potuto distaccarsi da quest’ultima – rimanendo nell’Urss come nuova repubblica – attraverso una libera manifestazione di volontà popolare.

Quando la dirigenza azera nell’agosto 1991 decise di abbandonare l’Urss, il Nagorno-Karabakh ricorse a questa legge, utilizzandola in modo del tutto corretto ed eseguendo in tal senso anche un referendum. Così, il Nagorno-Karabakh si distaccò dall’Azerbaigian e si costituì come una delle repubbliche dell’Urss (verosimilmente con la prospettiva di una futura riunificazione con l’Armenia). Il governo azero rifiutò questo distacco – nonostante la piena legalità di quest’ultimo – e scatenò una vera e propria guerra che durò più di due anni e che vide l’Armenia schierata a fianco della neonata repubblica (la quale nel frattempo aveva preso il nome di Artsakh e, a seguito dello scioglimento formale dell’Urss nel dicembre 1991, si era ovviamente dichiarata indipendente), mentre all’esercito azero si unirono gruppi armati soprattutto afghani, ceceni e turchi.

La guerra – che ebbe episodi brutali da ambo le parti – si concluse nel 1994 con la sconfitta degli aggressori azeri e con l’occupazione armena di un’ulteriore considerevole fascia di territorio azero.

Tuttavia, anche a causa di quest’occupazione (cui, a quanto pare, fu soprattutto la dirigenza politica dell’Artsakh a rifiutarsi sistematicamente di rinunciare durante diversi negoziati internazionali nel corso dei decenni, sostanzialmente come reazione al sistematico rifiuto azero di riconoscere l’indipendenza dell’Artsakh), l’esercito azero proseguì con la logica degli scontri armati, tra schermaglie, azioni di guerriglia e d’improvviso – nel 2016 e nel 2020 – due altri violenti attacchi su larga scala, che fecero seguito a una spiccata politica di riarmo azera consentita dalle elevate entrate nazionali legate allo sfruttamento dei giacimenti locali di petrolio e di gas naturale. Di questi attacchi, il primo si concluse di nuovo senza successo, mentre il secondo permise all’Azerbaigian il recupero di quella fascia di territorio e pure la riconquista di una consistente porzione del Nagorno-Karabakh.

La comunità internazionale ha infelicemente continuato anche in questo caso – come per esempio nell’ex Jugoslavia – ad anteporre a ogni altra cosa i confini precostituiti interni all’Urss e i pronunciamenti del ceto politico “ufficiale”: in altre parole, a dare praticamente sostegno al punto di vista del governo azero. Ciò a dispetto del fatto che fu inequivocabilmente quest’ultimo ad attuare la “rottura della pace” espressasi nella guerra iniziata nel 1992 e dell’ulteriore fatto che per tale governo tutta la vicenda era soltanto una mera “questione di potere”: la motivazione del conflitto da esso fornita non era altro, infatti, che il lamentare la perdita di una parte del “proprio” territorio, senza tenere in alcuna considerazione né il contesto umano né – cosa che per certi versi dovrebbe essere ancora più grave dallo specifico punto di vista del diritto internazionale – quello giuridico.

La rigidità con cui la politica internazionale ha preso questa posizione è tale che ne sono stati coinvolti tutti i governi delle nazioni ufficialmente riconosciute e facenti parte dell’Onu [7]. Vi sono state sia pubbliche istituzioni regionali o locali sia singole forze politiche che, in varie nazioni, hanno invitato il proprio governo a riconoscere l’Artsakh, ma finora nessun governo ha accolto queste richieste, formulate solitamente da aree politiche progressiste o autonomiste [8].

In pratica, quello che succede è che con la scusa che il diritto all’autodeterminazione dei popoli è scomodo per i poteri concreti dei vertici politici di un paese, di fatto i governi stanno disconoscendo e negando completamente quel diritto sin da quando nel 1976 sono entrati in vigore i trattati – già ricordati nel precedente articolo – che lo sanciscono esplicitamente [9].

In questo, il potere politico all’interno di ogni paese sembra provare una primaria affinità di fondo non con i cittadini (che oltre tutto costituiscono il fondamento stesso di tale potere, attraverso la sovranità popolare che quasi tutte le nazioni considerano ufficialmente alla base delle loro istituzioni) e con i popoli da essi costituiti, ma con i rappresentanti del potere politico esistente nelle altre nazioni, comunque siano i modi e le procedure istituzionali di quest’ultimo.... A quanto pare, tra i potenti della politica permane la tendenza a riconoscersi l’un l’altro come appartenenti allo stesso “gruppo sociale” e sotto sotto a sostenersi a vicenda, come in una sorta di casta.

In modo alquanto simile, con la scusa che per le élite economiche risulta scomodo il diritto al lavoro, a una retribuzione dignitosa e a sane e sicure condizioni lavorative sancito non solo dalla Dichiarazione universale del 1948, ma anche dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali entrato in vigore appunto nel 1976, i tantissimi governi che si ispirano al neoliberismo disconoscono e negano totalmente tale diritto....

Si ripropone dunque la questione delle valutazioni espresse nella prima metà degli scorsi anni ’90 dalla “commissione giuridica di arbitrato” per l’ex Jugoslavia: quelle valutazioni, essendo in sintonia col mondo della politica internazionale, continuano a essere citate da quest’ultimo come autorevoli e sostanzialmente dirimenti, mentre le tragiche e sanguinose “pulizie etniche” vissute poi in quel territorio hanno innescato da tempo nel mondo giuridico una serie di fondatissime e radicali critiche a tali valutazioni [10]...

È una situazione che conferma anche da questo punto di vista l’estrema impasse in cui si è trovato negli ultimi decenni il diritto internazionale in tutto il pianeta.


Note
[1] Ciò ha tipicamente un pesante impatto anche sulla qualità della vita democratica, specialmente quando si tratta appunto di paesi che non hanno raggiunto un livello economico “sviluppato”. Cfr. a questo proposito la nota 45 della seconda parte di Il neoliberismo non è una teoria economica, pubblicata nel maggio 2020 al seguente indirizzo:
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/17845-luca-benedini-il-neoliberismo-non-e-una-teoria-economica-2.html”.
[2] Di C. Cviic cfr. Rifare i Balcani (Il Mulino, 1993), di R. Ivekovic La balcanizzazione della ragione (Manifestolibri, 1995) e di P. Rumiz Maschere per un massacro (Editori Riuniti, 1996). Per una attenta, acuta e feconda critica giuridica di quell’approccio, si veda in special modo Post-Secession International Borders: A Critical Analysis of the Opinions of the Badinter Arbitration Commission, di Peter Radan (Melbourne University Law Review, vol. 24 [2000], n. 1, pagg. 50-76).
[3] Le succinte motivazioni ufficiali associate a quel trasferimento erano palesemente formalistiche e inconsistenti.
[4] Cfr. i libri della nota 2, soprattutto lo straordinario testo di Rumiz.
[5] Sulla corrente di Stalin e sull’aspro scontro che Lenin ebbe con essa tra il 1922 e il ’23 nonostante la grave malattia che l’aveva colpito, cfr. p.es. L’ultima battaglia di Lenin, di Moshe Lewin (Laterza, 1969), e Le lotte di classe in Urss 1917/1923, di Charles Bettelheim (Etas, 1975). In quest’ultimo libro si veda in particolare la sezione di paragrafo intitolata “Il problema delle nazionalità”.
[6] I due termini significano rispettivamente “ristrutturazione” e “trasparenza”.
[7] L’unico governo che ha dato esplicito appoggio all’Artsakh è stato – ovviamente – quello armeno, ma anche quest’ultimo ha ritenuto sinora di non riconoscere ufficialmente l’Artsakh come Stato sovrano, al fine di facilitare le ardue negoziazioni internazionali sulla questione.
[8] Fra tali istituzioni vi sono stati gli organismi legislativi sia di una dozzina di Stati degli Usa, sia di altre regioni come p.es. il Nuovo Galles del Sud in Australia, i Paesi Baschi in Spagna e la Lombardia in Italia; fra le forze politiche i Verdi australiani e il partito comunista francese, oltre a correnti più limitate e/o a gruppi eterogenei in numerosi paesi.
[9] Nell’emisfero nord del pianeta, l’unica parziale eccezione a questo atteggiamento ha riguardato il Kosovo, ma è una vicenda che è stata talmente alterata e influenzata dai comportamenti del tutto illegittimi tenuti dalla Nato nel 1999 – prima nei colloqui di Rambouillet e poi nella guerra contro il regime serbo di Milosevic – che si tratta evidentemente di un caso a parte: un’eccezione determinata appunto da fattori pienamente estranei al diritto internazionale e persino al Kosovo stesso.... Cfr. Kosovo - L’Italia in guerra (quaderno speciale di Limes, 1999) e Onu, Onu! Che fare? (Rocca, 15 maggio 2003), articolo disponibile in rete al seguente indirizzo:
https://www.peacelink.it/pace/a/8891.html”.
[10] Cfr. p.es. l’ampio saggio del giurista australiano Peter Radan menzionato qui nella nota 2.

Le due parti del presente intervento rielaborano molto leggermente due articoli apparsi in Il Senso della Repubblica, rivista mensile online: Frontiere e diritti - Un delicato nodo dialettico (maggio 2022) e Frontiere e diritti - Il caso paradigmatico del Nagorno-Karabakh (giugno 2022). Per contatti con l’autore: “This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.”.

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