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Gaza. Disumanizzazione e ottimismo della disperazione

di Ruba Salih

Cara de Luna Jack London 9x7.jpgSolitamente odiamo i silenzi ingombranti, quelli dei momenti dove una conversazione incespica e uno iato riempie goffamente lo spazio. Naturalmente facciamo ciò che possiamo per evitarli. Tuttavia, questo non è il caso di Gaza. Qui amiamo il silenzio, perché significa una pausa dalla morte e distruzione. Finché non è brutalmente rotto di nuovo dal rumore dei missili, che fanno traballare le nostre case e danzare i nostri cuori di paura… La scorsa notte siamo rimasti tutti nelle nostre stanze, ma mentre i bombardamenti divenivano sempre più fuori controllo e frequenti, abbiamo deciso di stare tutti insieme in una stanza nel mezzo della casa. Quella notte nessuno ha dormito fino all’alba. Alcune notti passano e finalmente il bombardamento si ferma. Ma la distruzione ha lasciato un segno di morte nei cuori della mia famiglia. Una parte significativa della nostra storia è stata ora distrutta. So che molti altri residenti di Gaza hanno sofferto molto di più. Le bombe hanno distrutto molte vite, molti sono diventati orfani, intere famiglie sono state distrutte e alcuni sono ancora sepolti sotto le loro case, mentre altri sono stati bombardati mentre fuggivano, in strada. Alcuni sono rimasti amputati e menomati. Chi è sopravvissuto ha perso una parte della sua anima… 

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Le parole di Yusef Maher Dawas, tratte dal sito We are not numbers di cui è stato fondatore, raccontano del bombardamento israeliano a Gaza, a cui è sopravvissuto nel maggio 2022. Yusef è morto insieme a numerosi membri della sua famiglia quando la sua casa a Beit Lahia è stata bombardata il 14 ottobre 2023.

Ciò che sta succedendo in queste settimane va letto e sentito – perché va riconosciuto che le cornici emotive attraversano e determinano i fatti e la loro comprensione – nel quadro di una lunga, lunghissima, storia di violenza coloniale, di cui le ultime settimane rappresentano un epilogo drammatico: dopo l’attacco di Hamas nel sud di Israele del 7 ottobre, che si è concluso con la perdita di 1200 vite umane, l’esercito israeliano ha intrapreso un bombardamento a tappeto della striscia di Gaza.  In poco più di un mese sotto le bombe israeliane hanno perso la vita più di  11.000 persone tra cui 4.650 bambini e oltre 3.000 donne, 29.000 sono i feriti. Metà delle abitazioni di Gaza sono distrutte, più di un milione di persone sono state sfollate; università, sedi di organizzazioni della società civile, chiese e ospedali sono stati bombardati e presi d’assalto negli ultimi giorni. Un caso di “genocidio da manuale”, secondo Craig Mokhiber, che si è dimesso da capo della sede di New York dell’Alto Commissariato per i diritti umani dell’ONU in segno di protesta. 

Per Israele, e per la stragrande maggioranza dei media in particolare nei paesi europei e nordamericani, Gaza pare non avere una storia prima del 7 ottobre 2023, come se la chiusura ermetica e l’assedio cui è sottoposta da quasi due decenni  possano confinare la striscia in uno spazio-tempo di assenza, al di fuori della storia o – per usare un’altra metafora – come una prigione di cui si sono buttate via le chiavi augurandosi che i prigionieri scompaiano nell’oblio.  

Tuttavia, non si può capire il 7 ottobre e tutto ciò che ne è seguito, se non allargando lo sguardo attraverso il tempo e lo spazio. Si badi, non si tratta qui di scandagliare il passato e il presente al solo fine di attribuire responsabilità, nonostante quest’ultimo sia un passo fondamentale per dare senso e offrire qualche minima riparazione emotiva e giuridica alle vittime e ai sopravvissuti di entrambe le parti. Questo sarà il compito della Corte penale di giustizia e del diritto internazionale.  Per ora, collocare gli eventi in una cornice interpretativa storica è la precondizione per immaginare come uscire da questa spirale nella direzione di una giustizia risolutiva e riparativa per la popolazione palestinese sotto occupazione da 56 anni, condizione fondante e fondamentale per la sicurezza anche degli israeliani. Per quanto un “presentismo” e a-storicismo aggressivi tentino di pervadere le nostre cornici di senso nelle ultime settimane, niente può cancellare il fatto che Gaza è un territorio occupato, secondo quanto stabilisce il diritto internazionale, e che un brutale assedio segna il vissuto della popolazione da 16 anni. Dal 2008, inoltre, Gaza è già sopravvissuta a cinque bombardamenti: nel 2009, nel 2012, nel 2014, nel 2021 e nel 2022. La maggior parte degli abitanti ha meno di 18 anni e in pochi hanno visto il mondo oltre il muro di recinzione entro cui sono confinati.  Due terzi della stessa popolazione è composta da famiglie di rifugiati del 1948. I loro nonni vivevano in 247 villaggi del sud della Palestina, che rappresentavano circa il 50% della Palestina storica, e furono costretti a riparare in campi profughi a seguito della distruzione od occupazione dei loro villaggi con la nascita di Israele. Ora vivono in un’area che rappresenta l’1,3% del territorio con una densità di 7.000 persone per km quadrato e le loro terre originarie si trovano a pochi metri al di là dal muro di assedio, abitate da israeliani. 

A causa della chiusura ermetica della striscia da parte del governo israeliano, il 60% della popolazione è senza lavoro, l’80% riceve aiuti umanitari per sopravvivere e il 40% vive al di sotto della soglia di povertà. Nonostante Gaza sia ricca di risorse naturali e di gas,  il 90% dell’acqua non è potabile, e il gas è sottratto illegalmente da Israele.

La striscia di Gaza è stata dichiarata dalle Nazioni Unite come “luogo inadatto alla vita umana” e come “un inferno” per i bambini, già dal 2021. Non sorprende, anche se addolora, che i giovani di Gaza si siano sempre descritti come dentro a un lento morire piuttosto che un vero vivere, segnato dalla privazione del presente e dalla impossibilità di immaginare un futuro. Un rapporto di Save the Children pubblicato nel 2022 ha portato alla luce la profondità delle ferite psichiche della violenza sulle giovani generazioni: dopo 16 anni di assedio, di bombe e lutti, 4 minori su 5 riportano un vissuto di depressione e trauma. Vi è stato un aumento vertiginoso di bambini che pensano al suicidio o che praticano forme di autolesionismo. 

Questo non ha tuttavia impedito che nel corso degli anni a Gaza, nonostante le condizioni disperate, sia continuata a proliferare una società civile creativa, artistica, e con forte coscienza politica, che ha messo in atto forme di resistenza culturali e non violente. La rivista del Mulino il 6 giugno 2018 riporta un articolo della giurista Chantal Meloni che racconta con grande efficacia le straordinarie marce del ritorno: 

Sono ormai due mesi che i Palestinesi hanno cominciato la loro nuova forma di resistenza e protesta: dalla prima manifestazione, tenutasi lo scorso 30 marzo per celebrare (come ogni anno) il “giorno della terra”, gli abitanti di Gaza hanno continuato ad organizzare settimanalmente manifestazioni di massa a ridosso della barriera che separa la Striscia da Israele. Al di là della propaganda che ha cercato di dipingere queste manifestazioni come pericolosissimi atti terroristici riconducibili ad Hamas, si tratta di eventi messi insieme dalla gente comune di Gaza per protestare contro la punizione collettiva loro imposta (il blocco che li imprigiona e soffoca), contro il mancato accesso alla terra e per rivendicare i loro diritti negati.

A fronte di questo è ormai diffusa in occidente l’ingiunzione a sospendere qualunque riferimento a contesto e storia, come precondizione per prendere la parola su quanto sta avvenendo a Gaza. In queste settimane si è di fronte a qualcosa di nuovo: la criminalizzazione della contestualizzazione e storicizzazione. Tentativi di collocare i fatti in una dimensione storica e politica, o finanche solo miranti a contestualizzare il vissuto della popolazione di Gaza, sono additati come facinorosi, conflittuali o giustificazionisti, quando non immediatamente censurati.  

Come ha sottolineato lo storico Ilan Pappé in un recente editoriale, questo è allarmante e rappresenta un nuovo capitolo dell’attacco alla libertà di parola e di pensiero. In passato era la mera critica alla politica del governo israeliano a essere faziosamente dichiarata foriera di antisemitismo, in una pericolosa sovrapposizione tra antisemitismo e critica allo stato di Israele, contestata da moltissime personalità ebraiche nel mondo, incluso Kenneth Stern, che a più riprese si è inutilmente dissociato dalla “manipolazione della definizione di antisemitismo” elaborata dalla International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), di cui è stato co-autore, finalizzata a demonizzare le critiche verso la politica israeliana. C’è quindi in atto una inversione di senso per cui chi tenta di sottolineare il contesto di violenza assume la connotazione di violento. 

A fronte della drammatica perdita di vite umane – mentre scriviamo 1 bambino muore ogni 10 minuti nella striscia di Gaza – aumentano la qualità e quantità degli attacchi alla libertà di espressione. Queste si manifestano sotto forma di una linea sottile tra la criminalizzazione della mera citazione del diritto internazionale (e dei rapporti di organizzazioni indipendenti che lavorano sui diritti umani) e la criminalizzazione del diritto internazionale stesso, al punto che alcuni membri di governi e figure pubbliche hanno decretato che dal 7 ottobre non è lecito nominare le parole “occupazione” e “apartheid”, e chi lo fa provoca “disgusto” e oltraggio

Assistiamo a gravi tentativi di distorcere e inquadrare la più umanitaria delle richieste: il “cessate il fuoco”. Gridato da milioni di persone nelle piazze di tutto il mondo al fine di scongiurare la perdita di altre vite umane, il basilare e pacifico chiedere che la violenza cessi, che le armi tacciano, che gli ostaggi siano liberati, viene rappresentato come insensibile e finanche screditato come immorale! In alcuni paesi si è arrivati alla proibizione e criminalizzazione del diritto a manifestare, fino ad arrivare alle paradossali accuse di antisemitismo verso attivisti ebrei nel mondo che chiedono di non essere strumentalizzati dalla macchina da guerra, con lo slogan “non in mio nome”, come a New York nelle scorse settimane. Tutto questo non ha precedenti nella storia recente.

Editorialisti di testate nazionali e internazionali fanno appello affinché di fronte alle vittime israeliane si sospendano la contestualizzazione e la storia, invocando il trauma intergenerazionale dell’Olocausto che il 7 ottobre avrebbe risvegliato come base per una più alta morale, una morale che si suppone essere pre-politica o a-politica. Ma cosa è questo se non un contestualizzare? Dietro una presunta morale universale si propone in realtà come unico contesto che ha valore, ed è evocabile, quello della storia e vita degli uni (gli ebrei israeliani) collocati tuttavia al di sopra della storia, mentre l’occupazione dei palestinesi e l’assedio sono semplicemente cancellati dalla storia. Quello del 7 ottobre diventa così un evento al contempo a-storico e metastorico. Camuffata da universalismo, l’imposizione della sospensione del contesto per censurare o criticare chi chiede il cessate il fuoco o il rispetto del diritto internazionale da parte di Israele non solo finisce col giustificare i bombardamenti indiscriminati su Gaza, ma sublima la lunga storia di disumanizzazione dei palestinesi, inserita in una ben più lunga storia coloniale che continua a produrre una drammatica gerarchia dell’umano, basata su una diversa attribuzione di valore della vita e della sofferenza.

Ma se – come scriveva Umberto Eco – ricordare non significa perdonare, possiamo sostenere che contestualizzare non significa perdere compassione per le perdite di vite umane, che siano israeliane, palestinesi, cristiane, musulmane o ebree. È invece la bussola morale sganciata dal contesto storico che finisce per divenire uno strumento politico, sulla base del quale si condona o condanna in modo parziale o selettivo. Privata dell’ancoraggio a criteri (il diritto internazionale) che nascono per tutelare e realizzare il principio universale del diritto alla vita per tutti gli esseri umani, la morale può sfociare in un relativismo estremo dove si perdono e sovvertono le cornici di senso. Lo vediamo in questi giorni nell’uso di parole che risultano ormai sganciate dal loro significato condiviso e comune. È così che un’importante testata giornalistica italiana può fare credere che “assediati” siano i coloni illegali della Cisgiordania a Hebron, proprio là dove i palestinesi, da anni picchiati, aggrediti, derubati costretti a vivere dentro le case per paura di aggressioni, bastonate e sassate dei coloni israeliani illegali protetti dall’esercito (e ora, mentre scriviamo, anche sotto coprifuoco da settimane) diverrebbero gli assedianti. Questa radicalizzazione dello svuotamento di senso permette una inversione tra vittima e oppressore, colonizzatore e colonizzato, e in queste ore sta assumendo connotati grotteschi se non fosse che tutto ciò è reale e profondamente allarmante.

D’altronde, ha sottolineato il presidente israeliano Herzog, “A Gaza non ci sono innocenti”.  Questa attribuzione di colpevolezza intrinseca dei palestinesi, per il mero fatto di r/esistere a una storia specifica di occupazione – per quanto mai così violentemente praticata come nelle ultime settimane – è costitutiva della politica israeliana nei confronti dei palestinesi e da ben prima del 7 ottobre. Questa narrazione disumanizzante si propone di normalizzare l’idea che la popolazione di Gaza non sia fatta di storie, di vite, di speranze, ma di colpevoli, colpevoli nella incessante richiesta di esistere liberi, si potrebbe aggiungere. Trasfigurare l’umanità palestinese nella non-umana forma dello “scudo umano” significa di fatto negare la distinzione tra civili e combattenti, confinando tutta la popolazione alla categoria di un corpo unico di “terroristi”, e in quanto tale collocato fuori dalla sfera dell’umano, mentre specularmente tutte le vittime israeliane del 7 ottobre, stimate in 1400 e poi abbassate a 1200, divengono un corpo unico di “civili” innocenti, nonostante tra le vittime israeliane siano compresi centinaia di soldati. 

Se, come sappiamo, i diritti umani e il diritto umanitario sono fondati sul principio di orrore per la perdita di vita umana, chi non è né innocente né umano ma “animale-umano”, bestia selvaggia – così come i palestinesi sono definiti, costruiti e percepiti nel linguaggio politico israeliano – può essere ucciso senza che questo costituisca una perdita per l’umanità, senza che si possa provare orrore o costernazione. D’altra parte, i barbari e i selvaggi del colonialismo, ci ricorda l’antropologo Talal Asad, non sono neanche contati nella matematica del danno collaterale.

Ai palestinesi di Gaza, così come agli altri palestinesi che vivono sotto occupazione e sotto un regime di apartheid (per Amnesty International e Human Rights Watch ma anche per importanti esponenti israeliani non certo “a sinistra” quali Tamir Pardo, ex capo dell’intelligence del Mossad, che definisce l’esistenza di un regime di apartheid un fatto inoppugnabile), si dice quindi che l’unica modalità di esistenza possibile per loro è in quanto umanità subalterna: accettare assedio e occupazione o morire sotto le bombe. Inscritta nella lunga storia di brutale costruzione gerarchica dell’umanità che la modernità ha prodotto – e che il diritto internazionale avrebbe dovuto  superare – questa narrativa ritiene che l’inferiorità di forza sul campo debba tradursi in accettazione incondizionata della colonizzazione infinita, offuscata da brandelli di sovranità mutilata e subordinata. 

Ancora una volta ci viene in aiuto la storia, che ci insegna che le popolazioni oppresse sono caratterizzate da un disperato ottimismo o un ottimismo della disperazione. Questo è ciò che anima le lotte popolari contro l’espropriazione di villaggi come Bi’ilin o Sheikh Jarrah, o lo sciopero della fame dei prigionieri in detenzione amministrativa (più di 1.200 e ora aumentati a dismisura) o i comitati popolari che ad ogni distruzione di un villaggio lo ricostruiscono e per ogni albero di ulivo bruciato dai coloni illegali ne piantano altri.  

Mi preme concludere queste riflessioni citando A., giovane giornalista di we are not numbers e amico di Youssef che, da Gaza e con mezzi di comunicazione di fortuna, in queste settimane ci ha raccontato delle scene di morte e devastazione, della sete e della fame, dei corpi per la strada e sotto le macerie, delle tragiche scelte dei soccorritori esausti che scavano a braccio e devono decidere chi tirare fuori sulla base di chi ha più probabilità di essere vivo, dei messaggi registrati dall’esercito israeliano che ingiunge ai residenti di lasciare le case per poi bombardarli in strada, delle bombe anche su cose inanimate come i pannelli solari, dei saccheggi del pane, di genitori che hanno lasciato figli e figli che hanno perduto i genitori, della disperazione. L’enormità della violenza e della morte che si vive a Gaza in queste ore, spiega A., va al di là del trauma ma ha un che di distopico e surreale. Trasmettendo angoscia profonda, A. dice di una ferita che è al contempo fisica e psichica e che teme sarà incurabile: “chi sopravviverà non so come ne uscirà, ci vorranno generazioni”. Poi, con la poca batteria del cellulare che gli rimane, racconta della piccola comunità cristiana di Gaza e del bombardamento israeliano della Chiesa di San Porfirio. “In tutta questa devastazione, perdere un pezzo di loro, una così piccola e preziosa minoranza, mi risulta come un dolore ancora più straziante”

Da Gaza, da sotto le macerie, il disperato ottimismo si fa lezione di umanità.

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