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An-archē e Indifferenza: Tra Giorgio Agamben e Reiner Schürmann

di Malte Fabian Rauch

Malte3.001Il saggio di Malte Fabian Rauch An-archē and Indifference: Between Giorgio Agamben and Reiner Schürmann sarà pubblicato dalla, e consultabile sulla, rivista Philosophy Today, 65:3 (Summer 2021). Questo saggio pionieristico di Rauch tocca uno degli assi di ricerca più fecondi e cari al Laboratorio di Archeologia Filosofica — la relazione tra il pensiero di Giorgio Agamben e quello di Reiner Schürmann — tentando di esortare chi legge al confronto nonché alla rielaborazione (in) comune di questo nesso cruciale e, tuttavia, ancora largamente inesplorato. Di seguito, in anteprima, la traduzione annotata a cura di F. Della Sala e F. Guercio.

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Nelle ultime pagine de L’uso dei corpi di Giorgio Agamben, il concetto di ‘vera anarchia’ si rivela come il punto di fuga politico dell’intero progetto Homo sacer[1]. Reiner Schürmann, il quale era sembrato finora solo un riferimento molto occasionale, appare qui improvvisamente come uno degli interlocutori decisivi di Agamben. Alcuni dei lettori più attenti di quest’ultimo, Jean-Luc Nancy ed Étienne Balibar, hanno sottolineato l’importanza di questo riferimento[2]. E tuttavia nella trattazione generale dell’opera di Agamben tale connessione ha ricevuto per lo più scarsa attenzione. Prova ne è che, per avvicinarsi alla nozione agambeniana di anarchia, seppur l’opera di Schürmann è stata utilizzata, non si è però fatta menzione della sua discussione esplicita[3]. Questo saggio è un tentativo di chiarire l’importanza di questo rapporto – sia per l’effetto che ha avuto sul lavoro di Agamben, sia per la leggibilità del lavoro di Schürmann nel presente.

L’‘anarchia’ qui in questione è di un tipo particolare. Fin dall’inizio di Homo sacer, Agamben distingue questa anarchia dalla tradizione della critica ‘anarchica’ dello Stato[4]. Balenando ai margini e venendo alla ribalta solo nell’ultimo volume, il pensiero agambeniano dell’anarchia partecipa allo slittamento «dalla filosofia politica alla filosofia prima», che è stato il gesto fondante della sua opera[5]. Allontanandosi dal consueto significato teorico-politico del termine, ‘anarchia’ in Agamben problematizza invece la relazione tra teoria e prassi implicata in tale discorso, un approccio che ha il suo esatto corollario nell’opera di Schürmann. In un passo che Agamben cita con approvazione, Schürmann scrive, per esempio, che l’anarchismo di Proudhon e Bakunin cercava solo di «spostare l’origine, sostituendo al potere di autorità, princeps, il potere razionale, principium – operazione metafisica quante altre mai»[6]. Ecco ciò che definisce la posta in gioco in questo dibattito: pensare l’anarchia ontologicamente, fuori dai parametri della metafisica.

Data questa costellazione e il completo silenzio sulla relazione tra Schürmann e Agamben, sarà necessario concentrarsi sui passaggi decisivi in cui Schürmann fa la sua comparsa nei testi di Agamben e costruire il dialogo tra i due attraverso una lettura micrologica, introducendo mano a mano i termini che sottendono il dibattito. La prima sezione di questo saggio delinea il campo in cui si svolge quel dibattito esaminando un passo in cui Agamben situa il proprio progetto in relazione a Schürmann discutendo il discorso post-heideggeriano sull’archē. La discussione dovrà successivamente rivolgersi all’impegno di Agamben con Schürmann all’inizio de Il Regno e la Gloria, dove i contorni del loro pensiero sull’archē e l’anarchia verranno definitivamente in luce; specialmente per quanto riguarda la nozione di differenza. In conclusione, la sezione finale offre una lettura a stretto giro del riconoscimento critico di Schürmann da parte di Agamben nell’epilogo de L’uso dei corpi per stabilire che la teoria di Agamben della ‘vera anarchia’ può invero essere vista come un risultato del suo dialogo con Schürmann.

 

I. Archē

In un recente saggio, Cos’è un comando?, Agamben propone un’archeologia dell’imperativo linguistico. Verso l’inizio della sua indagine, egli osserva l’aporia di un’arche-ologia del comando, dato che il greco archē significa sia origine in quanto principio primo sia comando in quanto ordine. Non è una coincidenza che Reiner Schürmann sia qui citato, poiché tutta la sua opera potrebbe essere descritta come una meditazione sul doppio significato di archē come «cominciare e comandare»[7]. Agamben abbozza due sviluppi del pensiero post-heideggeriano che riguardano questo problema:

Il primo – che potremmo definire l’interpretazione anarchica di Heidegger – è il bel libro di Reiner Schürmann, Le principe d’anarchie (1982), che è un tentativo di separare origine e comando, per raggiungere qualcosa come un’origine pura, un semplice ‘venire-alla-presenza’ disgiunto da ogni comando. Il secondo – che non sarà illegittimo definire l’interpretazione democratica di Heidegger – è il tentativo simmetricamente opposto di Jacques Derrida di neutralizzare l’origine per raggiungere un puro imperativo, senz’altro contenuto che l’ingiunzione: interpreta![8]

Questo breve passo indica l’importanza della posta in gioco, per Agamben, del leggere Schürmann. Perché naturalmente è soprattutto la posizione di Agamben nei confronti dell’archē nel discorso post-heideggeriano che viene così sollecitata. Agamben vi allude quando aggiunge la seguente glossa, profondamente ironica: «L’anarchia mi è sempre parsa più interessante della democrazia, ma va da sé che ciascuno è qui libero di pensare come crede»[9]. Quello che appare in questo breve intermezzo, come un cenno a Schürmann contro Derrida, è solo, in realtà, l’episodio più recente dell’attacco sostenuto di Agamben alla decostruzione, qui reso ulteriormente sfumato attraverso la valorizzazione di Schürmann. Fino a questo punto, la critica di Agamben ha fatto perno sulle nozioni di scrittura e traccia, che, a suo parere, scambiano la differenza per una contestazione della presenza, mentre la differenza è in realtà un elemento intrinseco della macchina metafisica.

Cruciale per la lettura qui sviluppata è il modo in cui questa critica viene ripresa nelle due pagine, cogentemente argomentate e acutamente polemiche, dedicate a Derrida in Il tempo che resta, poiché esse si concentrano esplicitamente sull’archē[10]. Ivi Agamben inizia mostrando come in Derrida «l’origine […] è prodotta come effetto retroattivo da una non-origine e da una traccia»[11]. Poiché ogni significato [signified] nella posizione dell’origine è, nella lettura agambeniana di Derrida, sempre già preso nell’iterabilità del significante [signifier], il movimento di differenziazione cancella l’auto-presenza dell’archē. Derrida insiste infatti più volte su questa biforcazione dell’origine attraverso l’iterabilità, la logica quasi-trascendentale della traccia, il gioco della differenza che interrompe ogni stabilizzazione di un fondamento [ground].

Inderivabile dalla presenza, inaccettabile all’interno della logica dell’identità, la «traccia originaria o archi-traccia» denota, sostiene esplicitamente Agamben, non solo la «scomparsa dell’origine», ma il fatto che «l’origine non è nemmeno scomparsa, che non è mai stata costituita se non reciprocamente da una non-origine»[12]. Così l’archē autoidentica è sempre già scissa attraverso una differenza irriducibile, che Derrida chiama volentieri ‘originaria’, almeno in modo provvisorio:

La differanza di per sé sarebbe più ‘originaria’, ma non si potrebbe più chiamarla ‘origine’ o ‘fondamento’, nozioni che appartengono essenzialmente alla storia dell’onto-teologia, al sistema che funziona come cancellazione della differenza.[13]

Agamben preme fortemente sul presupposto ontologico di questa decostruzione dell’origine, sostenendo che Derrida deve presupporre vi sia «ancora una significazione al di là della presenza e dell’assenza»[14]. La traccia derridiana, suggerisce qui Agamben, deve essere concepita come anteriore all’identità e all’essere, come un gioco della differenza che ha sempre già contaminato la presenza, e come tale guida l’intero progetto decostruttivo. Nonostante la sua simulata mancanza di nostalgia, la decostruzione fa ancora, come dice succintamente Kevin Attell, «ricorso a una sorta di memoria strutturale dell’origine nella forma del ‘grado zero’ di significazione della traccia, che non è pura non-significazione, e anzi quanto vi è di veramente inestinguibile nella decostruzione»[15]. La significazione grado zero, quindi, l’oscillazione differenziale – la decostruzione conserva invero la memoria dell’archē attraverso la convinzione che la significazione, sotto forma di oscillazione differenziale, sia assoluta, irriducibile, interminabile. Ciò esclude precisamente, come si può notare di sfuggita, un pensiero del grado zero come si trova nel ‘neutro’ di Barthes, in cui viene a denotare «la tentazione di togliere, precludere, eludere»[16] le opposizioni differenziali. Secondo la lettura di Agamben, la biforcazione decostruttiva dell’archē si aggrappa dunque a un gioco differenziale ‘anteriore’ [prior] all’identità, scambiandolo per una contestazione della metafisica, allorché questo movimento, in verità, non fa che approfondire le divisioni storicamente contingenti astraendole, peggio ancora, in una logica insuperabile e quasi-trascendentale. È questo movimento, allora, a mantenere operativa la metafisica in un epilogo perpetuo in quanto stabilisce l’imperativo di seguire il differimento senza fine della differenza, «una deriva e […] un’interpretazione infinite», come Agamben aveva già detto in una prima resa allegorica della sua critica[17]. Tale è l’argomento tecnico completo che sottende l’allusione citata sopra. Al posto dell’archē come origine autopresente viene a regnare il comando (archē) di interpretare il movimento differenziale della traccia.

Senza citare il lavoro di Derrida sul tempo messianico, Agamben, in Il tempo che resta, desume la struttura temporale del differimento infinito dalla logica della traccia. Nella discussione che segue, egli dapprima riassume la critica di Derrida e poi mostra il gesto della propria posizione nei confronti dell’archē:

Il significar-sé della significazione non afferra mai se stesso, non raggiunge mai un vuoto di rappresentazione, non lascia mai essere una in-significanza […] Nella nostra tradizione, un tema metafisico – che insiste soprattutto sul momento della fondazione e dell’origine – convive con un tema messianico – che insiste su quello del compimento. Ma propriamente messianica e storica è l’idea che il compimento sia possibile solo riprendendo e revocando la fondazione, facendo i conti con essa.[18]

In altre parole: la posizione [positing] di una differenza ‘originaria’ per mezzo dell’archi-traccia non può fare i conti con l’archē, poiché non permette una revocazione storica dell’origine, una neutralizzazione che Agamben penserà in termini di in-significanza, cioè come una sospensione della differenza in quanto indifferenza. In modo cruciale, e certamente altrettanto noto ad Agamben, anche Schürmann ha distinto nettamente il proprio progetto filosofico da Derrida in riferimento a questi stessi concetti: traccia e origine. Proprio come Agamben insiste sul fatto che, nonostante la sua simulata mancanza di nostalgia, la decostruzione mantiene una relazione con l’origine attraverso l’assunto della significazione grado zero della traccia, così Schürmann sostiene che Derrida non può pensare la biforcazione dell’archē attraverso la differenza se non come trauma e perdita, come un «brutto risveglio»[19]. Ciò, dunque, definisce la posta in gioco dell’allineamento qualificato di Agamben con Schürmann contro Derrida: fare i conti con l’archē.

Cosa però comporta? Molto ci sarebbe da obiettare a queste letture di Derrida. Tuttavia, un rimprovero mosso di frequente – che la critica agambeniana alla decostruzione conduca al tentativo di ritorno a un’origine – è una lettura errata, tanto intenzionale quanto grossolana. La critica di Agamben alla scissione differenziale come ‘originaria’ è implacabile nonché orientata, non da un ritorno all’identità anteriore [prior] alla differenza, bensì da una sospensione dell’identità e della differenza, un rendere ambedue questi poli indifferenti[20]. Il suo allineamento con Schürmann chiarisce ancora una volta che fare i conti con l’archē non consiste nel restituire un’unicità dell’origine, ma nel rintracciare strategie di uscita an-archiche [an-anarchic exit-strategies]. Eppure la vicinanza e la distanza da Schürmann faranno perno, ancora una volta, sul luogo della differenza in relazione all’archē.

 

II. An-archē

Fin da Il linguaggio e la morte Agamben ha infatti sostenuto che il ruolo dell’archē o fondazione [foundation] nella storia della metafisica contraddice direttamente le canoniche narrazioni heideggeriane e derridiane[21]. La metafisica, afferma Agamben, non è stata definita dalle fondazioni, bensì dal porre un fondamento [ground] negativo, un’assenza di fondazione, una mancanza costitutiva. In Il linguaggio e la morte, Agamben ha inizialmente formulato questa argomentazione nei termini di una presupposizione negativa nel linguaggio – la ‘Voce’, un elemento indicibile che stabilisce l’istanza del discorso attraverso una sottrazione della voce animale –, che egli ha rintracciato senza indugio da Hegel a Heidegger e Derrida. Come è accaduto per diversi temi della sua opera, anche questo argomento è stato poi ripreso, trasformato e reiscritto in un registro più generale. Sostenendo un isomorfismo tra linguaggio ed essere, Agamben afferma che «l’essere [ha] luogo […] nel non-luogo del fondamento (cioè, nel nulla) – l’essere è l’in-fondato (das Grundlose[22].

L’implicazione di più ampia portata di questa riformulazione del rapporto tra negatività e archē è che l’intera critica della metafisica come fondazionalismo – compresi Heidegger e Derrida – essendo insufficiente proprio perché incapace di vedere questo rapporto e, così facendo, ha finito così per riprodurlo. I correlati critici dell’anti-fondazionalismo – differenza, molteplicità, alterità – non possono, proprio per questa ragione, costituire il terreno [terrain] di contestazione della metafisica. Al contrario, queste forme di ‘esteriorità’ forniscono il substrato stesso della metafisica; sono incluse per mezzo della loro esclusione, essendo cioè negate e poste come (non-)fondamento. Abbiamo visto il modo in cui tutto questo si gioca nella critica di Agamben alla comprensione dell’archi-traccia di Derrida. E allorché Agamben sviluppa una concezione immanente del linguaggio in Infanzia e storia per oltrepassarne una predicata sulla negatività, il problema di una fondazione negativa dell’essere e le potenziali strategie per disattivarla attraverso una differente modalità di privazione diventano una delle preoccupazioni più urgenti del progetto Homo sacer.

Nella sua più sostenuta meditazione sul metodo, per discernere il suo approccio dalle diverse forme di anti-fondazionalismo Agamben definisce l’archē – non come un dato cronologico, una fondazione sostanziale o un effetto retroattivo della traccia – ma come una «forza operante nella storia»[23], che stabilisce un «campo di correnti storiche bipolari»[24] per mezzo delle quali i paradigmi diventano operativi attraverso la logica dell’esclusione inclusiva. Uno dei momenti chiave delle indagini su queste forze accade in Il Regno e la Gloria. Qui ci concentreremo sull’argomentazione che stabilisce un fondamento negativo dell’azione – non-fondamento o an-archē – come pre-condizione e necessità del potere occidentale. Perché è proprio in questo contesto che Agamben non poteva non confrontarsi per la prima volta con Schürmann, cronologicamente parlando. La questione affrontata dall’archeologia agambeniana è perché l’oikonomía sia diventata il paradigma del potere occidentale. L’indagine sulle premesse teologiche di questo paradigma fornisce come un’estensione della genealogia della governamentalità moderna di Michel Foucault, nella cui tradizione Agamben inscrive il suo progetto[25]. Così la discussione conduce, tematicamente e storicamente, in una zona remota, ma i termini fin qui tracciati riappariranno rapidamente come l’effettiva posta in gioco dell’argomentazione.

All’inizio della sua indagine, Agamben si concentra sul ruolo della ‘oikonomía’ nella genesi della dottrina della Trinità. In linea con le analisi canoniche, tale dottrina è vista come un tentativo – diretto a salvare il monoteismo dal riemergere di una pluralità di figure divine – di impedire la frattura dell’unità ontologica di Dio nelle tre diverse persone. La strategia elaborata dai Padri della Chiesa a questo scopo fu quella di affermare che Dio, la sostanza, è ontologicamente uno, ma che agisce attraverso la triplicità del Padre, del Figlio e dello Spirito. Sennonché, questo tentativo di ricucire la scissione della sostanza ontologica, sostiene Agamben, non ha fatto altro che spostare la scissione su un diverso livello, determinando una rottura [break] tra ontologia e prassi: «La cesura che si era voluta evitare a ogni costo sul piano dell’essere ricompare tuttavia come frattura tra Dio e la sua azione, fra ontologia e prassi»[26]. In termini teologici, questa frattura tra ontologia e prassi – che ha come paradigma la dottrina della creatio ex nihilo, la creazione del mondo attraverso la libera azione di Dio senza alcun fondamento nell’essere – ha reso necessaria la differenziazione tra il polo trascendente del potere sovrano (teologia) e il governo e l’amministrazione come sua attuazione immanente (economia). Questi due poli sono funzionalmente interconnessi in ciò che Agamben chiama la «macchina governamentale»[27].

Così, nell’archeologia agambeniana, l’infondatezza ontologica della prassi diventa e la precondizione paradossale e la ragione necessaria per il governo del mondo attraverso l’oikonomía. Nella misura in cui la frattura tra teologia e oikonomía, essere e azione, «rende libera e ‘anarchica’ la prassi, [essa] pone infatti, nello stesso tempo, la possibilità e la necessità del suo governo»[28]. Perché la funzione dell’oikonomía è proprio quella di governare attraverso questo paradosso, in modo che l’essere trascendente del potere possa svolgere la prassi divina immanentemente senza essere presente nel mondo. Il potere si costituisce così come una struttura duale di elementi eterogenei e tuttavia interconnessi con un centro vuoto. È costitutivamente anti-fondazionale, an-archico, predicato su una indistinzione di elementi fondanti e fondati. Secondo Agamben, questa eredità ‘anarchica’ determinerà il modo in cui l’intero dispositivo della governamentalità occidentale si dispiegherà fino alla ‘mano invisibile’ dell’economia moderna e del dispositivo biopolitico. L’anarchia è ciò che è incluso nell’esclusione – come archē – nella costituzione del governo: «L’anarchia è ciò che il governo deve pre-supporre e assumere su di sé come l’origine da cui proviene e, insieme, come la meta verso cui si mantiene in viaggio»[29]. Il potere si determina così attraverso la topologia dell’esclusione inclusiva, la costituzione di un archē attraverso la divisione e la cattura dell’anarchia.

Apparentemente, l’archeologia agambeniana di una rottura tra ontologia e azione nel nucleo strutturale del potere occidentale contraddice l’intero progetto filosofico di Schürmann. Poiché, secondo la lettura schürmanniana, la storia della metafisica non è stata definita dalla divisione o da fondazioni negative, bensì, al contrario, da strategie dirette a fondare la prassi nell’ontologia, di «derivazion[e] di una filosofia pratica [o morale] da una filosofia prima»[30]. Pertanto, laddove Agamben sostiene che la metafisica occidentale è predicata su un fondamento negativo, sull’anarchia, Schürmann sostiene il contrario: che essa si è costituita catturando la differenza per mezzo di un’archē autoidentica con autorità assoluta. Il meccanismo unificante il campo metafisico è, in questo senso, la struttura pròs hén, il riferimento dei fenomeni a un principio di unicità che occupa la posizione funzionale dell’Uno. Questo stabilisce, lungo tutta la traiettoria della metafisica, un isomorfismo tra filosofia prima e filosofia pratica, assicurando la dipendenza della seconda dalla prima: «L’archē funziona sempre in relazione all’azione come la sostanza funziona in relazione ai suoi accidenti, impartendo loro senso e télos»[31].

Più specificamente, le archai di Schürmann dispiegano il duplice significato del termine greco. Sono l’origine di un’epoca, poiché la fondano; e comandano o regnano su un’epoca, poiché sono il principio ultimo che fonda l’azione, investendola di autorità e intelligibilità. Questa nozione di ‘epoca’ ricodifica la storia dell’essere heideggeriana traducendo le costellazioni del venire alla presenza – del presenziare – o la ‘velatezza-disvelatezza’, in «economie della presenza»[32].

La storia della metafisica appare allora come una successione di economie della presenza, ciascuna delle quali è governata da un principio epocale; tutte bloccano, congelandolo, l’evento del presenziare (Anwesen) in un’ontologia della presenza (Anwesenheit), ancorando quest’ultima in un’archē. Sebbene il punto focale – il significato [signified] dell’archē – sia continuamente dislocato nella storia della metafisica – la Natura, Dio, il Soggetto – il meccanismo operativo stesso rimane saldamente al suo posto. Ogni archē cattura la differenza fondandola in una filosofia prima con ramificazioni politiche dirette: «[d]al re filosofo di Platone al principe di Machiavelli, questo riferimento pròs hén stabilisce le relazioni fra gli accidenti e la sostanza ovvero, in generale, fra ciò che è classificato come secondo e ciò che è classificato come Primo»[33].

L’argomentazione di Schürmann si basa sull’affermazione che la struttura del dispositivo metafisico sia visibile solo nelle sue rovine e che la sua decostruzione sia quindi un’intensificazione dello stesso vettore di disintegrazione della metafisica stessa. Questo luogo di entropia terminale, dove la metafisica non può più ricucire l’azione e l’essere, è ciò che Schürmann chiama la «chiusura del campo metafisico» per designare l’estenuazione del referente archico come tale: «L’anarchia che sarà in questione qui è il nome di una storia che ha intaccato il fondamento dell’agire […]»[34]. Questa nozione di anarchia opera, dunque, a livello ontologico, adombrando un’economia della presenza che non sarebbe più ‘archica’, nel suo bloccare la differenza attraverso l’identità, bensì an-archica: senza fondazione, quindi multipla. Nella misura in cui l’archē fonda l’azione, una tale economia sarebbe in eccesso rispetto a qualsiasi schema che possa attribuirle un télos; l’azione, non più trattenuta dall’archē, diventerebbe senza via d’uscita, senza perché o senso predeterminato. È questa, dunque, una radicale filosofia politica della differenza: l’archē obbedisce a una logica dell’identità che blocca, congelandola, la molteplicità delle cose, mentre l’an-archē è una figura della differenza, un’interruzione della presenza come presenza costante che rifiuta e smentisce ogni autorità ultima nell’ambito della prassi.

Con una designazione incisiva, Schürmann descrive questa transizione storica e sistematica con il sintagma «principio di anarchia». Questo sintagma, apparentemente contraddittorio, denota che il sito contemporaneo – in termini heideggeriani, l’epoca della tecnica – è doppiamente determinato per mezzo della disintegrazione violenta dell’economia archica (il regime dell’identità) e dall’inizio di un’economia an-archica, l’aprirsi della differenza: «La decostruzione è un discorso di transizione. Mettendo fianco a fianco le due parole ‘anarchia’ e ‘principio’, ci si prepara a questa transizione epocale»[35]. Bifronte – archico e anarchico – il sito contemporaneo è definito, da un lato, dal deterioramento di tutte le fondazioni su cui sarebbe possibile fondare l’azione, dall’altro, dall’incapacità di andare oltre il confine [boundary] della disintegrazione della metafisica.

In questo contesto, la critica di Agamben a Schürmann, che avviene in un lungo scolio alla fine del capitolo [de Il Regno e la Gloria] su Essere e agire, non sarà certo una sorpresa. Dato che, per Agamben, il potere si fonda sulla rottura tra essere e azione, egli sostiene che in questo paradigma «nessuna figura dell’essere è, come tale, in posizione dell’archē»[36], che è invero esattamente la posizione assunta da Schürmann. Per questo motivo, Agamben non può non trovare una ‘insufficienza’ nel tentativo schürmanniano di pensare una ‘economia anarchica’ come una forma di «prassi e […] storia senza alcuna fondamento nell’essere»[37], nonostante egli riconosca la bellezza del libro di Schürmann e gli attribuisca il merito di essere l’unico filosofo post-heideggeriano ad aver inteso l’importanza del termine ‘economia’[38]. In un passo molto suggestivo, Agamben dapprima indica quel che vede come il limite dell’analisi di Schürmann e poi accenna al punto di partenza della sua stessa teoria:

Ma l’ontoteologia pensa già sempre la prassi divina come infondata nell’essere e si propone appunto di trovare un’articolazione fra ciò che ha già sempre diviso. L’oikonomía è, cioè, già sempre anarchica, senza fondamento, e un ripensamento del problema dell’anarchia nella nostra tradizione politica diventa possibile solo a partire dalla consapevolezza del segreto nesso teologico segreto che l’unisce al governo e alla provvidenza. Il paradigma governamentale […] è, in realtà, già sempre ‘anarchico-governamentale’. Ciò non significa che, al di là del governo e dell’anarchia, non sia pensabile un Ingovernabile, cioè qualcosa che non possa mai assumere la forma di una oikonomía.[39]

La prima cosa da notare della strategia usata qui è che si tratta di una delle mosse tipiche di Agamben: squalificare una critica dell’ontoteologia come insufficiente attraverso un’inversione del ‘già sempre’ che riconfiguri una critica della metafisica come nient’altro che una delle sue modalità. Si ricordi che Agamben usa questo argomento, quasi esattamente negli stessi termini, contro Derrida, allorché quegli ne critica l’incapacità di vedere il fondamento ontologico negativo della metafisica[40]. Forse che Agamben stia, allora, argomentando allo stesso modo contro Schürmann? Squalifica forse il suo pensiero dell’anarchia come un’altra filosofia anti-fondazionalista della differenza, incapace di vedere il fondamento negativo del potere come già sempre già anarchico?

Sì e no. Che Agamben non stia argomentando per una messa da parte diretta si evince dapprima dal suo far giocare Schürmann contro Derrida ed è ulteriormente chiarito dal suo insistere sul fatto che quanto egli sostiene non è alcun ritorno a una fondazione dell’agire nell’essere. Inoltre, la visione agambeniana dell’Ingovernabile si avvicina notevolmente al pensiero schürmanniano dell’agire senza télos. Per Schürmann, come abbiamo visto, una tale prassi sarebbe completamente sganciata [released] dalla cattura dell’archē; sarebbe «una ‘vita senza perché’ […] una vita senza uno scopo, senza télos»[41]. I lettori che hanno familiarità con gli scritti di Agamben sull’inoperosità riconosceranno i notevoli parallelismi. La natura dell’uomo, scrive Agamben, è tale che egli «si presenta come il vivente senz’opera, cioè privo di una natura e di una vocazione specifica»[42]. Di conseguenza, Agamben descrive, in Il Regno e la Gloria, la visione della vita oltre la cattura come una «‘prassi’ sui generis che consiste nel rendere inoperosa ogni specifica potenza di agire e di fare»[43]. Secondo questo filone, Agamben ha delineato negli ultimi anni numerose strategie di disattivazione delle diverse forme di cattura nei vari dispositivi, liberando così l’inoperosità essenziale, «un essere di pura potenza, che nessuna identità e nessuna opera potrebbero esaurire»[44].

Allorché Schürmann pensa una cattura dell’azione attraverso un ancoraggio razionale nell’archē, che possa eventualmente cedere il passo a una forma di agire an-archico liberato dall’identità, Agamben analizza una cattura dell’agire per mezzo dell’esclusione inclusiva di vari dispositivi, disattivabili con una prassi che li renda inoperosi. Strana divergenza e convergenza. Qual è infatti, malgrado le loro incongruenti valutazioni sulla differenza, il tratto distintivo tra la prassi anarchica di Schürmann e l’inoperosità di Agamben? Entrambe neutralizzano qualsiasi tipo di fondazione e fondamento metafisici o di télos prestabilito, entrambe districano radicalmente l’agire dal suo ancoraggio nel soggetto. Pertanto, se a prima vista l’archeologia agambeniana della rottura tra l’essere e l’agire contraddice in modo netto la genealogia schürmanniana dei fondamenti che si disintegrano, a un esame più attento è abbastanza ovvio che le loro visioni dell’anarchia possano essere viste come quasi convergenti. In altre parole, la critica a Schürmann avanzata in Il Regno e la Gloria non riesce a mostrare perché il fatto che Schürmann ‘non colga’ la topologia dell’esclusione inclusiva stabilisca davvero una chiara divergenza tra i loro approcci. In questo senso, si può ben dire che la teoria della potenza destituente, sviluppata proprio alla fine del progetto Homo sacer, estenda ulteriormente il coinvolgimento di Agamben con Schürmann nel progetto di ripensare l’anarchia.

 

III. Destituzione

Laddove Il Regno e la Gloria fornisce un chiaro resoconto della relazione tra potere e anarchia, i commenti di Agamben sul ‘ripensare’ l’anarchia politica in relazione all’inoperosità rimangono gesti di sorta, dichiarazioni di intenti per una teoria che l’autore sviluppa in seguito. Si può trovare la piena articolazione di questo nesso tematico in L’uso dei corpi, specialmente nell’epilogo del libro, in cui Agamben descrive la funzione dell’esclusione inclusiva in quanto istituzione di un’archē al fine di proporre la correlativa nozione di anarchia come sua disattivazione. Generalizzando la teoria dell’esclusione inclusiva all’intero campo coperto dal progetto Homo sacer, Agamben scrive: «La strategia è sempre la stessa: qualcosa viene diviso, escluso e respinto al fondo e, proprio attraverso questa esclusione, viene incluso come archē e fondamento»[45]. Ciò che Agamben, come si è visto, aveva una volta concepito come il fondamento negativo della metafisica si trasforma alla fine nella logica operativa dell’esclusione inclusiva che cattura un elemento – anomia, nuda vita, inoperosità – per porlo come fondamento. Così l’anarchia diventa l’archē attraverso la sua esclusione inclusiva. Su questo sfondo, Agamben definisce il suo concetto chiave, ‘la potenza destituente’, sviluppo ulteriore dei suoi concetti precedenti, ‘inoperosità’ e ‘indifferenza’. La potenza destituente è definita come un’operazione di disattivazione delle relazioni ontologiche o politiche per ‘liberare’ l’elemento inoperoso che è stato catturato. In un passo importante Agamben scrive:

[C]iò che era stato diviso da sé e catturato nell’eccezione – la vita, l’anomia, la potenza anarchica – appare ora nella sua forma libera e indelibata. […] La prossimità fra potenza destituente e ciò che, nel corso della ricerca, abbiamo chiamato col termine ‘inoperosità’ si mostra qui con chiarezza. In entrambe è in questione la capacità di disattivare e rendere inoperante qualcosa […] senza semplicemente distruggerlo, ma liberando le potenzialità che in esso erano rimaste inattuate per permetterne così un uso diverso.[46]

La destituzione è, dunque, il movimento di sospendere un’esclusione inclusiva e, proprio in questo movimento, ‘liberare’ – termine che Agamben usa con estrema cautela – la potenzialità che in quella era stata catturata. Di nuovo, non si tratta di un ‘ritorno’ a una qualche identità o unicità primordiale. Piuttosto, la destituzione è concepita come un’indifferenziazione dell’esclusione inclusiva, tale che i termini non vengono distrutti, ma resi inoperanti, spossessati della loro cattura e quindi resi disponibili per un uso diverso. La ‘vera’ anarchia, per Agamben, non è dunque una differenza residuale che persiste all’interno dell’identità o del potere. Non denota, come in Schürmann, la riabilitazione della molteplicità che precede l’identità ma, piuttosto, la sospensione della relazione tra archē e an-archē, potere e anomia, differenza e identità. La destituzione qui si rivela così l’equivalente di una modalità di privazione o di sospensione che non può essere pensata nell’orizzonte di un’economia in senso stretto né collocata entro l’opposizione tra negazione dialettica e affermazione nietzschiana.

Poiché Agamben, per inquadrare questo progetto, si basa sui termini stabiliti in Il Regno e la Gloria, il pensiero di Schürmann è già implicitamente in gioco nel passo sopra citato. Proprio qui si può notare che sfortunatamente Agamben non affronta la relazione tra il concetto di anarchia e la nozione di destituzione schürmanniani, il che è ancora più sorprendente essendo Schürmann uno dei pochi pensatori ad aver sviluppato una teoria completa della destituzione, e Agamben esamina solitamente con molta attenzione la genealogia dei suoi concetti. In Le egemonie infrante, Schürmann concettualizza una «destituzione senza insorti, trasgressione senza trasgressori, negazione senza parlanti, espropriazione senza espropriatori», una teoria, in altre parole, che presenta suggestive risonanze con la strategia concettuale di Agamben[47]. Se Agamben allude altresì brevemente a Le egemonie infrante, mantiene però la discussione limitata a Dai principî all’anarchia.

Dopo aver ripetuto l’argomento dell’hōs mē paolino come forma di disattivazione, Agamben sostiene come proprio questo potenziale destituente sia ciò che «tanto la tradizione anarchica che il pensiero del Novecento hanno cercato di definire senza mai veramente riuscirvi»[48]. Pur segnando il lignaggio in cui inscrive il suo progetto, Agamben, con un gesto ormai familiare, sostiene al tempo stesso come i rispettivi autori non siano andati abbastanza lontano. Egli nomina la «distruzione della tradizione in Heidegger, la decostruzione dell’archē e la frattura delle egemonie in Schürmann, [e] ciò che, (sulle tracce di Foucault), ho chiamato ‘archeologia filosofica’»[49], e definisce la loro preoccupazione comune come la deposizione dell’archē. Solo qui, proprio alla fine della serie Homo sacer, Schürmann appare improvvisamente per il progetto di Agamben una figura importante tanto quanto Heidegger e Foucault. Riprendendo l’argomentazione de Il Regno e la Gloria, Agamben prosegue affermando che:

[I]l pensiero che cerca di pensare l’anarchia – come negazione di ‘origine’ e ‘comando’, principium e princeps – rest[a] imprigionato in aporie e contraddizioni senza fine. Poiché il potere si costituisce attraverso l’esclusione inclusiva (l’ex-ceptio) dell’anarchia, la sola possibilità di pensare una vera anarchia coincide con la lucida esposizione dell’anarchia interna al potere. L’anarchia è ciò che diventa pensabile solo nel punto in cui afferriamo e destituiamo l’anarchia del potere.[50]

In questo passo, Agamben, riferendosi già alla terminologia schürmanniana[51], riassume l’archeologia de Il Regno e la Gloria e fornisce il legame per una transizione verso il pensiero di una ‘vera anarchia’. Su un piano più generale, sostenere che l’anarchia non possa essere la semplice negazione dell’archē è tanto esiziale quanto affermare che l’anarchia non possa essere una figura della differenza che interrompe l’identità dell’archē. Correlativamente, la ‘vera anarchia’ si trasforma, in primo luogo, nel portatore e nell’orizzonte politico dell’inoperosità, qualcosa che viene catturato nei vari dispositivi al fine di garantirne il funzionamento, e, in secondo luogo, nel movimento di indifferenziazione che sospende la coppia di identità e differenza all’opera in questa cattura. Concesso che l’analisi precedente abbia messo in luce l’anarchia interna al potere, si tratta ora di precisare come questa anarchia si destituisce per rendere possibile una tale ‘vera anarchia’, non come sua negazione, ma come disattivazione, indifferenziazione o uso alternativo. La glossa ellittica apposta da Agamben è che «la destituzione coincide senza residui con la costituzione, la posizione non ha altra consistenza che nella deposizione»[52].

Agamben, nello scolio che dovrebbe far luce su questo passo, ribadisce dapprima il doppio significato di archē nel greco antico come origine e comando e poi indica «il libro importante» di Schürmann, Dai principî all’anarchia, che ha tentato di «decostruire […] questo dispositivo»[53]. Infine, egli chiarisce come l’attuale ‘limite’ dell’approccio schürmanniano sia, a suo avviso, posizionare l’anarchia come principio:

Non basta separare origine e comando, principium e princeps: come abbiamo mostrato in Il Regno e la Gloria, un Re che regna ma non governa non è che uno dei due poli del dispositivo governamentale e giocare un polo contro l’altro non è sufficiente ad arrestarne il funzionamento. L’anarchia non può mai essere in posizione di principio: essa può liberarsi come un contatto, là dove tanto l’archē come origine che l’archē come comando sono esposti nella loro non-relazione e neutralizzati.[54]

Ma cosa significa ‘liberare’ l’anarchia come contatto? Che aggiunga forse una differenza all’analisi di Schürmann? Come abbiamo visto, il sintagma contraddittorio ‘principio d’anarchia’ è usato da Schürmann solo per denotare lo statuto «essenzialmente bifronte» del sito storico in cui il dispositivo metafisico crolla[55]. Ciò che qui Agamben non può certo voler dire, a meno che gli si attribuisca una semplice lettura errata, è allora che Schürmann abbia una concezione sbagliata, triviale, dell’anarchia, come se la sua argomentazione fosse considerare normativamente consigliabile concepire l’anarchia come un principio. Lo scopo di tale concetto è interamente quello di descrivere la specificità della transizione epocale tra l’economia dell’archē (identità) e l’economia dell’anarchia (differenza), in cui una ‘prasseologia’ – una teoria della prassi – non è più derivata da un’ontologia archica ma non si è aperta su un presenziare puramente an-archico[56].

L’interpretazione qui proposta è quindi che il disaccordo sostanziale di Agamben riguardi il tipo di storicità o, piuttosto, di topologia implicita nella teoria di Schürmann poiché questa offre una decostruzione delle archai per stabilire l’anarchia epocalmente ambivalente del sito contemporaneo come un’erosione dell’identità attraverso la differenza. Si dovrebbe quindi leggere il commento di Agamben come una critica all’analisi bifrontale schürmanniana: l’esclusione inclusiva dell’anarchia come archē di contro alla topologia del ‘principio di anarchia’. Se questa lettura è corretta, allora quanto Agamben sostiene è che, poiché Schürmann pensa l’anarchia come un principio, egli deve pensarla, in primo luogo, come differenza e, in secondo luogo, come epocalmente transitoria. Tuttavia ciò, per Agamben, presenta dei limiti anzitutto perché, come detto sopra, dimentica che la differenza funziona come una modalità della metafisica. In secondo luogo, e in conseguenza di ciò, perché, sebbene Schürmann svuoti pure la forza normativa dell’archē, cioè neutralizzi l’archē come comando, nondimeno sbaglia questo momento entropico per un’occhiata fugace sul balenare di un’origine pura, una forma an-archica della differenza finora offuscata attraverso le economie archiche della presenza. In terzo luogo, forse il più importante, perché tale pensiero è troppo legato a una tappa heideggeriana della storia dell’essere di cui bisogna aspettare l’avvento. Solo tra i pensatori post-heideggeriani, Agamben fa un appello programmatico a finire attivamente – e a finirla con – la metafisica, fine che qui si traduce nel divario tra il ‘principio di anarchia’ schürmanniano come tappa nella storia dell’essere e la ‘vera anarchia’ agambeniana come definitiva disattivazione della metafisica.

Il limite essenziale di Schürmann è, nella prospettiva di Agamben, non solo di non aver colto l’esclusione inclusiva dell’anarchia, ma di essere rimasto impigliato in un’ambivalente filosofia della differenza che vede il presente come «ancora rinchiuso nella problematica della presenza, ma già fuori dal feudo in cui la presenza funziona come presenza costante, come identità di sé con sé, come fondamento inconcusso»[57]. Per Agamben questo appare, se ricordiamo il binomio citato sopra, come l’immagine speculare dell’errore di Derrida. Se Derrida, pur neutralizzando l’archē come principio primo, finisce con il comando dei differimenti senza fine, Schürmann neutralizza l’autorità dell’archē per intravedere fugacemente il balenare di una differenza anarchica oltre il campo governato dall’archē. Il punto di fuga del pensiero di Agamben consiste nell’abbandonare entrambi questi poli per raggiungere attivamente un punto al di là dei quadri definiti in termini di identità e differenza: un punto di in-differenza. Lì egli vede la possibilità di costituire una forma-di-vita in cui disintegrazione e costituzione coincidano. Pensando il pensiero più difficile, più utopico della sua filosofia, Agamben pensa una prassi anarchica come una vita inseparabile dalla sua forma perché una questa vita è la destituzione di ogni dispositivo che l’ha divisa attraverso un’esclusione inclusiva: «[è] solo vivendo una vita che si costituisce una forma-di-vita, come l’inoperosità immanente in ogni vita»[58]. Una tale vita si terrebbe in sospeso: indivisa, ingovernabile, dimorante nella neutralità e nell’indifferenza.

Questa strategia è certamente un anatema per Schürmann. La sua cauta occhiata a una ‘vita senza perché’ oltre la chiusura del campo metafisico è agnostica, anti-volontaristica, austeramente topologica: «Il ‘senza perché’ mira al di là della chiusura, non lo si può dunque scrutare»[59]. La sua è una filosofia dei tempi transitori, ed è tale enfaticamente. Siamo testimoni, scrive Schürmann, di «una terra deserta che non è più la nostra, una terra incognita che non lo è ancora, e una transizione in cui un’intera collettività vive come se trattenesse il respiro»[60]. La ‘vera anarchia’ di Agamben si riferisce a un’operazione quasi identica, eppure alquanto diversa dal ‘principio di anarchia’ di Schürmann. In un movimento che non è né una regressione della terra deserta né una prolessi della terra incognita, ciò che emerge nella destituzione è un punto di indifferenza, l’esibizione di un vuoto, in cui l’anarchia non sarebbe altro che l’uso diverso del dato [given]. Agamben insiste sul fatto che non c’è alcun evento da attendere che cambi la relazione tra essere e prassi, e che al cuore di ogni cattura c’è già un’inoperosità capace di essere lasciata-essere, sganciata [released], per mezzo di una prassi destituente:

Ciò che allora appare non è un’unità cronologicamente più originaria nè una nuova e superiore unità, ma qualcosa come una via d’uscita. La soglia d’indiscernibilità è il centro della macchina ontologico-politica: se la si raggiunge e ci si tiene in essa, la macchina non può più funzionare. [61]

Certamente questo non risolve la questione tra Agamben e Schürmann, anche perché l’elaborazione ‘positiva’ di Agamben di questa ‘via d’uscita’ è rimasta elusivamente astratta, lasciandolo possibilmente allo scoperto, dal punto di vista di Schürmann, di fronte all’accusa di volontarismo e mancanza di sensibilità storica. Inoltre, il legame tra anarchia e destituzione nell’opera di Schürmann è rimasto finora inesplorato in tutta questa conversazione. Ciò che si impone qui per un’indagine futura è un’interrogazione dell’opera agambeniana e della tarda teoria schürmanniana della ‘singolarizzazione a venire’ e del ‘doppio legame’, termini che non possono essere messi da parte laddove si affrontino gli argomenti addotti da Agamben in relazione al ‘principio di anarchia’, anche perché essi si allontanano dall’idea di un puro presenziare e sono, come il pensiero di quest’ultimo, concepiti come una riabilitazione del primato della potenza. Questo saggio ha solo tentato di aprire, per la prima volta, il campo di tensioni e intensità che definisce questo dialogo e mostrare perché è improvvisamente Schürmann ad apparire, alla fine di Homo sacer, come un interlocutore centrale per pensare l’anarchia.


Note:
1. G. Agamben, L’uso dei corpi, “La quarta prosa”, Neri Pozza, Vicenza 2014, pp. 348-349[: «la sola possibilità di pensare una vera anarchia coincide con la lucida esposizione dell’anarchia interna al potere. L’anarchia è ciò che diventa pensabile solo nel punto in cui afferriamo e destituiamo l’anarchia del potere», N.d.C.].
2. J.-L. Nancy, “Restituer” in Politique de l’exil: Giorgio Agamben et l’usage de la métaphysique, a cura di A. Ganjipour, Lignes, Paris 2018, pp. 181-196; 194; É. Balibar, “ ‘Inoperosità’: usage et mésusage d’une négation” in ivi, pp. 17-39; 26-27.
3. S. Newman, “What is an Insurrection? Destituent Power and Ontological Anarchy in Agamben and Stirner” in Political Studies 65:2, 2016, pp. 284-299.
4. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, p. 16.
5. Ivi, p. 51[: «[i]l problema si sposta, così, dalla filosofia politica alla filosofia prima (o, se si vuole, la politica viene restituita al suo rango ontologico)», N.d.C.].
6. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, trad. e a cura di G. Carchia, “La quarta prosa”, Neri Pozza, Vicenza 2019, p. 26. Nell’opera di Schürmann si trovano due riferimenti d’approvazione a La comunità che viene di Agamben. Vedi Des hégémonies brisées, diaphanes, Zurich-Berlin 2017, p. 195, n. 48 e p.223. [Ora in Id., Le egemonie infrante, trad. e a cura di F. Guercio (in preparazione). A esergo della Parte I, cap. 7, “Il contro-tempo singolarizzante” (DHB, p. 195), Schürmann pone questa citazione di Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001 (1990), p. 55: «Qualunque è la figura della singolarità pura. La singolarità qualunque non ha identità, non è determinata rispetto a un concetto […] qualunque è una singolarità, più uno spazio vuoto», aggiungendo in nota (48) al riferimento bibliografico: «conservo questa descrizione del ‘qualunque’ [quella di Agamben] ma non tutte le connotazioni che Agamben dà al termine (specialmente, senza il rapporto all’idea)», T.d.C., da Le egemonie infrante, cit. In DHB, p. 223, Schürmann cita il seguente passo da La comunità che viene, cit., p. 10: «quodlibet ens non è ‘l’essere non importa quale’, ma ‘l’essere che comunque importa’, esso contiene, cioè già sempre un rimando al desiderare (libet), l’essere qual-si-voglia è in relazione originale col desiderio», N.d.C.].
7.
R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 75.
8. G. Agamben, “Che cos’è un comando?” in Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalistica, “Piccola Biblioteca”, Neri Pozza, Vicenza 2017, (89-112), p. 95.
9.
Ibid.
10. Cfr anche G. Agamben, “Archeologia filosofica” in Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 82-111.
11. Id., Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 97.
12. J. Derrida, De la grammatologie, Les Éditions de Minuit, Paris 1967, p. 90[: «la disparition de l’origine […] que l’origine n’a même pas disparu, qu’elle n’a jamais été constituée qu’en retour par un non-origine», T.d.C.].
13. Ivi, p. 38[: «La différance tout court serait plus ‘originaire’, mais on ne pourrait plus l’appeler ‘origine’ ni ‘fondement’, ces notions appartenant essentiellement à l’histoire de l’onto-théologie, c’est-à-dire au système fonctionnant comme effacement de la différence», T.d.C.].
14. G. Agamben, Il tempo che resta, cit., p. 97.
15. K. Attel, Giorgio Agamben: Beyond the Threshold of Deconstruction, Fordham University Press, New York 2015, p. 245:[«recourse to a sort of structural memory of the origin in the form of the trace’s ‘zero degree’ of signification, which is not pure nonsignification and which is the true unextinguishable of deconstruction», T.d.C.].
16. R. Barthes, Le Neutre. Notes de cours au Collège de France 1977-1978, Texte établi, annoté et présenté par Thomas Clerc, Seuil/IMEC, Mame à Tours 2002, p. 32[: «tentation de lever, déjouer, esquiver», T.d.C.].
17. G. Agamben, “Pardes: la scrittura della potenza” in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, (pp. 345-363) p. 350.
18. Id., Il tempo che resta, cit., p. 98.
19. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 110, n. 44. [Dopo aver menzionato in nota con approvazione dell’accoglienza nicciana riservata da parte di Gilles Deleuze alla «molteplicità dell’origine», Schürmann fa polemicamente riferimento a Derrida: «[…] Ve ne sono altri [autori, specialmente in Francia], invece, che a mala pena riescono a dissimulare il loro rimpianto dell’Uno; è il caso, si direbbe, di Derrida. […] Per Derrida, la scoperta che la ‘traccia’ non rinvia ad un Altro di cui sarebbe la traccia, è come un brutto risveglio», N.d.C.]. Sulla relazione che intrattiene Schürmann con la filosofia francese, vedi M. F. Rauch, N. Schneider, “Of Peremption and Insurrection: Reiner Schürmann’s Encounter with Foucault” in R. Schürmann, Tomorrow the Manifold. Essays on Foucault, Anarchy, and the Singularization to Come, diaphanes, Zurich 2019, pp. 151- 181 [e F. Guercio, “‘Die ungeheure Aufgabe’. Introduzione a La filosofia di Nietzsche di Reiner Schürmann” in R. Schürmann, La filosofia di Nietzsche. Note per i corsi alla New School for Social Research, trad. e a cura di F. Guercio, Edizioni Efesto, Roma 2021 (in uscita), N.d.C.].
20.
Per una esposizione germinale delle critica agambeniana della differenza, cui deve molto il taglio del mio scritto, vedi W. Watkin, Agamben and Indifference: A Critical Overview, Rowman & Littlefield, London, 2014.
21. Sul modo in cui i primi lavori di Agamben sull’estetica abbiano disposto il suo impegno con la negatività, vedi M. F. Rauch “Giorgio Agamben’s Archaeologies of Contemporary Art: Negativity, Inoperativity, Suspension” in Journal of Italian Philosophy, vol. 3, 2020.
22. G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 2008 (1982), p. 6.
23. Id, “Antropologia filosofica”, in Signatura rerum, cit., p. 110.
24. Ibid.
25. Per una fine discussione della relazione tra Agamben e Foucault al riguardo, vedi G. E. Primero, The Political Ontology of Giorgio Agamben: Signatures of Life and Power, Bloomsbury, London 2018, cap. 4.
26. G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, “La quarta prosa”, Neri Pozza, Vicenza 2007, p. 69.
27. [Ivi, p. 114, N.d.C.].
28. Ivi, p. 82.
29. Ivi., p. 80.
30. R. Schürmann, “‘What must I do?’ at the End of Metaphysics: Ethical Norms and the Hypothesis of a Historical Closure” in Id., Tomorrow the Manifold. Essays on Foucault, Anarchy, and the Singularization to Come, diaphanes, Zurich 2019, pp. (31–53), 42[:« derivations between first philosophy and practical philosophy», trad. mod.]. [Ora “‘Cosa devo fare?’ alla fine della metafisica: norme etiche e ipotesi di una chiusura storica”, in Il fendersi dell’istante. Scritti scelti di Reiner Schürmann, trad. e a cura di F. Guercio (in preparazione. 2021), T.N.d.C.].
31.
Ivi, 44[: «The arche always functions in relation to action as substance functions in relation to its accidents, imparting sense and telos to them», T.d.C.].
32.
Cfr. Id., Dai principî all’anarchia, cit., p. 92.
33. Ivi, p. 82.
34. Ivi, pp. 26-27.
35. Ivi, p. 26.
36. Id, Il Regno e la Gloria, cit., p. 156.
37. Ivi, p. 80.
38.
Ibid.
39.
Ibid.
40.
Id., Il linguaggio e la morte, cit., p. 54.
41. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, p. 32. Il ‘senza perché’ è citato da Heidegger, che lo prende in prestito da Meister Eckhart via Angelus Silesius. Vedi M. Heidegger, Der Satz vom Grund, in GA 10, a cura di Petra Jaeger, Klostermann, Frankfurt a.M. 1997, pp. 56-58. [Id., Il principio di ragione, a cura di F. Volpi, trad. di G. Gurisatti e F. Volpi, Fabbri Editori, Milano 1996/2004 (Adelphi, 1991), pp. 63-76, N.d.C.] Cfr. il commento di Schürmann nel cap. II, §4, “Vivere senza perché”, in Id., Maestro Eckhart o la gioia errante. Sermoni tedeschi tradotti e commentati, trad. di M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 75–77.
42. G. Agamben, “L’opera dell’uomo”, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, (365-376), p. 367.
43. Id., Il Regno e la Gloria, cit., p. 274.
44. Id., “L’opera dell’uomo”, cit., p. 367.
45. G. Agamben, L’uso dei corpi, cit., p. 334.
46. Ivi, p. 345.
47. R. Schürmann, Des hégémonies brisées, cit., p. 706[: «Destitution sans insurgés, transgression sans contrevenants, négation sans locuteurs, expropriation sans expropriateurs», ora in Le egemonie infrante, cit., T.N.d.C.]. Il secondo straordinario parallelo con Agamben riguarda il ruolo della voce media, introdotta da Schürmann nel suo ultimo libro come possibilità di pensare il suo concetto chiave: il ‘double bind’ [doppio vincolo], un conflitto originario tra natalità e mortalità (ivi, p. 631). Agamben – in L’uso dei corpi, p. 277 – mette in relazione la voce media alla sua nozione di uso e all’ontologia modale che quest’ultima implica.
48. G. Agamben, L’uso dei corpi, cit., p. 347.
49. Ibid.
50.
Ivi, pp. 347-348.
51.
L’esplicazione del doppio significato del termine greco archē per mezzo dei termini latini princeps e principium è un tema ricorrente nell’opera di Schürmann. Vedi, ad esempio, Dai principî all’anarchia, cit., p. 25.
52. G. Agamben, L’uso dei corpi, cit., p. 348.
53. Ibid.
54. Ivi, pp. 348-349.
55. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 537.
56. Ivi, p. 547.
57.
Id., “‘What Must I Do?’”, cit., p. 43. [“‘Cosa devo fare?’”, cit., T.d.C.].
58.
G. Agamben, L’uso dei corpi, p. 350.
59.
R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 26.
60.
Id., Des hégémonies brisées, p. 640[: «une terra deserta qui n’est plus la nôtre, une terra incognita qui ne l’est pas encore, et une transition où une collectivité entière vit en retenant son souffle», ora in Le egemonie infrante, cit., T.N.d.C.].
61.
G. Agamben, L’uso dei corpi, p. 304.

Comments

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Pantaléone
Wednesday, 10 March 2021 10:41
Infatti, se c'è una scissione tra la prassi rivoluzionaria e l'Essere diciamo piuttosto il non Essere del soggetto di l'Ekonomia! È fondamentalmente un'aporia. Essere/Ekonomia.
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Pantaléone
Wednesday, 10 March 2021 09:59
Marx sintetizza, nell'ieologia tedesca in un passaggio dedicato a Santo Max Stirner "Abbiamo parlato sopra della concezione tedesca della filosofia della storia. San Max ce ne offre un esempio lampante. L'idea speculativa, la rappresentazione astratta diventano il motore della storia, così che la storia si riduce alla storia della filosofia. Eppure il suo sviluppo non è concepito come stabilito da fonti esistenti, e ancor meno come il risultato dell'azione di rapporti storici reali, ma solo secondo la concezione esposta dai filosofi tedeschi moderni, specialmente Hegel e Feuerbach. [gist type="php"]E da queste stesse affermazioni, conserviamo solo gli elementi che possono essere utilizzati per lo scopo che ci siamo proposti e che la tradizione fornisce al nostro santo. Così la storia è ridotta a una storia di idee come la si immagina, una storia di spiriti e di fantasmi, e la storia reale ed empirica, il fondamento di questa storia di fantasmi, è solo sfruttata per dare un corpo ai fantasmi; le si danno i nomi necessari per rivestire i suoi fantasmi di un'apparenza di realtà. Nel corso di questa esperienza, il nostro santo, inoltre, dimenticando spesso il suo ruolo, scrive storie di fantasmi senza alcuna parodia.Questo modo di fabbricare la storia si trova in lui nella forma più candida, ingenua, classica.[[/gist]" Poi il movimento storico reale ha dimostrato il limite, in particolare peandant la guerra di Spagna o la CNT con l'aiuto dei repubblicani sparare il proletariato, allo stesso modo, poi il manfesto dei 16 che si schierano per la guerra ecc. Tutto ciò che può emergere dai mandarini stipulati dal sistema sono solo elucubrazioni soggettive controrivoluzionarie. La critica della trinità/monoteismo è anche lì da dettare fondamentalmente, perché sotto l'apparenza c'è l'essenza controrivoluzionaria, normale non può essere altrimenti della produzione di una classe avvolta nel cuore del sistema, la trinità di Hegel ne fa la base della dialettica, Heidegger è andato a pompare generosamente la sostanza dei presocratici per il suo Essere e tempo.

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