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I fondamenti filosofici della società virale

Nietzsche e Hayek dal neoliberalismo al Covid-19

di Paolo Ercolani (Università di Urbino)

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0

images04fusoL’emergenza sanitaria, seguita alla comparsa del virus denominato Covid- 19, ha prodotto due effetti sostanziali: il primo concerne l’esperienza traumatica, fondamentalmente a livello psicologico, di un fenomeno che ha scardinato le sicurezze dell’uomo odierno rispetto alla sua capacità di padroneggiare (o perlomeno controllare) quell’ecosistema biologico di cui è ospite e non padrone; il secondo riguarda la vera e propria crisi sociale che, in più contesti, ha rivelato fino in fondo le storture del modello neoliberista, ormai dominante nello scenario internazionale almeno a partire dalla data simbolica del 1989.

Nel primo caso, per esprimersi in termini freudiani, possiamo parlare dell’ennesima «ferita narcisistica» subìta da un soggetto, l’uomo, soventemente invaso da un irrealistico delirio di onnipotenza, che in questa situazione di emergenza sanitaria si è tradotto nell’individuazione di «verità» alternative e nella negazione dell’emergenza stessa, a fronte dell’individuazione «paranoica» di complotti e trame segrete1. Nel secondo caso, che poi è quello che qui ci interessa specificamente, possiamo cogliere l’occasione per ricostruire e al tempo stesso mettere in discussione i fondamenti filosofici su cui si fonda il liberismo. Ossia quella teoria che ha plasmato il sistema sociale e valoriale del nostro tempo, imponendo un «ordine» in cui l’umano e il fisiologico sono ridotti a strumento al servizio di scopi che non possono deragliare dal profitto economico e dal progresso tecnologico.

Si tratta di un mix, quello che somma emergenza sanitaria e socio-economica, in grado di richiamare alla mente l’«invertebrazione» della società di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega Y Gasset, ossia un contesto in cui «la massa rifiuta di essere massa – quindi di seguire la minoranza dirigente – la nazione si disfa, la società si smembra e sopravviene il caos sociale»2.

Vedremo che i due scenari della ferita narcisistica e della crisi sociale sono intimamente connessi3, ma qui concentreremo la nostra analisi sul secondo, cercando di dimostrare come (e quanto) i fondamenti filosofici del liberismo, essendosi imposti sia in termini di ideologia dominante che di prassi consolidata, hanno plasmato l’intero scenario umano e sociale del nostro tempo, fino a determinare quella che chiameremo la «società virale».

Da una società siffatta si può pensare di uscire soltanto a patto di rimettere in discussione proprio i fondamenti filosofici di cui sopra, iniziando dal recupero di un «pensiero forte» che sia in grado di riposizionare l’umano e il sociale al centro dell’agire politico (al posto dell’artificiale e dell’individuale, che oggi lo monopolizzano).

 

1. Nietzsche e l’«innocenza del divenire»

Per risalire fino all’essenza del pensiero liberista, ci avvarremo di un autore a detta di molti insospettabile, certamente al di fuori della galassia di pensatori che secondo il canone hanno delineato tale teoria. Eppure vedremo che Friedrich Nietzsche, il filosofo di cui stiamo parlando, ha esposto determinati pensieri che anticipano (e in un certo senso fondano) molti elementi della teoria neo-liberista, ossia l’evoluzione del liberismo con cui lo stesso è tornato in auge a partire dagli anni Settanta del secolo scorso.

Ciò già a partire dalla sua visione fatalistica della vita e della natura. Secondo tale visione, il mondo umano è regolato dalle disposizioni di un «fato» tanto impersonale quanto necessario, che proprio in virtù di queste caratteristiche determina un divenire «innocente».

L’espressione («innocenza del divenire»4) trova in Nietzsche una chiara applicazione alla dimensione sociale, specialmente quando gli serve a giustificare la netta divisione dell’umanità in benriusciti e malriusciti, aristocratici e plebei, signori e schiavi (con gli esponenti del secondo termine che sono nettamente più numerosi rispetto a quelli del primo)5.

Insomma, se è un destino insondabile e immodificabile ad aver stabilito fin dalla notte dei tempi la rigida e onnipresente gerarchia che connota il mondo umano, non può e non deve essere una preoccupazione dell’uomo politico (e morale) quella di darsi da fare per ridurre le disuguaglianze, lo sfruttamento o i rapporti di servaggio che necessariamente connotano la società. Secondo Nietzsche è un’utopia funesta quella di chi vuole operare fattivamente per affermare principi di uguaglianza e giustizia in nome dell’idea moralistica del bene, se non altro perché non esiste nessun «bene» da sostituire al «male»6.

Fato e natura operano in maniera impersonale e necessaria, affermando in ogni campo una gerarchia che vede il fisiologico dominio del più forte sul più debole, dell’aristocratico sul plebeo, del signore sullo schiavo. Soltanto l’illusoria e fallace morale umana vede in tutto ciò un’ingiustizia a cui trovare rimedio. A questa illusione funesta, si aggiunge per Nietzsche anche l’umana tracotanza di volersi sostituire al fato, modificandone le disposizioni secondo categorie di bene e male che appartengono alla sola ragione umana, essendo del tutto estranee all’ordine della natura che piuttosto è regolato dalla «volontà di potenza»7.

Qui arriviamo al secondo punto del pensiero di Nietzsche, che vedremo intrecciarsi anch’esso con la teoria neo-liberista. Stiamo parlando della sua considerazione della ragione umana. Quest’ultima, a detta del filosofo, da Socrate e Platone in poi rappresenta la grande illusione con cui l’umanità si è convinta di poter modificare le disposizioni del fato.

Tutti gli uomini sono forniti di ragione, secondo l’intendimento di Socrate (e quindi di Platone), e tramite il corretto uso della medesima possono pervenire a una conoscenza delle cose che permette loro di modificare l’ordine delle cose stesse. In questo modo, a parere di Nietzsche, la Grecia antica culla della filosofia usciva dalla «visione tragica» dell’esistenza, approdando a una forma illusoria e nefasta di ottimismo, secondo cui l’uomo fornito di conoscenza e di un corretto uso della stessa può pervenire a quelle verità con cui emanciparsi dalla dittatura arida e impersonale del destino eternamente ritornante (quindi immodificabile)8.

Incapace di rassegnarsi a un destino tanto tragico e privo di speranza alcuna, come peraltro era in grado di fare l’eroe rappresentato dal teatro greco antico e avrebbe dovuto fare il «superuomo» auspicato da Nietzsche (finalmente capace di «amor fati»), l’uomo occidentale da Socrate in poi si è fornito di quello strumento illusorio e salvifico per eccellenza che è la ragione. Con essa si è potuto illudere di conoscere verità che non esistono o comunque non sono alla sua portata9. Con essa ha preteso di modificare la radicale gerarchia umana tramite costruzioni fittizie e deleterie come l’uguaglianza, la democrazia, la fratellanza, il socialismo, la libertà o perfino Dio. Rispetto a quest’ultimo gli uomini sono tutti uguali in quanto fratelli e possono vedere modificato in meglio il proprio destino attraverso le preghiere, perdipiù confidando in una salvezza dopo la morte.

Tutte costruzioni, quelle della ragione, con cui l’uomo ha creduto di poter modificare e perfino padroneggiare il nulla caotico e senza senso che regola ogni cosa, a parere di Nietzsche. Soprattutto attraverso un artificio filosofico sostanziale: attribuire tramite la ragione una assurda colpevolezza all’«essere», pur di sostenere l’inemendabile e immodificabile innocenza del «divenire».

Alla teorizzazione di un ordine destinale impersonale, necessario e quindi innocente nel suo dividere nettamente l’umanità fra signori e schiavi10; alla mortificazione della ragione umana, ritenuta al tempo stesso presuntuosa e illusoria nel voler modificare gli esiti di quel medesimo ordine in un senso moralistico, Nietzsche aggiungeva una terza teoria che vedremo mostrare punti di contatto rilevanti con quanto affermato dal pensiero neo-liberista. Stiamo parlando della fisiologica e perfino opportuna conflittualità tra gli individui che compongono il mondo umano. Sì, il nostro filosofo, partendo da una concezione fortemente individualistica della realtà umana, riteneva che appunto ogni individuo fosse mosso da una «volontà di potenza» con cui dominare, prevaricare e asservire gli altri individui evidentemente in possesso anche loro di una volontà di potenza, ma in grado minore o comunque di qualità inferiore.

Volendo riassumere, possiamo dire che da questa parzialissima ricostruzione di alcuni capisaldi del pensiero nietzscheano emerge una visione secondo cui: 1) il mondo umano risulta stabilito e regolato da un ordine superiore e impersonale che il filosofo tedesco chiama «fato» (o natura, o destino); 2) la ragione umana è perlopiù un’illusione con cui l’uomo presume di arrivare a delle verità (aspetto per cui si rivela molto più utile l’istinto), ma ancora di più risulta deleteria qualora si ritenga di poterla utilizzare per modificare quanto stabilito dal fato, per affermare un ordine di «senso» che è il frutto soltanto di una razionalità e moralità del tutto umani (troppo umani!) e quindi fuori luogo; 3) il consesso sociale è costituito da individui che, al pari della natura nel suo complesso, sono pervasi da un istinto essenziale e necessitante (volontà di potenza) che pone sotto il registro fondamentale della conflittualità ogni loro rapporto, in vista dell’affermazione di un potere, di interessi e benefici esclusivamente individuali che il più forte vuole riservarsi a spese del più debole11.

Ora vediamo in che misura questi tre tratti portanti trovano un intreccio essenziale con la teoria liberista e, in particolare, con l’autore contemporaneo che più l’ha incarnata e rifondata: Friedrich von Hayek.

 

2. L’«ordine spontaneo» di Hayek

L’economista liberista torna utile al proposito del nostro intendimento poiché egli è stato anche un filosofo, quindi un autore che nel ridefinire i termini del liberismo e di una società improntata sull’ordine del mercato e della logica mercantile, ha cercato dei fondamenti teorici ben definiti con cui sostanziare e giustificare la propria visione.

Vediamo nello specifico quali sono questi fondamenti che, a nostro avviso, si intrecciano con le argomentazioni di Nietzsche analizzate nel paragrafo precedente.

Innanzitutto la visione complessiva che concerne l’ordine delle cose: pur se Nietzsche si concentrava su un principio che opera sull’esistenza nel suo complesso (il Fato impersonale e imperscrutabile), mentre Hayek ne individuava uno che sembra fare riferimento più alla società politica nel suo specifico, appare evidente che la sua teoria dell’«ordine spontaneo» non si discosta più di tanto dall’intendimento del filosofo tedesco.

Sì, malgrado questo ordine spontaneo risulti identificarsi con il mercato (quindi con un’istituzione terrena, materiale per così dire), le sue caratteristiche sono quelle di una forza immanente su cui l’individuo non può operare alcuna influenza significativa, trovandosi semmai a esercitare il ruolo di ingranaggio di un meccanismo imperscrutabile, imprevedibile e cogente nei suoi esiti finali12. L’unica differenza, è che questo ordine spontaneo, in ossequio alla visione provvidenzialistica affermata già dal padre del liberalismo economico (Adam Smith), garantisce comunque per Hayek dei risultati che vanno a incrementare il benessere complessivo della società, tanto in termini di libertà che di profitto13.

Ma in ogni caso, allo stesso modo in cui il «fato» individuato da Nietzsche non aveva colpe nel suo stabilire una rigida gerarchia fra gli esseri viventi, così l’ordine spontaneo di Hayek, in quanto impersonale e normato da regole generali di condotta, era ritenuto dallo stesso economista austriaco «innocente» nel suo produrre vincitori e vinti all’interno di quella dinamica spesso feroce che è l’antagonismo economico e sociale14.

All’interno dell’ordine spontaneo, insomma, il ruolo degli individui è limitato a un agire razionalmente finalizzato alla realizzazione dei propri scopi individuali, che per Hayek coincidono in buona sostanza con quelli economici, all’interno di un’ignoranza di fondo rispetto al funzionamento del meccanismo nel suo complesso. In virtù di ciò, lo stesso individuo può limitarsi a determinare i propri interessi specifici (nonché a perseguirli quanto più possibile slegato dai lacci del governo e della legge), ma non è in grado di mettere in discussione o modificare l’ordine economico stesso, che è «spontaneo» proprio perché regolato da un’entità impersonale e superiore che garantisce i risultati sperati dai singoli, in maniera direttamente proporzionale a quanto la ragione umana e politica riconosce di doversi astenere dal costruire schemi con cui pretendere di modificare il medesimo ordine del mercato.

Qui emerge con chiarezza la differenza di valore ontologico che Hayek assegna all’ordine spontaneo impersonale di contro alla ragione umana individuale: al primo è riconosciuta la facoltà di determinare scopi, valori ed esiti imperscrutabili della concorrenza fra gli individui; alla seconda è concessa la possibilità di partecipare all’agone concorrenziale del mercato, limitandosi a determinare e a cercare di perseguire le azioni e gli obiettivi esclusivamente del singolo individuo, senza abbandonarsi alla «presunzione fatale» di «costruire» degli ordini alternativi a quello del mercato o anche solo di modificarne dinamiche e finalità (magari in un senso di maggiore equità)15.

Ciò perché soltanto l’ordine immanente e spontaneo del mercato è onnisciente e impersonale (caratteristica, quest’ultima, che garantirebbe, secondo Hayek l’imparzialità rispetto agli individui in concorrenza), mentre la ragione individuale è personale (quindi parziale) e soprattutto fisiologicamente «ignorante»16 rispetto alle dinamiche, al funzionamento e agli scopi del mercato nel suo complesso.

Risulta piuttosto arduo non considerare, anche qui, i notevoli punti di contatto tra la visione di Nietzsche e quella di Hayek: in entrambi i casi, infatti, lo statuto ontologico e conoscitivo della ragione, insieme alle sue possibilità fattuali, risultano oltremodo sminuiti e mortificati di fronte alla cogenza di un ordine superiore (il fato in un caso, l’ordine spontaneo nell’altro) le cui disposizioni sono imperscrutabili e i cui esiti non si deve neppure tentare di orientare per mezzo dell’umana facoltà razionale.

Insomma, così come Nietzsche era partito dal dimostrare tutta la fallacia e l’illusorietà della ragione (rispetto all’istinto e come reazione al positivismo del tempo), per poi deprivarla del suo statuto di facoltà euristica nonché della sua capacità di modificare l’ordine strettamente gerarchico imposto al mondo umano e naturale dal fato; allo stesso modo Hayek aveva teorizzato l’ignoranza della ragione umana, incapace di conoscere e quindi guidare tutte le intenzioni, gli interessi e le transazioni che avvengono all’interno dell’agone sociale (specialmente del mercato), deducendone che vanno lasciati alle determinazioni naturali di un ordine superiore (quello «spontaneo») gli esiti imperscrutabili della concorrenza fra i singoli interessi. Ciò significava, tradotto in termini pratici, che spetta al mercato e ai suoi meccanismi impersonali di stabilire chi saranno i vincitori e gli sconfitti della lotta naturale per il profitto, mentre si deve limitare quanto più possibile l’intervento della ragione politica (si legga: del governo) se si vuole evitare che quell’intervento (anche e soprattutto se rivolto a un’illusoria e nefasta affermazione della «giustizia sociale»17) produca un potere illimitato dello Stato e quindi una società liberticida. Il tutto sulla base di un fondamento teorico «evoluzionistico» espresso con mirabile chiarezza già da Herbert Spencer alla fine dell’Ottocento, secondo cui «le società non sono costruite, ma crescono (societes are not made, but grow18.

Qui possiamo giungere al terzo aspetto comune, fra le macro-questioni del pensiero di Nietzsche e di Hayek, su cui vogliamo concentrare la nostra attenzione.

Sì, perché dopo la comune individuazione di un’innocenza del divenire (per cui le determinazioni del fato o dell’ordine spontaneo non possono essere modificate per il tramite della ragione), che di fatto giustifica e perfino difende i risultati di gerarchia, disuguaglianze e iniquità presenti all’interno dell’umanità come anche della società, a emergere con nettezza è un ulteriore dato di fondo che caratterizza la stessa società in seguito alla visione dei nostri due autori.

Ossia il fatto di essere abitata da individui che, sia in virtù della volontà di potenza che regola la natura, sia dello statuto di homo oeconomicus che appartiene a tutti i soggetti, si ritrovano a essere mossi da un preponderante istinto antagonistico e competitivo, ampiamente giustificato tanto da Nietzsche quanto da Hayek seppure in ambiti e con modalità differenti.

In sintesi: secondo Nietzsche l’esistenza stessa è pervasa in ogni suo ambito e soggetto nonché regolata dal conflitto permanente per il dominio del più forte sul più debole (dell’aristocratico sul servo), mentre secondo Hayek si tratta di garantire le condizioni più adatte allo sviluppo di una «società competitiva»19, in cui gli individui possano esprimere il proprio istinto fisiologico di antagonismo in vista dell’ottenimento dei propri scopi (a cominciare dal profitto economico).

Ciò è vero fino al punto che entrambi, di fatto, pur nelle reciproche differenze sono accomunati dalla condanna ferma e convinta di quelle idee e istituzioni che, a vario titolo, possono incaricarsi di limitare il conflitto umano e sociale o quantomeno limitarne gli esiti a tutela delle categorie più deboli: la ragione politica, il governo (lo Stato), la democrazia rappresentativa, l’ideale dell’uguaglianza, la giustizia sociale, la morale (religiosa o meno), la cooperazione.

Eliminando, o comunque riducendo ai minimi termini l’influenza delle entità appena elencate, secondo Nietzsche si poteva giungere a un’umanità di «superuomini» almeno quanto, a parere di Hayek, si poteva recuperare una «società libera», finalmente depurata da quelle contaminazioni socialiste, costruttiviste e interventiste che hanno gradualmente corrotto le nazioni liberali e capitaliste almeno a partire dalla fine del XIX secolo.

 

3. La società virale

La tradizione di pensiero che vede il consesso umano dominato da una diffusa «lotta per l’esistenza», in cui un’entità immanente ma superiore (in genere chiamata «natura») svolge la funzione di «coordinare» istinti, propositi e azioni degli individui (perlopiù ridotti a ingranaggi di quel meccanismo superiore che ne definisce scopi e risultati), ha origini che rimandano a un periodo storico di poco precedente a quello di Nietzsche, ma di cui quest’ultimo rappresenta il punto al tempo stesso più estremo e più alto.

Stiamo parlando della corrente di pensiero conosciuta con il nome di «darwinismo sociale» e, in genere, di quegli autori che hanno ritenuto di applicare sul piano sociale le teorie biologiche di Charles Darwin (talvolta prima che lo stesso le elaborasse conducendole alla fama)20.

Non è questa la sede per approfondire tale argomento, mentre è sufficiente considerare che la visione «naturalistica» adattata alle dinamiche sociali costituisce il presupposto fondamentale per l’affermazione del liberismo.

Sì, nella misura in cui esso propende per un contesto umano e sociale in cui siano limitate al massimo grado le funzioni della politica e dello Stato (cioè di quelle dimensioni in cui ai vari livelli ricopre un ruolo fondamentale la ragione), appare evidente il suo voler affermare uno scenario in cui a svolgere un ruolo preponderante siano delle entità «naturali», spontanee, in grado di coordinare gli interessi e le azioni degli individui in «lotta» (per l’esistenza o per il profitto) senza che la ragione politica intervenga con i suoi impedimenti e controlli ritenuti tanto artificiali quanto deleteri (si sta parlando della legislazione sociale)21.

Le dicotomie istituite dalla teoria liberista sono chiare e nette: spontaneo/costruito, naturale/artificiale, evolutivo/razionale. Considerando il primo termine come quello positivo, tali dicotomie vengono tradotte dal piano epistemologico su quello più strettamente politico: mercato/stato, libera concorrenza/legislazione, libertà/democrazia, individuo/società.

Laddove era la natura a svolgere la funzione di coordinatrice più o meno benigna delle azioni e delle sorti degli individui in lotta (darwinismo sociale), è stato poi il mercato (altrimenti detto «ordine spontaneo») a vedersi riconosciuto il ruolo di istituzione atta a coordinare e al tempo stesso garantire il libero agire degli individui in competizione per l’acquisizione di un profitto economico.

Ma ciò che è avvenuto non concerne soltanto un passaggio epistemologico (il principium individuationis spostato dalla natura all’ordine spontaneo), bensì anche e forse soprattutto un passaggio di matrice etica: quella medesima «innocenza» che veniva riconosciuta alla natura nel produrre soggetti più forti o più deboli (quindi più o meno in grado di adattarsi all’evoluzione e sopravvivere alla lotta per l’esistenza), infatti, è stata trasferita all’ordine spontaneo e agli esiti da questo prodotti rispetto alla vittoria o alla sconfitta degli individui nell’agone economico.

In questo senso l’ordine spontaneo non assume soltanto lo statuto di «innocente», ma esattamente come la natura nella visione biologista ad esso viene riconosciuta anche l’«imparzialità» rispetto ai soggetti che operano all’interno e sotto di esso22.

Se la sua innocenza esclude che lo si possa sottoporre a dei giudizi di matrice etica o morale, la sua imparzialità impedisce ogni intervento esterno su quell’ordine del mercato: la ragione politica, il governo, la legislazione sociale, infatti, vengono considerati dagli autori liberisti delle distorsioni rese possibili da quella costruzione illusoria della ragione umana che chiamiamo «democrazia». Insomma, un modo e un pretesto perché una maggioranza politica espressione di interessi comunque definiti e parziali intervenga sull’ordine del mercato per orientarlo a beneficio di questa o quell’altra classe sociale23.

Sulla base di questo ragionamento, quindi dell’assunto esoterico per cui «nessuna legge umana ha valore se è contraria alle leggi di natura»24, ogni intervento della ragione umana sulla natura, come anche della politica sull’economia, viene tacciato di parzialità e quindi di colpevolezza, anche se formalmente destinato alla tutela del bene comune, della giustizia sociale e alla difesa dell’umano rispetto alla pervasività sempre più invadente del tecnologico e dell’artificiale.

In questo trapasso dalla visione naturalistica del darwinismo sociale a quella evoluzionistica (o spontaneistica) della teoria liberista – passando per il tramite di Nietzsche, che al tempo stesso ha rappresentato l’apice della prima e il presupposto fondamentale per l’affermarsi della seconda – abbiamo assistito al ritorno in auge del modello liberista (neo-liberismo) a partire dagli ultimi anni del secolo scorso.

Il ritorno prepotente del pensiero liberista si è contemporaneamente tradotto nell’attuazione pratica di misure e politiche ad esso ispirate: in questo contesto abbiamo assistito allo smantellamento dello stato sociale, dei servizi a tutela delle popolazioni, con il ritorno a un ordine dettato esclusivamente dalle logiche tecno-finanziarie che tutelano e promuovono soltanto ciò che produce profitto economico e progresso tecnologico. Con buona pace della dimensione umana e ambientale, in tutte le sue componenti (culturale, cognitiva, relazionale, affettiva, sanitaria, etc.) ridotta al ruolo di strumento in vista dell’ottenimento di finalità e scopi che sono quasi esclusivamente quelli dettati dall’ordine «spontaneo» del mercato.

Non è un caso che lo scenario politico-sociale imposto dal neo-liberismo, in cui ci troviamo a vivere oggigiorno, presenta notevoli punti di contatto con la società occidentale di fine ottocento, quando sia culturalmente che politicamente dominavano le teorie (e le misure concrete) ispirate al social- darwinismo e al primo liberismo: forti disuguaglianze sociali, retrocessione dei diritti e delle tutele a favore delle classi sociali (nonché delle categorie umane) più deboli, impoverimento della cultura e dell’istruzione pubbliche, forte indebolimento della sanità pubblica e del «pubblico» in genere. A tutto questo aggiungiamo la peculiarità del nostro tempo, resa possibile in buona parte dalla comparsa di nuove e pervasive tecnologie mediatiche: l’abbassamento drammatico ed esponenziale del livello cognitivo, culturale, relazionale ed affettivo dell’opinione pubblica, che nel sistema liberale di stampo democratico era deputata al controllo ed eventualmente alla sostituzione del potere vigente25.

È in un contesto siffatto che l’umanità globalizzata all’insegna dell’ordine di mercato si trova ad affrontare l’emergenza del Covid-19, questo virus pandemico che ha finito per mettere sotto una luce ancora più evidente ciò che avrebbe dovuto esserlo per tutti coloro che non fossero stati mossi da pregiudizio o impediti nel comprendere: lo statuto «virale» della società dominata dall’ideologia neo-liberista e dal sistema tecno-finanziario che ne rappresenta la naturale applicazione.

Sulla scia delle virtù armonizzanti e onnipotenti del proprio ordine spontaneo, infatti, il sistema liberista procedeva nella convinzione delle «magnifiche sorti e progressive» che gli si erano spalancate con la caduta del suo avversario storico, quel socialismo che, quantomeno, con le sue istanze aveva contribuito ad imporre tutta una serie di limiti e restrizioni al capitalismo selvaggio.

Con il 1989, quel freno e controaltare è venuto irreparabilmente meno, lasciando campo aperto al sistema neo-liberista di dispiegare in maniera illimitata i propri dogmi.

Il risultato è stato quello di una «società virale», affetta da una serie di patologie che l’emergenza sanitaria di questo tempo ha soltanto slatentizzato con forza ancora più cogente, mostrando uno scenario in cui i pochi super- ricchi traggono clamorosi benefici economici perfino durante la crisi che ha messo a disagio o addirittura ridotto in povertà milioni di persone in tutto il mondo26.

Bastino soltanto due esempi fra i più rimarchevoli: da una parte, in merito agli effetti che esso ha prodotto, il virus ha scoperchiato la realtà di una società sempre più «gerarchica» e «disuguale», in cui è stato smantellato lo stato sociale (con i servizi alla popolazione annessi) sulla base dei diktat dogmatici provenienti dalle istituzioni finanziarie sovranazionali che non devono rispondere delle proprie decisioni a nessun popolo ma, in compenso, sono perfettamente in grado di imporre l’agenda politica ai governi più o meno democraticamente eletti. In questo senso, è fin troppo agevole riferirsi alla crisi degli ospedali pubblici, che a fronte dei tagli feroci imposti alla sanità da almeno un ventennio a questa parte non sono riusciti a prestare assistenza efficace a molte persone. Questo stato di cose ha fatto sì che sono state soprattutto le classi sociali più deboli a pagare in termini sanitari la situazione generata dal Covid. Ma il punto centrale è questo: il virus pandemico non ha dato il via a una situazione nuova, quantomeno non sul piano sociale, bensì ha mostrato in tutta la sua brutalità una situazione di ingiustizia sociale che ormai si è estesa a livello mondiale (coinvolgendo anche i paesi ricchi o benestanti) e che è il frutto dell’applicazione incontrastata dei dogmi e valori del liberismo27.

Ciò, naturalmente, non soltanto all’interno dei soli stati occidentali. Considerata in un’ottica globale, infatti, non v’è dubbio sul fatto che a subire i costi sociali e umani più drammatici siano stati i paesi poveri, in cui il numero di morti ha ormai raggiunto livelli impressionanti e probabilmente destinati ad aumentare.

Non che sia lecito attribuire tutte le responsabilità al mercato, ovviamente, ma di certo il combinato disposto dell’affidarsi all’ordine spontaneo dell’economia finanziaria e del parallelo indebolire (quando non smantellare) molte delle conquiste e delle tutele sociali ottenute dalla ragione politica lungo secoli di storia, ha avuto un suo peso notevole nel determinare la drammaticità degli eventi conseguenti al Covid-19.

A questo si può aggiungere il secondo esempio, che per così dire concerne le cause che possono aver prodotto il virus: ci riferiamo agli aspetti più incontrollati e selvaggi di un sistema produttivo ormai quasi del tutto incapace di tenere conto degli effetti generati sull’ecosistema ambientale dalla sua furia di profitto.

Sì, proprio la società virale di cui abbiamo detto può essere all’origine di sconvolgimenti tali, nell’ecosistema ambientale, da creare quelle condizioni che favoriscono la comparsa e la proliferazione di virus sconosciuti e mortali, senza contare che l’emergenza sanitaria pandemica ha finito col distogliere l’attenzione dalla lotta al cambiamento climatico proprio nel momento in cui si stava cominciando a riconoscerlo come una priorità globale28.

Tutto ciò ci fornisce la misura della pervasività di cui ormai è capace il sistema neoliberista: ad esso dobbiamo l’indebolimento di quel tessuto sociale in grado di tutelare i più deboli nel caso, per esempio, di un’emergenza sanitaria diffusa; ma sempre ad esso potremmo dover imputare perfino la «colpa» per la comparsa di quella stessa emergenza sanitaria, in una sorta di circolo vizioso che, specie se pensiamo all’inquinamento del pianeta e agli effetti deleteri che tale inquinamento produce, dovrebbe farci altamente preoccupare per le sorti stesse dell’umanità.

Prendendo consapevolezza di un ordine tutt’altro che «innocente», insomma, emerge con nettezza la necessità di ripensare proprio i fondamenti filosofici del sistema neoliberista, sostituendoli con altri di cui possa avvalersi un progetto politico che intenda proporre un modello sociale alternativo.

Non è ovviamente questa la sede per approfondire analiticamente un discorso del genere, ma sicuramente, anche a bilancio di quanto osservato nella comparazione fra Nietzsche e Hayek, è possibile accennare alcuni punti sostanziali sulla base dei quali pensare un sistema filosofico alternativo. Innanzitutto la visione «religiosa» di un ordine spontaneo (o fato) le cui determinazioni, soprattutto in ambito sociale, comportano un’accettazione rassegnata da parte dell’umano, andrà sostituita con una «razionale», in cui all’uomo sia riconosciuta la possibilità (e persino la doverosità) di intervenire in vista di un superamento delle contraddizioni oggettive e, quindi della ricerca di un modello sociale meno conflittuale e più equo. In secondo luogo, occorre recuperare un «pensiero forte», che partendo da una considerazione equilibrata della «ragione» («fallibile» ma non irrimediabilmente «ignorante») sia in grado di pensare le contraddizioni del tempo presente e proporre visioni e progetti con cui ritornare a controllare il mercato, subordinando la dimensione finanziaria a quella umana e ambientale, come anche sostituendo gli imperativi categorici del profitto e del progresso tecnologico con quelli dello sviluppo e della tutela dell’umanità e dell’ ecosistema che ne rende possibile la vita.

In terzo luogo, sarà fondamentale ripensare il senso stesso della convivenza umana e di quella sua forma organizzata che chiamiamo società: in tale direzione, occorrerà uscire dalla visione esclusivamente egoistica e antagonistica che la filosofia neoliberista ci ha fornito rispetto agli individui che la abitano (e al loro modo di entrare in relazione), per tornare a riscoprire il valore della cooperazione e di un agire collettivo anche a beneficio e a tutela del bene comune, rappresentato tanto dallo Stato (nell’intendimento di «res publica») quanto dall’ecosistema ambientale.

Volendo approssimare un bilancio filosofico, possiamo dire che la situazione storica attuale suggerisce un recupero di Hegel, autore non a caso esecrato sia da Nietzsche che da Hayek.

Ma soprattutto filosofo che, pur accettando realisticamente gli effetti negativi prodotti dal capitalismo (a cominciare dalla progressiva disuguaglianza fra grande ricchezza e grande povertà), ritenendoli tanto dolorosi quanto inevitabili, promuoveva tuttavia un sistema di governo che sottoponesse l’«animale selvaggio» del «cieco» meccanismo economico a «un continuo e rigido dominio e addomesticamento»29. In attesa dell’impresa finora fallita di individuare un sistema alternativo al capitalismo, si rivelerà fondamentale riuscire quantomeno a contenerne gli effetti più ciechi e deleteri. La potenziale gravità di quegli effetti, ci viene brutalmente squadernata davanti agli occhi dalla società virale del tempo presente, quello in cui mai come oggi sembra essere a rischio l’umanità in quanto tale.


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Coronavirus: la dégradation de la biodiversité en question, “Le Monde”, 4 avril.
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Billionnaires’ wealth rises to $10.2 trillion amid Covid crisis, “The Guardian”, 7 October.
NIETZSCHE, FRIEDRICH, KSA
Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, de Gruyter, Berlin/New York 1967-1977 (Deutscher Taschenbuch Verlag, Munich 1980).
ID., OPERE
Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1967 sgg. Tutte le edizioni sono curate da Giorgio Colli e Mazzino Montinari e vengono citate con la sigla dell’edizione e della singola opera (vengono utilizzate le sigle canoniche dell’edizione tedesca), nonché dal numero dell’aforisma. In alternativa, la sigla dell’edizione è seguita dal numero del tomo, del volume, della pagina e/o dell’aforisma.
ID., VDP
La volontà di potenza (1906), a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 1992.
ORTEGA Y GASSET, JOSÉ, 1921
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PIKETTY, THOMAS, 2013
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The Wealth of Nations, in The Glasgow Edition of the Works and Correspondence of Adam Smith, 2 voll., Liberty Fund, Indianapolis 1984.
PIETTRE, ANDRÉ, 1966
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Social Statics, or the Conditions Essential to Human Happiness Specified, and the First of Them Developed, Gregg International, Westmead (Farnborough) 1970.
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ID., 1860
The Man vs. the State (with four essays on politics and society), Penguin Books, Harmondsworth 1969. ID., 1864-1867
The Principles of Biology, Williams & Norgate, London. ID., 1873
The Study of Sociology, Henry King, London.

Note
1 Significativa la descrizione che uno studioso contemporaneo di psichiatria fornisce del «disturbo paranoide di personalità»: la persona che ne è affetta mostra un’ossessiva e costante ricerca dei significati oscuri, la verità nascosta dietro il significato apparente di una situazione. Secondo questa persona, l’ovvio, il superficiale e l’apparente non fanno altro che mascherare la realtà, e la sua incapacità di rilassarsi, congiunta alla mancanza di flessibilità, la spinge verso convinzioni tanto rigide e salde quanto irreali (e irrealistiche) (GABBARD 2014, pp. 399-401).
2 ORTEGA Y GASSET 1921, v. 3, pp. 93 e 103.
3 Crediamo non sia un caso che lo storico della medicina Charles Rosenberg abbia avanzato recentemente questa considerazione: «Ogni epidemia conosciuta è stata inquadrata e spiegata non semplicemente come una questione di salute pubblica, ma anche come una crisi morale» (in KARSTEV 2020).
4 Nietzsche era assertore dell’«innocenza di ogni esistenza», dell’«innocenza di ogni azione» come anche di ogni «opinione» e, naturalmente del «divenire»: «È possibile svellere dai suoi cardini la giustizia mondana – con la teoria della piena irresponsabilità e innocenza di tutti: ed è stato già fatto un tentativo in ugual direzione proprio in base all’opposta teoria della piena responsabilità e colpevolezza di tutti [palese l’allusione del filosofo al cristianesimo, n.d.a.]». «Da quanto tempo ormai mi sforzo di dimostrare la perfetta innocenza del divenire (Unschuld des Werdens)!» (NIETZSCHE KSA, M, § 56; v. XII, p. 386; WS, § 81 e v. XI, p. 553).
5 Il filosofo era autore di una durissima requisitoria contro coloro che chiamava gli «uomini del ressentiment», gli invidiosi delle fortune e del benessere altrui, «esseri fisiologicamente e sciaguratamente bacati», un’«intera terrestre genia tremante di sotterranea vendetta, inesauribile, insaziabile nei suoi accessi contro i felici»: il loro obiettivo principale, avendo subìto l’onta della sconfitta esistenziale, consiste nell’unica e perversa rivincita possibile, quella di avvelenare la «coscienza dei felici, così che questi comincino un giorno a vergognarsi della loro felicità e si dicano forse tra loro: essere felici è un’infamia! Esiste troppa miseria!». Insomma, quel motivo dell’innocenza delle istituzioni tanto caro alla tradizione liberale, conosceva in Nietzsche un processo di radicalizzazione che lo conduceva alla guerra teorica e verbale contro i sostenitori di una questione sociale (a partire da socialisti e cristiani): essi sono «animati dalla volontà di eliminare il maltempo, magari per compassione verso la povera gente» (NIETZSCHE KSA, GM, § 14 e EH, Perché io sono un destino, § 4).
6 Nietzsche definiva la pretesa tutta umana di distinguere bene e male come «il più immodesto di tutti i riposti pensieri», poiché in realtà è l’uomo stesso a riconoscersi come misura unica del giudizio morale (NIETZSCHE OPERE, M, VI,I, pp. 70-1). Del resto, Non sono male e bene i motori dell’agire umano, essi si configurano semmai alla stregua di alibi intellettuali e morali, bensì la ricerca del «godimento di sé» (NIETZSCHE OPERE, MA, IV,II, § 103).
7 «L’uomo è essenzialmente appropriazione, violazione, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione durezza, imposizione delle proprie forme o, almeno, nel più temperato dei casi, sfruttamento […] Lo “sfruttamento” non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita» (NIETZSCHE OPERE, JGB, VI,II, § 259).
8 Del resto, è per il tramite della nostra ragione che «noi cerchiamo inconsciamente i principi e le teorie che sono adatti al nostro temperamento, sicché da ultimo sembra siano stati i principi e le teorie a creare il nostro carattere e a dargli sostegno e sicurezza; mentre è andata proprio nel modo inverso. Del nostro pensare e del nostro giudicare si fa in seguito, così sembra, la causa del nostro essere: ma in realtà è il nostro essere la causa del fatto che pensiamo e giudichiamo così e così. E che cosa ci induce a questa quasi inconscia commedia? L’indolenza e la comodità e, non da ultimo il desiderio della vanità di essere trovati coerenti da cima a fondo, uniformi nell’essere e nel pensare: giacché ciò procura rispetto, dà fiducia e potenza» (NIETZSCHE OPERE, MA, IV,II, § 608).
9 Per esempio nella misura in cui riconosceva che tutti gli uomini possiedono la «ragione», facoltà con cui modificare le disposizioni del fato, Socrate veniva definito da Nietzsche in maniera sprezzante come il «prototipo dell’ottimista teoretico» (NIETZSCHE KSA, GT, I, p. 100).
10 È cosa nota che per il filosofo tedesco l’umanità si divideva in una grande massa di «malriusciti», a cui si contrappone un esiguo numero di individui «benriusciti», di spiriti liberi, di uomini superiori anche e soprattutto nella misura in cui riescono a rifiutare la finzione della morale: «La maggioranza degli uomini non ha diritto all’esistenza, ma costituisce una disgrazia per gli uomini superiori» (NIETZSCHE VDP,
§ 872, p. 480), a cui corrisponde questo frammento postumo: «Ai malriusciti io non riconosco neppure il diritto [all’esistenza]. Ci sono anche popoli malriusciti» (NIETZSCHE KSA, XI, p. 102).
11 «Nei confronti dello scarto e del rifiuto della vita c’è solo un dovere, distruggere; essere qui compassionevoli, volere qui conservare a tutti i costi, sarebbe la forma suprema dell’immoralità, la vera e propria contronatura, l’inimicizia mortale contro la vita stessa», scriveva il filosofo tedesco in Così parlò Zarathustra (NIETZSCHE KSA, ZA, III, Di tavole antiche e nuove, § 10; XIII, pp. 611-12), mentre in altri luoghi affermava nettamente che «ai malriusciti non riconosco neppure il diritto all’esistenza», «I deboli e i malriusciti devono perire […] e a tale scopo si deve essere loro anche d’aiuto» (NIETZSCHE KSA, XI, p. 102 e AC, § 2). Cfr. anche sopra, la nota vii, per quanto concerne lo scenario umano come teatro di una competizione fisiologica e perfino crudele fra i singoli individui.
12 Non a caso il filosofo austriaco promuoveva un «razionalismo evoluzionista (o critico)», in quanto distinto dal «razionalismo costruttivista (o ingenuo)»: il razionalismo evoluzionista comprende che un ordine spontaneo [si legga: il mercato] è un «ordine complessivo funzionante che nessuno ha deliberatamente progettato, un ordine che si è formato da sé, indipendentemente dalla conoscenza, e spesso contro la volontà stessa dell’autorità [si legga: del governo]; un ordine che estende il controllo individuale dei fatti al di là del campo dell’organizzazione deliberata, e che non si basa sul fatto che gli individui obbediscono a una certa volontà, ma sul fatto che le loro aspettative si adattano vicendevolmente [si interpreti: grazie al gioco libero e spontaneo dei prezzi, nonché della domanda e dell’offerta]» (HAYEK 1982, v. 1, pp. 118-9). Questo ordine spontaneo, peraltro, nelle «società libere» coordina tutte le attività e tutti gli individui, integrando al proprio interno tutte le istituzioni sociali (famiglia, fattoria, industria, corporazione, etc.), compreso lo stesso governo (HAYEK 1982, v. 1, p. 46).
13 Hayek definiva il mercato come un sistema di coordinamento delle azioni individuali che, seppure al prezzo di costanti delusioni di alcune aspettative, assicura il più alto grado di corrispondenza tra le aspettative e l’effettivo impiego di abilità e conoscenze da parte di molteplici membri della società (HAYEK 1982, v. 2, p. 107). 14 «Evolution cannot be just», proclamava HAYEK (1988, p. 74) criticando coloro che volevano fattivamente «assumere il controllo dell’evoluzione (to wrest control of evolution)», così da porre rimedio ai risultati «moralmente oscuri» prodotti dal processo evolutivo. L’economista austriaco si ispirava palesemente al padre del liberalismo economico, quell’ADAM SMITH (1776, v. II,1, p. 400) che, parlando del meccanismo naturale della «mano invisibile», sosteneva che ogni individuo, perseguendo il proprio interesse, senza volerlo contribuisce alla ricchezza dell’intera nazione.
15 È significativo che Hayek scrivesse, precisando di farlo a fronte di quaranta anni di studio, che «noi dobbiamo spogliarci dell’illusione di poter deliberatamente creare il futuro dell’umanità, come affermato dalla tipica tracotanza propria della sociologia socialista» (HAYEK 1982, v. 3, p. 152).
16 «L’idea di un uomo che deliberatamente costruisce la sua civiltà deriva da un falso intellettualismo che considera la ragione umana come qualcosa al di fuori della natura e provvista di una capacità intellettiva e razionale indipendente dall’esperienza. Ma lo sviluppo della mente umana è parte dello sviluppo della società; e lo stato della civiltà in qualsiasi momento determina la portata e le possibilità di fini e valori umani» (HAYEK 1960, p. 24).
17 Secondo Hayek l’ideale stesso di giustizia sociale è insensato, in quanto in un sistema catallattico «in cui ogni individuo può usare liberamente le proprie conoscenze per i propri fini il concetto di “giustizia sociale” è necessariamente vuoto e privo di significato, perché in esso non vi è alcuna volontà che possa determinare i redditi relativi delle varie persone, o evitare il fatto che dipendano in parte dal caso. Si può dare un significato all’espressione “giustizia sociale” soltanto nel caso di un’economia amministrata o sottoposta a “comandi” (come nell’esercito), dove si ordina agli individui cosa devono fare» (HAYEK 1982, v. 2, p. 69). Per un approfondimento sul rifiuto hayekiano della giustizia sociale, rimandiamo a ERCOLANI 2006, cap. VII, mentre per la conseguente rubricazione del medesimo autore fra i liberali reazionari si veda ERCOLANI 2008. Per una ricostruzione critica del liberalismo si veda ERCOLANI 2013.
18 SPENCER 1860, p. 195 e 1851, p. 263.
19 Lo stesso Hayek definiva «società competitiva» quella in cui non conta tanto «come trovare le persone che meglio sanno, ma piuttosto quali sono le modalità istituzionali necessarie affinché le persone ignote che posseggono conoscenze specifiche adatte a un particolare fine possano essere attratte a tale fine» (HAYEK 1948, p. 95). Da qui emerge una concezione della società come semplice «scenario» appositamente approntato per permettere a soggetti in competizione di realizzare i propri scopi individuali.
20 È per esempio il caso di Herbert Spencer, il quale riteneva che il cammino dell’umanità verso la «perfezione» dovesse passare inevitabilmente per l’eliminazione dei deboli da parte dei forti. Si tratta dei decreti di una «grande e lungimirante benevolenza»: «Può sembrare crudele che vedove e orfani siano lasciati a lottare per la vita o per la morte (to struggle for life or death). Tuttavia, se considerate non isolatamente ma in connessione con gli interessi dell’universale umanità, queste dure fatalità appaiono piene della più alta beneficenza, della stessa beneficenza che porta a prematuri sepolcri i figli di genitori malati e presceglie gli abbattuti, gli intemperanti e i debilitati come vittime di un’epidemia». Del resto, fa parte del «processo purificatore» che la società espella i suoi membri malati, inetti, ritardati, incapaci, sleali etc. Insomma, ogni sforzo della natura è volto a fare piazza pulita di questi soggetti per fare spazio ai migliori (SPENCER 1851, pp. 322 sgg., 324 e 379). Di un certo significato il fatto che stiamo parlando del medesimo autore che riteneva che la vita (quindi la natura), in tutte le sue manifestazioni, consiste nella «coordinazione delle azioni» (SPENCER 1852, p. 472; cfr. ID. 1864-1867, v. 1, pp. 60 sgg.).
21 «Nessuna legge umana ha valore se è contraria alle leggi di natura», scriveva Herbert SPENCER nel suo The Study of Sociology (1873, p. 207). In questo senso comprendiamo anche le affermazioni del padre dell’economia, Adam Smith, quando scriveva che «lo sforzo naturale (natural effort) di ciascun individuo in vista del miglioramento della propria condizione, qualora lo si lasci esercitare con libertà e sicurezza, è un principio così potente che basta da solo, e senza alcun aiuto, non soltanto a portare la società alla ricchezza e alla prosperità, ma a superare le centinaia di inopinati impedimenti con i quali la follia delle leggi umane troppo spesso intralcia la sua azione» (SMITH 1776, v. 2, p. 40). Si tratta dello stesso autore che, a detta dello storico dell’economia A. PIETTRE (1966, pp. 66-7), portava avanti una sorta di «credenza ottimistica nell’organizzazione spontanea della vita economica attraverso la libera concorrenza degli interessi particolari», che però sarebbe impossibile prendere sul serio se non fosse sorretta da quell’incrollabile fiducia nell’armonia delle cose che caratterizzava il filosofo ed economista scozzese e che gli faceva considerare la società umana alla stregua di «una grande, immensa macchina i cui movimenti regolari e armoniosi producono una quantità ragguardevole di effetti benefici» (SMITH 1759, v. 1, p. 316).
22 È in questo contesto che Hayek si poneva un quesito tanto retorico quanto polemico: «Chi potrebbe negare che i moderni organi legislativi democratici hanno garantito una selva di sussidi speciali, privilegi ed altri benefici a gruppi di interesse particolari?» (HAYEK 1982, v. 3, p. 9). Per una ricostruzione più ampia e articolata dell’argomento, rimandiamo a ERCOLANI 2011, II,II e ERCOLANI 2016, capp. 3 e 4.
23 «Se la democrazia diviene sinonimo di governo della maggioranza dotata di potere illimitato, io non sono democratico e considero anzi un tale governo pernicioso e non credo potrà funzionare nel lungo periodo», scriveva HAYEK (1982, v. 3, p. 39).
24 SPENCER 1873, p. 207.
25 Per il tasso di disuguaglianze sociali, tornato a livelli precedenti la Seconda guerra mondiale, tanto da spingere un autorevole economista contemporaneo a parlare di «traiettorie esplosive e spirali di disuguaglianza fuori da ogni controllo» (PIKETTY 2013, pp. 698 e 701), rimandiamo anche a BOLTANSKI–CHIAPELLO 2011, pp. 681-2, e a HARVEY (2005, p. 205), il quale ultimo sottolinea la natura «profondamente antidemocratica del neoliberismo». Per l’abbassamento cognitivo, culturale e relazionale all’interno della società a trazione tecno-finanziaria propria del nostro tempo, ci sia consentito il rimando a ERCOLANI 2019, passim, ma in particolare capp. I e III. 
26 Basti solo riferirsi al fatto che, secondo un rapporto della Banca svizzera d’investimento UBS, al culmine della crisi seguita all’emergenza Covid, tra aprile e luglio 2020, proprio mentre milioni di persone avevano perso il proprio lavoro o stavano lottando per resistere alle stringenti restrizioni governative, i miliardari avevano aumentato la propria ricchezza di oltre un quarto (27,5%). I più ricchi, in buona sostanza, avevano tratto vantaggio principalmente dalle scommesse sulla ripresa dei mercati azionari globali quando erano al loro punto più basso durante i lockdown di marzo e aprile. Joseph Stadler, capo del settore che si occupa dei patrimoni famigliari delle persone più ricche al mondo per conto della suddetta banca svizzera, ha dichiarato che i super-ricchi sono stati in grado di beneficiare della crisi perché hanno avuto lo «stomaco» per acquistare più azioni delle compagnie quando i mercati azionari di tutto il mondo stavano crollando (NEATE 2020).
27 La situazione di disuguaglianza di patrimoni e rendite, a livello mondiale, è stata ampiamente documentata da svariati studi, portando alla conclusione per cui «se le tendenze attuali in materia di disuguaglianza di patrimonio dovessero continuare così, nel 2050 lo 0,1% più ricco del globo possiederà da solo più del patrimonio di tutta la classe media mondiale» (AA.VV. 2018, pp. 347-8 e ESCANDE – CHARREL – DE VERGÈS 2017). Che il Covid-19 abbia soltanto slatentizzato una tale situazione, radicalizzandone gli effetti sulla vita (e sulla morte) delle persone meno abbienti, è quanto emerge anche da chi sottolinea la differenza «ontologica» tra il virus e il sistema di produzione economica, tanto che, se proseguirà questa situazione di emergenza pandemica, «a un certo punto, i governi saranno costretti a scegliere tra il contenere la diffusione della pandemia a costo di distruggere l’economia, oppure tollerare un costo umano più alto per salvare l’economia» (KRASTEV 2020).
28 Gli scienziati ci avvertono che tre quarti delle nuove malattie che colpiscono gli esseri umani sono «zoonosi», ossia trasmesse dagli animali. Il crescente impatto umano sugli ecosistemi spiega l’aumento delle zoonosi: deforestazione, conversione dei terreni agricoli e intensificazione della produzione agricola rappresentano cambiamenti che avvicinano le popolazioni alla fauna selvatica, aumentando la possibilità per l’uomo di contrarre malattie dagli animali (MOUTERDE 2020). Per l’emergenza climatica oscurata da quella sanitaria, tanto che molti eventi e iniziative a favore del clima sono stati cancellati (anche a livello politico), si veda HOOK – WISNIEWSKA 2020.
29 HEGEL 1803-1806, pp. 239-240.

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