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la citta futura

Il capitale ha riconquistato piena padronanza del sistema bancario

di Ascanio Bernardeschi

Le politiche liberiste europee, passivamente subite dall’Italia, hanno determinato lo scompaginamento del sistema bancario togliendo allo Stato la leva della politica monetaria e creditizia e ponendolo alle dipendenze della finanza. Le regole europee e le misure anti-covid non consentono di esercitare un controllo pubblico dell’economia. Lo Stato dovrebbe riappropriarsi del sistema bancario per poter indirizzare le risorse finanziarie verso obiettivi economici e sociali pianificati. Inizia con questo articolo un servizio sul sistema bancario italiano nel contesto della crisi economica

3f0dc5075701d5d5db787404ede5fb5f XLCominciamo con Marx. Nel caso del denaro dato a prestito, la forma della metamorfosi del capitale è D-D’ con D’ maggiore di D. Cioè viene messo in circolazione denaro e se ne ritrae di più di quello immesso. La valorizzazione avviene attraverso il puro movimento del denaro, senza che intervenga non solo la produzione, ma neppure la stessa circolazione delle merci. Si crea l’illusione che il denaro possa sgorgare da sé stesso e moltiplicarsi alla stregua dei pani e dei pesci di evangelica memoria. A chi si ferma a questa manifestazione fenomenica diviene invisibile la circostanza che il guadagno del capitalista finanziario è solo una quota del plusvalore complessivo, cioè lavoro non pagato, estratto nei settori produttivi e ripartito fra tutti i capitalisti, compresi quelli operanti nei settori non produttivi. Si raggiunge quindi con questa forma il culmine del feticismo del denaro.

La sezione finanziaria del capitale è anche quella che meglio di tutte rappresenta la pulsione del capitalista all’autoaccrescimento della ricchezza astratta, a prescindere dai modi con cui tale valorizzazione si realizza. Perciò non è sorprendente se nelle formazioni economiche in cui predomina il modo di produzione capitalistico, cioè nella maggior parte del globo, tutto si sacrifica agli interessi del capitale finanziario, compresi, il debito “sovrano”, che sovrano non è, trascinato fino ai limiti dell’ingovernabilità (e talvolta anche oltre), e le stesse istituzioni democratiche, regolarmente soggiogate alle sue esigenze.

Non va dimenticato però che le banche hanno oggettivamente un ruolo di primissimo piano nel sistema economico in virtù della loro capacità di determinare l’allocazione delle risorse finanziarie fra i vari rami economici e le varie imprese, attraverso le loro decisioni di finanziamento.

Inoltre forniscono liquidità al sistema. Non a caso nella piattaforma del Manifesto di Marx ed Engels, è incluso l’ “accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo”. Anche Lenin, alle prese con la transizione al socialismo nella Russia post zarista, metteva al primo punto del suo Abbozzo di un programma di provvedimenti economici la nazionalizzazione delle banche. [1]

Il capitalismo non può funzionare senza il credito. Anche nell’ipotesi che i capitalisti dispongano di tutta la liquidità per avviare il processo di circolazione del capitale, D-M-D’ viene immessa in circolazione la quantità D di denaro, ma, per realizzare il plusvalore, deve ritornare dalla circolazione una quantità maggiore, D’. Dove trovare il denaro aggiuntivo? Per Marx, oltre che attraverso la coltivazione di nuove miniere d’oro, l’accumulazione può avvenire anche senza denaro, “attraverso il puro e semplice ammassamento di crediti”. [2]

A tal proposito, la scuola del circuito monetario sostiene che sono le banche che, concedendo credito, grazie al moltiplicatore bancario, creano moneta “dal nulla”. Di nuovo entrano in ballo i pani e i pesci! Quello che si crea è in realtà moneta di credito, cioè a fronte di questa liquidità sussiste un debito sulle spalle di qualcuno.

 

Un po’ di storia

Prima degli anni ’30 del secolo scorso il sistema bancario italiano era costituito da banche “miste” che potevano intervenire indifferentemente nel credito a breve, in quello a lungo termine e nella partecipazione al capitale delle imprese. Tuttavia, dal lato della raccolta prevalevano i depositi a breve dei risparmiatori, che potevano essere ritirati in qualsiasi momento. La divaricazione temporale fra raccolta, assai liquida, e impieghi, fortemente immobilizzati risaltò prepotentemente con il crack provocato dalla grande crisi del ’29-’39, di cui fece da amplificatore. Il legame inestricabile fra impresa e banca implicò che il fallimento dell’una trascinasse con sé il fallimento dell’altra.

Lo Stato dovette intervenire, sia per salvare le maggiori banche e socializzarne le perdite, attraverso la partecipazione statale al loro capitale, sia riorganizzando normativamente il sistema creditizio, introducendo un consistente ruolo dello Stato e regole idonee a prevenire nuovi guasti. Le partecipazioni statali nella grande industria, tramite l’Iri, finalizzate al salvataggio dell’apparato produttivo, sorsero a seguito di questa riforma.

Ne scaturì un sistema largamente pubblico in cui venivano distinte le varie tipologie di banche e per ciascuna di esse venivano definiti i limiti di intervento, separando il credito a breve da quello a medio e lungo termine e le banche commerciali da quelle d’affari, e stabilendo norme di tutela dei risparmiatori e di controllo pubblico delle banche stesse, ponendole anche al riparo da incursioni nel loro assetto proprietario. Il controllo del sistema bancario, a partire dall’Istituto di emissione, consentiva di gestire il debito pubblico e il relativo tasso di interesse senza dipendere dai “mercati”. L’indicazione della quota riserva obbligatoria sui depositi consentiva di determinare il moltiplicatore dei depositi e quindi di incidere profondamente sulla liquidità monetaria immessa nel sistema. L’intervento nei settori strategici e nei mercati finanziari riduceva lo spazio della borsa e permetteva di veicolare il risparmio verso le attività produttive. Nella sostanza si prendeva atto dei limiti del mercato e della necessità di un nuovo ruolo dello Stato a sostegno del capitalismo nella sua fase imperialistica.

Alcuni decenni fa, a seguito delle trasformazioni intervenute nel capitalismo a livello mondiale, è cambiato il contesto e il capitale ha attuato una feroce rivincita sulle conquiste dei lavoratori. Allo smantellamento dei diritti sociali si è unita la riconquista del sistema bancario che ha proceduto a passi spediti.

Riportiamo alcune pietre miliari di questa marcia.

- 1971. Nixon dispone la sospensione della convertibilità del dollaro. Il sistema monetario mondiale perde la connessione tangibile con l’oro. Ogni moneta ora si regge solo sulla fiducia di chi l’accetta in pagamento o sulla forza, anche militare, del Paese emittente.

- 1981. Il “divorzio” fra la Banca d’Italia e il Tesoro sottrae allo Stato la politica monetaria. Non è più possibile emettere moneta per finanziare la spesa pubblica, esponendo così i titoli di Stato alla speculazione finanziaria. I conseguenti elevati tassi concorrono all’ipertrofismo del debito pubblico.

- 1990. La legge Amato, in attuazione delle direttive dell’allora Comunità Europea, trasforma tutte le banche in Spa, facendo venire meno la garanzia dello Stato. Ne scaturisce la crisi di diversi istituti sottocapitalizzati, generalmente operanti nelle aree economicamente più deboli, ma anche di banche più solide che, a seguito di operazioni avventate, hanno rasentato il fallimento, richiedendo l’intervento dello Stato che si accolla quote azionarie maggioritarie (p. es. Monte dei Paschi di Siena). Tuttavia lo scopo di questi interventi non è quello di controllare il settore del credito, ma di salvare pezzi importanti del sistema bancario, pagando il costo di un ulteriore appesantimento del debito pubblico. Anche le Casse di risparmio spesso si sono fuse e trasformate in “globali”, perdendo largamente i legami con il tessuto di piccole e medie imprese del territorio. Le medesime direttive comunitarie indicano il superamento della distinzione fra banche commerciali e banche d’affari.

- Accordi di Basilea I, II e III. Al fine di porre rimedio ai guasti derivanti dall’eccessiva liberalizzazione, si stabiliscono i requisiti patrimoniali delle banche, sottoponendole alla valutazione del rating e a nuovi controlli sull’attività e sulla solvibilità dei rispettivi crediti. I requisiti patrimoniali pongono diversi istituti di fronte alla necessità di ricapitalizzarsi, o di essere assorbiti da banche più grandi. In altri casi devono di liberarsi dei crediti di problematica esigibilità, svendendoli a società di recupero, con la conseguente svalutazione del proprio capitale e l’esigenza di ricostituirlo. Occorre considerare anche che le complesse e onerose metodologie previste per la valutazione dei rischi comportano la penalizzazione degli istituti minori, i quali, trovandole insostenibili, sono costretti a supplire con comportamenti molto più prudenziali, quindi, a parità di condizioni patrimoniali, a sviluppare meno la loro attività creditizia e perdere di competitività. Con ciò gli accordi di Basilea favoriscono oggettivamente le grosse concentrazioni bancarie e mettono fuori mercato i piccoli istituti, approfondendo il processo di centralizzazione del sistema bancario.

- 1992. Il Trattato di Maastricht, in previsione del passaggio all’euro, sottopone gli stati aderenti a vincoli finanziari pesanti, orientati esclusivamente al controllo dell’inflazione, e non all’occupazione e alla crescita economica. Infatti le teorie economiche dominanti che ispirano quel trattato affermano che la crescita economica possa scaturire spontaneamente dall’austerità e dal dumping sociale.

- Metà anni ”90 del ’900. Svendita delle partecipazioni statali Iri e delle banche di interesse nazionale.

- 2002. Introduzione dell’euro. Da questo momento la sovranità monetaria è perduta definitivamente, essendo Bce l’unica titolare della politica monetaria. La Banca d’Italia – che non è di proprietà dello Stato ma di banche e altri istituti finanziari e assicurativi – si è trasformata in un suo strumento.

Passo dopo passo lo Stato si è privato di ogni possibilità di governare il sistema bancario, eccettuati i salvataggi. Oltretutto l’assetto proprietario della Banca d’Italia, che è l’organo di controllo del sistema bancario, mette il controllore in posizione di controllato e non c’è da stupirsi quindi se la sorveglianza si è più volte dimostrata inadeguata.

La despecializzazione delle banche, e la possibilità di intervenire in vari contesti, compreso quello assicurativo, hanno determinato perfino ingerenze delle finanza nel sistema pensionistico e nello stesso servizio sanitario nazionale, nel frattempo resi permeabili dalle (contro)riforme che li ha investiti – orientate a un restringimento della funzione pubblica e a un ruolo crescente del mercato – senza trovare ostacolo nel sindacato confederale, che ha accettato, per esempio, in diversi contratti nazionali di lavoro, il welfare aziendale. La rivincita del capitale attuata negli ultimi decenni è passata quindi anche per la privatizzazione del sistema bancario.

Si sono capovolti i ruoli. La barra del potere, che era in capo allo Stato, per quanto al servizio del capitale, e che condizionava l’operato delle banche, passa ora a queste ultime, che tengono sotto pressione i poteri pubblici in virtù del crescente debito, la cui impennata è causata anche dai salvataggi bancari.

 

La provvista e i “prodotti” finanziari

Tradizionalmente la raccolta di denaro degli operatori finanziari avveniva in prevalenza acquisendo i depositi dei risparmiatori o emettendo obbligazioni, oltre che, in misura minore, attraverso il ricorso al cosiddetto mercato interbancario, cioè a prestiti fra banche o della Banca centrale. Una delle forme più diffuse di tali prestiti era il risconto di cambiali presso la banca centrale [3]. Oggi il mercato interbancario assume maggiore importanza e si dota di strumenti più sofisticati, spesso connessi con il mercato dei capitali, quindi con la speculazione, ricorrendo a prodotti “innovativi”. Compare così il cosiddetto mercato parallelo, costituito dall’insieme di mercati, istituzioni e intermediari finanziari che operano nel settore ma non sono sottoposti alle leggi e ai requisiti patrimoniali previsti per le banche e sono esenti anche dalla vigilanza della Banca d’Italia. Rientrano fra questi operatori i fondi pensione che raccolgono risparmi dei lavoratori indotti dallo scippo del sistema previdenziale retributivo. I fondi raccolti vengono investiti in borsa e in modo più o meno diretto finanziano le imprese o le banche stesse. Il profitto realizzato è dato dal differenziale dei tassi attivi e passivi praticati e (sempre di più) dalle commissioni.

Uno dei modi più comuni con cui le banche si procurano liquidità è il contratto “pronti contro termine” con cui una banca vende a pronti, cioè all’istante, dei titoli in suo possesso, ricavando così il denaro che le occorre impegnandosi a riacquistarli a una data scadenza (a “termine”) a un costo maggiorato. L’importo di questi contratti nell’eurozona sfiorava i 10 trilioni di euro a fine 2007. Il rischio principale di questi contratti sta nelle oscillazioni dei prezzi dei titoli. A ciò si aggiunga la volatilità dei patrimoni e della solvibilità degli istituti di credito che ha determinato anche una crisi di fiducia fra le stesse banche, tanto che, dal 2007, questi contratti sono stati “collateralizzati”, cioè forniti di garanzie collaterali: il compratore a pronti, che in sostanza è colui che presta denaro, pretende, per mitigare il rischio, che la banca venditrice fornisca garanzie, di norma mettendo una sorta di pegno a favore del finanziatore su altri titoli posseduti dal venditore, prevalentemente titoli del debito pubblico, ritenuto meno rischioso. Le garanzie vengono aggiornate per lo più giornalmente e possono essere “cartolarizzate”, cioè rappresentate in un titolo che il finanziatore può vendere in caso di insolvenza del debitore.

Considerata la crisi di fiducia fra banche questi espedienti non destano sorpresa. Ma quando ci sono di mezzo i soldi la fantasia non ha freni. Ecco allora che compaiono le Abs (asset backed security), una sorta di assicurazione “sostenuta da risorse”, ovvero da crediti in garanzia, che accorpa i rischi di diversi crediti per spostarli in uno special purpose vehicle (Spv). Questo “veicolo” non figura nei bilanci delle banche. Sulle Abs possono essere emessi dei Cdo (collatelarized debt obligation), obbligazioni garantite da un assemblamento di prestiti, altre obbligazioni o Cds (credit default swap, un’altra assicurazione che trasferisce a terzi il rischio di solvibilità di un credito). Questi “prodotti” possono essere impacchettati in un altro contenitore cedibile che ne incorpora una notevole varietà. Se vi siete persi, è umano: il titolo del debito viene posto a garanzia di un altro debito che viene trasformato in un altro prodotto finanziario (ancora debito) con possibilità di costruire anche impacchettati di impacchettati, e alla fine nessuno ha un’idea precisa di cosa compri. Però si affida al rating di agenzie in conflitto di interessi, visto che sparano sentenze che influiscono decisamente sulle quotazioni dei titoli oggetto della loro speculazione. Sì, perché queste agenzie a loro volta speculano in borsa. Se poi i maggiori crack del 2007-8 non erano stati previsti da queste agenzie, c’è da domandarsi se si sia trattato di incapacità o di malafede.

L’economista keynesiano in buona fede dirà allora, avendo buoni argomenti, che lo scoppio delle bolle finanziarie sono il prodotto della deregolamentazione della finanza, cogliendo solo la manifestazione fenomenica di un problema meno visibile. I guadagni finanziari – che crescono anormalmente mentre l’economia ristagna – non sono altro che, come diceva Marx, “buoni sul plusvalore futuro” e alla resa dei conti, quando diviene palese che l’economia reale non riuscirà a produrre quote di plusvalore sufficienti a soddisfare questi buoni, le bolle scoppiano in maniera fragorosa trascinando nel fallimento alcune banche, anche prestigiose e ben quotate.

Sempre Marx aveva trattato, negli abbozzi per il terzo libro del Capitale, il capitale fittizio [4], cioè costituito da castelli di carte dietro a cui non ci sta niente di reale. Il Moro non poteva ai suoi tempi immaginare in dettaglio gli attuali sofisticati prodotti della fantasia umana, ma poté invece intuire la tendenza di fondo alla finanziarizzazione dell’economia, come illusorio espediente per dare sbocco alla sovrapproduzione di capitale.

Se prescindiamo da questi eccessi, il ricorso al mercato interbancario può essere molto vantaggioso per le banche. Attualmente le misure espansive in materia monetaria hanno generato un tasso dei prestiti interbancari negativo (-0,50%) cioè si viene ricompensati, anziché sostenere un costo, per prendere a prestito soldi presso le banche centrali. Alle banche, anziché rischiare nell’economia reale, conviene investire in comodi titoli del debito pubblico che un tasso positivo, seppur moderato, lo assicurano. Esse ottengono così un margine di guadagno o possono utilizzare questi titoli acquistati per nuovi contratti pronti contro termine (nuova raccolta). Non è compito della banca, l’impresa capitalistica per eccellenza, domandarsi da dove provenga questo utile o porsi domande sull’utilità sociale del loro operato. Sarebbe però compito dello Stato, se non fosse legato mani e piedi ai voleri del capitale finanziario, intervenire in questo mercato e prevenire fallimenti o drenaggio delle risorse ai danni dell’economia reale.

 

Le banche, l’Unione europea e il debito pubblico

Le politiche e le regole dell’Unione Europea, ispirate alle teorie monetariste, hanno inciso fortemente su sistema bancario e hanno determinato la svendita del patrimonio pubblico per accrescere gli spazi del capitalismo, nostrano e non, come nel caso delle privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, nonostante l’esito dei referendum del 2011.

L’osservanza rigorosa di tali regole ha determinato anche crescenti disequilibri nelle bilance dei pagamenti con l’estero e l’arretramento dei salari, ove si considerino anche quelli indiretti e differiti (servizi pubblici essenziali e previdenza), a vantaggio dei profitti e delle rendite. Il deficit di capacità di spesa delle classi lavoratrici conseguente a questo arretramento è stato in buona parte controbilanciato dal credito al consumo, fenomeno non solo made in Usa. Quando è esplosa la crisi del 2008 le difficoltà dei consumatori e delle imprese indebitati e quelle delle banche sono comparse simultaneamente.

Anche l’asimmetria nell’economia reale fra i vari paesi dell’eurozona si ripercuote nei rispettivi sistemi bancari. L’imperativo di ricapitalizzare le banche per avere un patrimonio commisurato ai rischi non ha le medesime conseguenze nei diversi paesi. Non solo per il differente andamento del sistema delle imprese, ma anche per la diversa sostenibilità del debito pubblico. Le banche infatti, pur detenendo anche titoli del debito estero, possiedono in maggior misura quelli dello stato di appartenenza. Quando è stato loro chiesto di contabilizzare i titoli del debito pubblico ai prezzi di mercato – e non, come avveniva precedentemente, al loro valore nominale – sono rimaste maggiormente penalizzate quelle che detengono i titoli meno “performanti”, cioè degli stati che soffrono il “mal di spread”. Queste ultime hanno dovuto registrare in bilancio delle minusvalenze consistenti a differenza delle banche dei paesi forti che hanno registrato plusvalenze o nella peggiore ipotesi minusvalenze meno importanti.

La strategia dell’Ue di privilegiare il salvataggio del sistema bancario attraverso l’intervento pubblico che ha provocato l’incremento del rapporto tra debito pubblico e Pil, e quindi la sostenibilità di tale debito, si è quindi ripercossa sul sistema bancario che lo detiene. L’errore è stato quello di voler salvare le banche anziché i paesi membri. Alcune vie di uscita individuate, la collocazione dei titoli sul mercato, l’intervento del paese d’appartenenza e il Mes, presentano tutte delle evidenti criticità.

Viene proposta, da parte dei liberisti, anche una diversa soluzione. I bilanci delle banche troppo esposte verrebbero ripuliti conferendo i crediti cattivi, privi di valore di mercato, a una “bad bank” a un prezzo dettato da alcune regole contabili. La contraddizione è lampante. Se i liberisti considerano il mercato infallibile perché c’è bisogno di stabilire dei prezzi che il mercato non è in grado di riconoscere? Ovvia risposta: per salvare le banche! Se questi crediti valgono quanto il 2 di picche e si deve salvare la banca, bisogna che essa possa realizzarci qualcosa, trasferendo i rischi a un altro soggetto. Alla fine dei conti, per salvare il sistema bancario bisogna tirare fuori tanti soldi. Sono graditi quelli pubblici.

Per le banche a rischio di default le regole europee prescrivono un altro strumento, il “bail-in”. Esso prevede una gerarchia di creditori da soddisfare in misura totale o parziale, in analogia alle procedure fallimentari o di concordato preventivo, trasferendo quindi le perdite sui risparmiatori. Questo meccanismo è stato imposto alle banche relativamente piccole, ma non al Monte dei Paschi, “too big to fail”, la cui ricapitalizzazione è avvenuta con l’intervento dello Stato ed è una delle cause dell’aumento del debito pubblico. Debito che viene collocato prevalentemente presso il sistema bancario. Quindi, mentre lo Stato si indebita per salvare le banche, altre banche si arricchiscono sul suo debito e vi destinano una quota rilevante dei loro impieghi, sottraendoli agli investimenti produttivi. Nel contempo rischiano di vedere svalutato il proprio patrimonio a causa della crescente insostenibilità del medesimo debito [5]. Questa spirale perversa potrebbe essere arrestata solo da un’Europa solidale… se esistesse.

È noto che il debito pubblico, è fortemente legato alle regole europee. Abbiamo già visto che divorzio fra Banca Centrale e Tesoro ha messo il debito pubblico alla mercé dei mercati, impedendo il controllo dei tassi di interesse. Ma la sostenibilità di un debito dipende in larga misura dal tasso di interesse a cui viene contratto. Gli economisti in genere concordano su un criterio: il debito è sostenibile se la crescita del Pil è superiore al tasso di interesse. In tempi di stagnazione i paesi col mal di spread sono costretti a avanzi primari paurosi per non venire avvolti nella spirale del debito. Ma ciò produce ulteriore recessione e alla fine dei conti si rivela inutile.

Le regole Ue incidono sul debito anche per una via meno diretta. La perdita di sovranità monetaria toglie alle economie meno competitive lo strumento della svalutazione monetaria per rendere più a buon mercato le proprie produzioni nel mercato mondiale e più onerose le importazioni. Mancando questa possibilità, i conti con l’estero si aggiustano, specie se l’innovazione latita, solo abbassando il costo del lavoro. In tal modo non solo le nostre merci divengono più competitive, ma si riducono i consumi interni e quindi il fabbisogno di importazioni. Purtroppo anche i paesi più competitivi praticano il dumping salariale e così i massacri sociali compiuti da Maastricht in poi dai più deboli non impediscono che i “frugali” abbiano crescenti avanzi nelle partite correnti con l’estero, di cui i disavanzi dei cosiddetti Piigs sono il riflesso speculare [6].

Dobbiamo di conseguenza considerare il rapporto fra fra la sostenibilità del debito pubblico e i conti con l’estero. Se un paese importa più di quanto esporta, è perché consuma più di quanto produce e quindi ha un risparmio interno negativo o comunque insufficiente ad assorbire il debito pubblico. Lo Stato quindi si indebita maggiormente verso operatori stranieri. Se non si riesce a contenere la forbice dei conti con l’estero, il paese debitore potrebbe essere costretto a uscire dall’euro e riacquistare la sovranità monetaria per poter svalutare la propria valuta. Potrebbe decidere anche di ridenominare il proprio debito nella nuova valuta e con ciò anche i detentori stranieri (prevalentemente banche) vedrebbero ridurre il valore del loro portafoglio. Lo spread non è solo un premio che i creditori richiedono per il rischio di default dello stato debitore, ma anche per il rischio, più plausibile, che lo stesso stato decida di denominare il proprio debito in una valuta destinata a essere svalutata. Questo spiega perché paesi come il Giappone, avente un debito pubblico in percentuale al Pil doppio del nostro, circa il 250%, non sono sotto attacco della speculazione, mentre lo sono paesi che hanno un rapporto debito/pil molto inferiore, addirittura, al 60% stabilito a Maastricht.

Esiste un ulteriore rapporto fra debito pubblico e conti con l’estero. I pagamenti internazionali si effettuano attraverso addebiti e accrediti fra le banche passando per le banche centrali. Nel complesso il sistema bancario di un paese in strutturale disavanzo con l’estero risulta perciò indebitato verso le banche straniere, sia pure al netto degli investimenti degli operatori stranieri in quel paese. Per fare fronte alla regolazione dei saldi passivi si preleva dalle riserve di valuta estera che garantiscono i depositi, riserve che in tal tal modo si assottigliano. Qualora parte dei crediti concessi ai clienti non rientrasse, le banche andrebbero a rischio di insolvenza. Se poi ne vengono a conoscenza i depositanti, questi ultimi si affretteranno a ritirare i depositi, approssimando il fallimento delle banche stesse. A questo punto, per salvare il sistema bancario, deve intervenire lo Stato trasformando il debito privato in debito pubblico.

Pertanto gli squilibri crescenti non sono il risultato di situazioni contingenti, ma strutturali e consequenziali alle regole europee. Il Quantitative Easing di Draghi e il recente accordo sul Recovery Fund tentano di mettere una piccola pezza a questa grande lacerazione. Il primo ha permesso di togliere dalla pancia del sistema bancario titoli pubblici a rischio, di prevenirne così il collasso e di ridurre lo spread. Ma non ha colto l’obiettivo, se non in minima parte, di elevare il tasso di inflazione e anche i risultati nell’economia reale sono stati di scarso rilievo perché la maggior parte della liquidità immessa è andata a finire nel sistema bancario che poi, con un’economia che non tira, ha preferito investire in borsa piuttosto che nell’economia reale. Solo che i profitti realizzati in tal modo sono frutto di bolle destinate prima o poi a scoppiare o comunque prelievi dal plusvalore complessivo prodotto o futuro; quindi sottrazione di ricchezza a qualcun altro, specialmente ai paesi più fragili, alle classi più povere e agli stati indebitati. A differenza dei monetaristi, noi non crediamo che le banche centrali da sole, neppure con gli strumenti “non convenzionali” siano in grado più di tanto di guidare il sistema bancario, che si muove secondo la propria convenienza. Da qui l’importanza di un controllo pubblico del sistema bancario.

Non è un caso che di fronte all’emergenza Covid le risposte più appropriate sono venute, per esempio, dalla Cina che – qualunque opinione si abbia del suo sistema economico – esercita uno stretto controllo pubblico sul sistema bancario ed è stata in grado di indirizzare i flussi finanziari in funzione degli obiettivi economici e sociali pianificati, cosa che Federal Reserve e Bce non hanno potuto fare, nonostante la massiccia immissione di liquidità. Pur essendo la prima nazione colpita dal Covid, che quindi ha dovuto affrontarlo meno preparata, la Cina registra una crescita economica del 3,2% (11,5 nel secondo trimestre) e un calo della disoccupazione, mentre in Occidente le percentuali del Pil sono negative (talvolta a due zeri) e la disoccupazione è in crescita.

Per quanto riguarda il Recovery Fund, siamo di fronte a un intervento concepito come eccezionale e limitato nel tempo per mitigare i danni indotti dal Covid-19. Di conseguenza è ignorata la natura strutturale della crisi. Sono preoccupanti le condizionalità che vi sono previste, l’enorme aumento del debito pubblico che porterà con sé e la quasi certa chiamata dei lavoratori a fare ulteriori sacrifici per rimettere in ordine i conti , una volta terminata l’emergenza. Non siamo di fronte all’inizio di un nuovo corso dell’Unione Europea ma a cambiamenti divenuti indispensabili per fronteggiare sia la situazione emergenziale, sia l’oggettiva perdita di egemonia dei paesi che hanno seguito l’impronta monetarista a vantaggio di quelli che hanno adottato un modello di sviluppo a forte direzione statuale. Ma questi cambiamenti avvengono per tutelare gli interessi del grande capitale: cambiare tutto per non cambiare niente. Un ruolo più pregnante dello Stato nel nostro paese – se si eccettuano i pochi decenni di parziale attuazione della Carta costituzionale, sotto la spinta di grandi lotte di classe – si è affermato nel ventennio fascista, in vista di una terribile guerra.

La proprietà pubblica e l’intervento dello Stato sono una condizione necessaria ma non sufficiente per una reale inversione di tendenza. La partecipazione finalizzata al solo salvataggio, escludendo rigorosamente che lo stato gestisca le imprese, non può cambiare i meccanismi economici. E neppure la sola gestione pubblica, per altro esplicitamente esclusa dal nostro governo, se essa avviene con criteri privatistici.

Occorre però ammettere e denunciare che, nelle more della costruzione dell’Unione bancaria europea, non tutti i paesi europei sono inerti come il nostro. Il Regno Unito, che ormai è fuori dall’Ue, partecipa a ben tre banche pubbliche; la Francia partecipa con 40 miliardi alla Banque Publique d'Investissement, la gemella della nostra Cassa Depositi e Prestiti a cui però il nostro stato partecipa per soli 20 miliardi; l’omologa banca tedesca Kreditanstalt für Wiederaufbau, è interamente pubblica (80% Stato e 20% Länder) e viene utilizzata per praticare ciò che è vietato ai governi: aiuti di stato alle imprese per promuovere le eccellenze tecnologiche. Tra i compiti della banca tedesca c’è anche l’emissione di biglietti di banca, un vero e proprio surrogato della moneta.

Se la nostra opinione rimane che il problema vero sia la gabbia dell’Ue e la soluzione vera sia uscirne, quanto meno il nostro governo potrebbe andare un po’ più in là del galleggiamento nel breve termine e provare a indicare una prospettiva di uscita dalla crisi.


Note:
[1] V. Lenin, Abbozzo di un programma di provvedimenti economici, in Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di V. Giacché, il Saggiatore, 2017, p. 113.
[2] K. Marx, Il Capitale, Libro II, a cura di R. Panzieri, Ed. Riuniti, 1989, p. 364.
[3] Il credito a breve avveniva sovente attraverso lo sconto di cambiali. Il cliente cedeva alla banca cambiali in suo possesso, emesse da (o tratte su) propri creditori. La banca gli anticipava il valore attuale del titolo, detraendo dal suo valore nominale uno sconto calcolato al tasso vigente per il tempo intercorrente dal momento dello sconto alla scadenza del titolo. L’istituto di credito che ne ne veniva così in possesso poteva presentare questi titoli alla Banca centrale per farsi anticipare a sua volta il valore detratto uno sconto al tasso di riscontro, un indicatore preso a base per determinare, maggiorandolo opportunamente, tutti gli altri tassi praticati. La banca poteva così lucrare sulla differenza fra il tasso di sconto da essa praticato al cliente e il più basso tasso di riscontro.
[4] K. Marx, Il Capitale, Libro III, a cura di M. L. Boggeri, Ed Riuniti, 1989, sez. quinta, pp. 561-609.
[5] È di questa estate la notizia che Unipol Sai “con grande rammarico” venderà massicciamente titoli di stato italiani, “privilegiando titoli di altri paesi […] Non possiamo fare diversamente perché il nostro mandato è amministrare al meglio i soldi degli assicurati e degli azionisti”. Anche questa società ha ritenuto che tenere in pancia troppi titoli del debito italiano fosse a rischio di svalutazione patrimoniale.
[6] Acronimo che sta per Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.

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AlsOb
Monday, 12 October 2020 18:01
Il partire dalla supposta tendenza declinante sel saggio di profitto al momento finisce soprattutto per creare semplicistiche letture e distrazioni. I salari sono stati mantenuti bassi e disuccupazione o finta occupazione più elevati a partire dagli anni 70 per una pianificata scelta di ristrutturazione del capitalismo da parte della classe dominante in chiave di rallentamento della crescita e accentramento di rendite e potere nelle mani di pochi. E in realtà una delle robuste spinte alla finanziarizzazione e indebitamento è derivata dalla sperequazione nella distribuzione di potere d'acquisto e dai flussi finanziari di quello che venne chiamato the global saving glut. Non da apparenti crisi nei profitti. Già negli anni 80 Susan Strange osservava che il cammino e destino del nuovo capitalismo erano il casino capitalism, che ha generato il dominio assoluto di moneta e capitale fittizi e all'esplosione del credito per la speculazione assente ogni moral suasion. Neanche tanto paradossalmente le banche commerciali devono ridimensionarsi e davanti all'attivismo della banca centrale e a una sua eventuale moneta digitale perderebbero pure rilevanza in certi ambiti. Il mostruoso shadow banking rappresenta la mina vagante e solo la banca centrale lo può tenere sotto controllo (e creare la moneta necessaria in un mondo a elevata disoccupazione tecnologica) e si noti in un percorso di espansione di finanziarizzazione globale, esattamente l'opposto di quanto detto, di riduzione della globalizzazione, che interessa solo il commercio internazionale prevalentemente a causa della guerra tecnologica e non solo contro la Cina per impedire che si sviluppi ulteriormente. .
Che poi il capitalismo nella sua concentrazione di potere, violenza e razzismo, sfruttamento, disprezzo di ogni valore che non sia la valorizzazione del denaro si colori sempre più di infernale non ci piove, i rapporti di forza contemporanei portano a un neomedioevo, le classi subalterne hanno ormai rappresentanza minima e non sono temute.
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Eros Barone
Sunday, 11 October 2020 22:58
Se nell'analisi si parte dalla tendenza declinante di lungo periodo del saggio di profitto, è consequenziale che questo fattore determini le direttrici di fondo entro cui i governi e le banche centrali devono condurre la politica economica. Per rallentare gli effetti del calo del saggio di profitto, i governi e i privati aumentano il debito, estendendo la base finanziaria complessiva dell’economia. Dal canto loro, le banche centrali sono costrette a compensare gli effetti di un aumento del ricorso al debito abbassando i tassi e accrescendo la liquidità del sistema. Sennonché le banche centrali e le altre autorità di vigilanza sono costrette a stemperare la regolamentazione per alleviarne l’effetto sui profitti delle banche. I poteri pubblici hanno sempre ben presenti gli interessi delle banche, ma l’aumento della concentrazione finanziaria aumenta ulteriormente il peso contrattuale delle banche verso gli Stati perché i governi non hanno davanti a sé molti piccoli e medi operatori, ma pochi gruppi giganteschi che decidono le sorti di interi continenti. Alla fine, la profittabilità si riduce a tal punto da annullare gli spazi di manovra della politica monetaria. Il fenomeno si è già constatato in Giappone, dove da decenni i tassi d’interesse sono nulli. Il passato del Giappone è ora il presente che accomuna tutti i paesi. Così la teoria ortodossa, che lega l’andamento della politica monetaria al tasso d’inflazione, si conferma del tutto inetta a spiegare il mondo reale.L’aumento del debito, come si è detto, non è che un sottoprodotto della tendenza di fondo del capitalismo a generare una riduzione del saggio di profitto. Il discorso va portato quindi sull'analisi delle controtendenze: ad esempio, una consistente riduzione del livello salariale e del costo del lavoro in genere. In questo senso, va detto che ogni controtendenza al calo del saggio del profitto presenta opportunità per le banche. Un calo dei salari, costringendo le famiglie ad aumentare la propria domanda di credito, aumenta i profitti delle banche. Allo stesso modo, se per resistere al calo del saggio di profitto le aziende aumenteranno le spese in ricerca e sviluppo e per fusioni, crescerà anche il loro ricorso al credito e alle consulenze delle banche e così via. Gli stessi interventi pubblici sono occasioni di profitti per le banche, le quali collocano e negoziano titoli del debito pubblico, finanziano le opere infrastrutturali, e così via. Tuttavia, la controtendenza più importante al calo del saggio di profitto, è, in tutti i settori economici, la concentrazione del capitale: fenomeno e processo di espropriazione che sta assumendo dimensioni imponenti e un ritmo travolgente, scuotendo le sovrastrutture statuali e modificando profondamente i rapporti tra le classi (proletarizzazione degli strati intermedi, sviluppo delle unioni imperialistiche, migrazioni, guerre e conflitti vari ecc.).
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Mario Galati
Sunday, 11 October 2020 14:34
Per chi è capace solo di slogans e declamazioni astratte, non di ragionamenti e analisi concrete cui rapportare la teoria e l'azione, ossia per gli estremisti infantili (la cui matrice piccolo-borghese è chiara (un lavoratore, un vero proletario cosciente o uno capace di immedesimarsi in un proletario cosciente, non ha tempo da perdere con slogans vuoti che non fanno avanzare di una virgola la lotta di classe vera, non il gioco di bambini incendiari perché insoddisfatti e arrabbiati), è facile scivolare nella farneticazione.
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romke
Sunday, 11 October 2020 10:57
Quoting Mario Galati:
I predicatori chiaccheroni che recitano sempre la loro litania di dogmi da catechismo sono del tutto inutili e fastidiosi come tafani. Nel mio paese c'è un detto: a cercare di lavare la testa all'asino si perde l'acqua e il sapone.
I marxisti da operetta come te sono pronti ad accettare concetti come le banche capitaliste senza capitalismo, e tante altre belle cose. Senza dogmi e senza principi. Purchè si parli, e si faccia sfoggio delle proprie "buone letture",che magari ci si paga anche una birretta con due soldini, eh.
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Mario Galati
Sunday, 11 October 2020 10:31
I predicatori chiaccheroni che recitano sempre la loro litania di dogmi da catechismo sono del tutto inutili e fastidiosi come tafani. Nel mio paese c'è un detto: a cercare di lavare la testa all'asino si perde l'acqua e il sapone.
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romke
Sunday, 11 October 2020 08:18
La fiera degli ubriachi imbiancatori del sepolcro capitalista continua! Il capitale aveva lasciato parte del controllo delle banche! Ma pensa che non me n'ero accorto di quando successe! E dire che qui chiosano grandi (lettori, solo quello) marxisti in difesa della scienza dello scribacchino borghese. Primo fra tutti il Galati cui piacciono tutte le minestre opportuniste. Avanti così!
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AlsOb
Saturday, 10 October 2020 23:27
Giovanni, Ascanio B. non ha certo bisogno della mia difesa d'ufficio ma le tue affermazioni sono un poco gratuite in quanto il problema che si è posto non è comparare un sistema capitalistico predatorio con un altro che non lo sia stato ma evidenziare differenti modalità di sua gestione politica e democratica e conseguenti esiti.
Nel dopoguerra la presenza di banche pubbliche ha favorito l'implementazione di piani industriali e di investimento e la pratica di politiche creditizie e di jawboning o moral suasion. Probabilmente la paura del comunismo e dei partiti popolari indusse la classe dominante che aveva sostenuto il fascismo a fare buon viso a cattivo gioco e a limitare l'ostruzionismo a certi ambiti monetari e finanziari. L'Italia, la sua classe dirigente, su una sorta di vaga ispirazione kaleckiana costruì il suo modello di accumulazione da boom.
Dopo il colpo di stato giudiziario la vecchia classe dominante ha ripreso integralmente il potere (i prodromi furono l'uccisione di Aldo Moro e la truculenta estromissione di Paolo Baffi da Bankitalia) e le politiche sono tornate quelle pseudometafisiche e antiscientifiche basate sulla fede nel laissez faire e nelle privatizzazioni. A ciò si sono aggiunte la politica del cambio forte e la sottomissione all'imperialismo tedesco imperniato sul più estremistico mercantilismo , con la conseguenza di annichilire per oltre vent'anni la crescita (capitalistica) da causare effetti devastanti e presto visibili se non si modifica la rotta.
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Mario Galati
Saturday, 10 October 2020 13:35
Un po' più di prudenza verso Ascanio Bernardeschi, che è uno che qualcosa la capisce, non gioca con fronzoli e orpelli vari per valorizzare merce avariata ed ha la testa sulle spalle, sarebbe opportuna.
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giovanni
Saturday, 10 October 2020 02:13
Ma ti rendi conto di che grande nonsense scrivi.. il sistema bancario non esisterebbe senza capitalismo.. chi caxo lo controllava prima secondo te ..il proletariato rivoluzionario..l'avanguardia operaia.. che mondo triste
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AlsOb
Friday, 09 October 2020 22:49
L'articolo nonostante il volontarismo e la ricchezza di interessanti spunti manca di un robusto punto di vista unitario e si perde per la tangente e in imprecisioni.
La caratteristica del capitalismo del fittizio non è tanto che il capitale abbia preso padronanza del sistema bancario ma che la banca centrale si è integrata nel tesoro e che la moneta privata da un lato non è in grado di sopperire alle necessità del capitalismo contemporaneo e dall'altro specie per l'enorme nebulosa speculativa dello shadow banking rappresenta una costante fonte di instabilità fuori controllo.
Limitatamente al caso specifico italiano indubbiamente si è assistito alla frettolosa perversione delle privatizzazioni il cui risultato è un sistema bancario in crisi che con pochi soldi potrebbe essere nazionalizzato. Se vi è un comportamento da evidenziarsi è come da lustri in modo sistematico Germania e speculazione americana e inglese abbiano aggredito in modo virulento con spregiudicate ricorsive operazioni al ribasso e altre strategie da guerra la borsa italiana, il settore bancario e il risparmio nazionale in generale. I corsi azionari sono stati portati a livelli ridicoli. Per quanto concerne la forzata svendita di crediti classificati inesigibili si è trattato di rapina a mano armata. Il tutto sempre con l'atteggiamento collaborazionista della parassitaria classe dominante nazionale che felicemente riuscì a far fuori i partiti che le davano fastidio.
Alcune note: non sono gli economisti che valgono meno del mago Otelma a proporre la regola del tasso d'interesse e del tasso di crescita sul debito ma la matematica e eventualmente i matematici.
Persiste, in modo ormai assai fastidioso, l'equivoco sul debito pubblico italiano e giapponese: il debito pubblico italiano è sostanzialmente in moneta straniera e dipende dalla benevolenza di una banca centrale straniera, non così per il Giappone.
Infine il ruolo dello stato promotore in economia non lo si ha con il fascismo ma con iri e partecipazioni statali nel dopoguerra senza i quali non vi sarebbero stati né il modello di accumulazione nazionale né il boom economico. Poi dopo avere cacciato i supposti corrotti hanno giustamente provveduto a distruggerlo e a intraprenders la via della colonia da internazionalismo terzomondista.
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