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Da Hegel a Nietzsche: la complessa relazione di Domenico Losurdo con il liberalismo

di Igor Shoikhedbrod (Dalhousie University, Canada)

SF 1 kf0F U3020371661469feB 593x443Corriere Web Sezioni   1. I criteri di riferimento per lo studio del rapporto di Losurdo con il liberalismo

Prima di iniziare la mia indagine del rapporto di Losurdo con il liberalismo è il caso di fissare i criteri di base che la guideranno. Ogni tentativo di esaminare questa complessa relazione deve infatti confrontarsi fin da subito con una sfida: dove vanno tracciati i confini interpretativi? Questa sfida è resa più difficile dal fatto che Losurdo è stato uno storico delle idee assai prolifico, che nell’esteso ambito di riferimento dei suoi studi si è occupato di un ampio numero di autori e temi del pensiero politico, dall’illuminismo ai nostri giorni. In questo breve saggio mi concenterò su tre (o meglio, quattro) figure fondamentali della storia della filosofia che sono state oggetto delle sue ricerche: G.W.F. Hegel, Karl Marx (e, ove si dia il caso, Friedrich Engels), e Friedrich Nietzsche. Tutti pensatori che hanno contribuito sotto molti rilevanti aspetti a formare l’eredità della filosofia classica tedesca.

Non sono certo il primo a ripercorrere il movimento che da Hegel conduce a Nietzsche; Karl Löwith ha scritto su questo argomento un libro che è ancora un punto di riferimento1. Tuttavia, credo di essere il primo ad analizzare il movimento che da Hegel porta fino a Nietzsche in relazione all’opera di Losurdo e al suo rapporto con il liberalismo. Sicuramente, inoltre, il fatto che io includa Nietzsche tra i filosofi che hanno contribuito alla tradizione della filosofia classica tedesca susciterà la perplessità di alcuni lettori. Dopotutto, il pensiero di Nietzsche, con la sua guerra contro i grandi costruttori di sistemi filosofici, è spesso considerato come l’archetipo della decostruzione. Ciononostante, non è il caso di misurare il contributo di un autore a una particolare tradizione di pensiero sulla base di quanto quello stesso autore ritenga di essersi occupato di essa. Se così fosse, né Hegel, né Marx (né Engels) potrebbero essere descritti come rappresentanti, e al contempo eredi, di questa medesima tradizione.

È per l’appunto attraverso un orientamento critico all’oggetto della nostra ricerca (nello spirito del criticismo kantiano), allora, che possiamo comprendere davvero la misura in cui questi autori hanno contribuito in modi diversi al “punto d’approdo” di quella stagione filosofica. E in questo senso, se fosse vissuto abbastanza a lungo, Engels avrebbe potuto sostituire proprio Nietzsche a Ludwig Feuerbach come rappresentante del suo “compimento”2. Possiamo infatti interpretare l’obiettivo fondamentale di Nietzsche anche come il tentativo di invertire il ruolo del protagonista iniziale della Fenomenologia dello spirito hegeliana, ossia il servo lavoratore, come anche di invertire la traiettoria normativa a cui il lavoro del servo dà impulso: l’eguaglianza dei diritti. L’inclusione di Nietzsche nella tradizione della filosofia classica tedesca – intesa in senso ampio – è pertanto tutt’altro che arbitraria.

Ma oltre che di filosofia classica tedesca Losurdo si è interessato anche delle manifestazioni politiche del liberalismo e non è un caso che questo interesse ritorni in maniera particolare proprio nei suoi lavori su Hegel, Marx ed Engels e Nietzsche. È interessante il fatto che nessuno di questi avesse un orientamento lineare nella sua considerazione di questa filosofia politica, se non appunto Nietzsche; il cui antiliberalismo è in apparenza molto più pronunciato – potremmo dire assoluto – di quanto non avvenga nelle opere degli altri autori. Hegel, in definitiva, era un sostenitore della razionalità del Rechtsstaat – per quanto nella forma, che egli prediligeva, della monarchia costituzionale. Marx, da parte sua, criticava l’orizzonte ristretto e ipocrita entro il quale il liberalismo concepisce un’emancipazione politica che, rimanendo nel quadro della produzione capitalistica, non poteva non implicare la persistenza dello sfruttamento. Tuttavia, Marx continuava a considerare questa emancipazione come un «grande progresso» e valutava comunque i diritti borghesi come un avanzamento in termini di libertà. Quali che fossero le loro differenze di visione, Marx ed Engels furono sempre d’accordo su questo specifico punto. Nella lettura di Losurdo, comunque, anche Nietzsche passa attraverso una fase «nazional-liberale», nella quale condivide le posizioni del liberalismo classico sul rapporto che dovrebbe intercorrere tra «governanti e governati». Dopotutto, solo in seguito liberalismo e democrazia si sarebbero fusi nell’idea, ormai familiare, di “democrazia liberale”.

L’approccio di Losurdo al liberalismo differisce da quello della maggior parte degli storici dell’idea liberale. Losurdo non era interessato alle sue pure e immacolate intenzioni normative, astratte dalla storia concreta e dalla realtà vissuta (in particolare quella delle sue vittime). Ispirandosi all’impostazione di Alexis de Tocqueville in La democrazia in America, Losurdo perseguiva piuttosto una «controstoria» o, come egli diceva in negativo, indagava «non il pensiero liberale nella sua astratta purezza, ma il liberalismo e cioè il movimento e le società liberali nella loro concretezza»3. È utile allora, prima di proseguire nella nostra disamina, analizzare in dettaglio il riferimento metodologico all’idea di “controstoria”.

Per Losurdo, scrivere una controstoria significava «indagare […] le elaborazioni concettuali [di un grande movimento storico e politico come il liberalismo] ma anche e in primo luogo i rapporti politici e sociali in cui esso si esprime, nonché il legame più o meno contraddittorio che s’instaura fra queste due dimensioni della realtà sociale»4. Obiettivo della controstoria del liberalismo è quindi far luce criticamente su quegli aspetti e caratteristiche di questo movimento che continuano a essere passati sotto silenzio dai suoi sostenitori. Una controstoria del liberalismo non può certamente fare a meno di una definizione comune, o unificatrice, del liberalismo stesso. Per Losurdo, però, questa definizione convenzionale – «il liberalismo è la tradizione di pensiero che mette al centro della sua preoccupazione la libertà dell’individuo, misconosciuta o calpestata invece dalle filosofie organicistiche di diverso orientamento»5 – coglie in astratto certe intenzioni normative ma nasconde completamente una realtà di esclusione e dominio che deve essere invece portata alla luce. La sua controstoria è guidata pertanto dall’obiettivo di “smascherare”, nel solco della tradizione di quella teoria critica di cui il marxismo è parte integrante. Tuttavia, “smascherare” il liberalismo non precludeva per lui la possibilità di apprezzarne al contempo i meriti. Proprio questo approccio critico e complesso sarà il tema del prosieguo di questo saggio, a partire dalla considerazione del più importante esponente della filosofia classica tedesca: G.W.F. Hegel.

 

  1. Hegel e la filosofia dei moderni: potenzialità e limiti dell’interpretazione proto-marxiana

Il trattato di Losurdo su Hegel persegue almeno tre obiettivi. In primo luogo, offre un esame di come la filosofia politica di Hegel sia stata interpretata dai suoi contemporanei e dai successori, come anche dagli studiosi più recenti. In secondo luogo, intende confutare la visione, un tempo dominante, di Hegel come reazionario difensore dello Stato burocratico prussiano e quindi nemico della libertà moderna. In terzo luogo, Hegel e la filosofia dei moderni si rapporta alla filosofia politica di Hegel come a un pensiero che, nell’essere immerso nel movimento politico liberale, è anche sensibile ai punti ciechi e ai limiti intrinseci di quest’ultimo. Qui mi occuperò soprattutto di questo terzo obiettivo.

A prima vista, la cartina di tornasole impiegata da Losurdo per valutare quanto in profondità si spinga l’impegno di un filosofo nei confronti della «libertà dei moderni» può sembrare piuttosto convenzionale: è l’atteggiamento verso il 1789. Sebbene, come spettatore, avesse un atteggiamento simpatetico nei riguardi della rivoluzione, Kant, ad esempio, era in definitiva contrario a qualsiasi trasformazione sociale rivoluzionaria e implicante violenza, poiché avrebbe necessariamente contravvenuto alla condizione giuridica originaria e sarebbe stata quindi illegittima in ogni suo aspetto6. Ciò che più colpisce nelle sue riflessioni è la forza con cui sottolineava come la Rivoluzione francese evidenziasse una «disposizione morale nel genere umano» e affermasse un desiderio universale che si estendeva oltre i territori della Francia, come la rivoluzione di Haiti avrebbe poi reso chiaro7. Questa portata universale, come è noto, venne riconosciuta anche da Edmund Burke. Diversamente da Kant, però, Burke considerava l’astratta universalità di quella rivoluzione come la principale minaccia ai costumi tradizionali, ai diritti e agli orizzonti politici cari all’Impero britannico8.

Insomma, che la si guardi dalla prospettiva di uno spettatore simpatetico o da quella di un suo avversario critico, la Rivoluzione francese è stata un evento storico decisivo che ha costretto i filosofi del tempo a prendere posizione. Per questa e altre ragioni, prendendola come riferimento, Losurdo categorizza i più grandi autori di quel periodo in base ai loro atteggiamenti verso la «libertà dei moderni» proprio a partire dalle loro disposizioni nei confronti di quel «processo rivoluzionario mondiale che distrugge l’antico regime»9. Su questa base, divide i pensatori tedeschi e più in generale europei in tre campi ideologici distinti.

Il primo è il “campo reazionario” di chi si opponeva categoricamente alla rivoluzione e alla sua eredità sociale e politica. Secondo Losurdo, il principale rappresentante filosofico di questo campo era Karl Friedrich Wilhelm Schlegel. Il secondo campo ideologico era composto dai “reazionari moderati”, che seguivano Edmund Burke nel condannare la Rivoluzione francese ma lodavano selettivamente altre rivoluzioni (ossia la Rivoluzione americana e la Gloriosa rivoluzione che l’aveva preceduta). Tra i suoi rappresentanti vi erano Benjamin Constant e Friedrich von Gentz. Infine, l’ultimo campo ideologico, nel quale Losurdo colloca Hegel e la filosofia classica tedesca, è quello «che valuta in senso complessivamente positivo il processo rivoluzionario globale che segna la distruzione dell’antico regime»10.

Losurdo si muove su un terreno solido nell’interpretare Hegel come un sostenitore del 1789. Anche lo Hegel più “maturo” e “conservatore”, che di solito viene erroneamente inteso come un critico ostile di questo genere di mutamenti, riconosce che «non si deve… fare opposizione, quando si sente che la rivoluzione ebbe il suo primo impulso dalla filosofia»11. La sua disamina più sistematica si trova però nella sezione su La libertà assoluta e il Terrore della Fenomenologia dello spirito. Piuttosto che rifiutare la Rivoluzione francese come un crimine contro la natura o contro il diritto, al pari dei rappresentanti del campo “reazionario” e “reazionario moderato”, Hegel mostra qui in che misura essa stessa fu una condizione necessaria della libertà moderna. Sebbene sia stata guidata da un «universale astratto» che ha lasciato il posto al Terrore, essa ha comunque spianato la strada al regime, concreto e mediato, di quel Rechtsstaat razionale che Hegel difende nei Lineamenti di filosofia del diritto.

Questo approccio consente a Losurdo di istituire tra i pensatori politici di quel tempo (e tra le correnti filosofico-politiche che essi rappresentano) paragoni che sarebbero altrimenti inattingibili. Un esempio degno di nota è quello di Benjamin Constant. Se questi preferiva certamente la libertà dei moderni a quella degli antichi, è significativo però il fatto che al contempo rifiutasse l’eredità di Rousseau e dei suoi dichiarati discepoli rivoluzionari («l’abate di Mably, come Rousseau e molti altri, aveva preso, sulla scorta degli antichi, l’autorità del corpo sociale per la libertà»12). Anche lo Hegel “maturo”, in verità, contestava Rousseau per la sua presunta concezione atomistica della “volontà generale”; ma la differenza tra Hegel e Constant, secondo Losurdo, è che Hegel apprezzerà fino all’ultimo il nucleo di razionalità della Rivoluzione – ossia la Dichia- razione dei diritti dell’uomo e del cittadino13.

Questo paragone ci offre il punto focale a partire dal quale considerare sia la tradizione liberale rappresentata da Constant, sia la tradizione della filosofia classica tedesca, che nella filosofia politica di Hegel trova la sua espressione più sostanziale. Considerando la Rivoluzione francese, Constant assolutizza il diritto alla proprietà privata e al contratto ma respinge come antiquati i diritti dei cittadini a determinare collettivamente le loro scelte politiche. Hegel, invece, cerca di recuperare l’unità dell’antica polis sulla base, tutta moderna, della particolarità. Non può esserci contrasto più marcato con il liberalismo. E non a caso lo Hegel di Losurdo è non solo un sostenitore della Rivoluzione, la quale permette di conciliare i diritti dell’uomo con i diritti del cittadino, ma è anche assai attento alla questione sociale, tanto da avvicinarsi alla parte dei “plebei”.

Losurdo si concentra a questo proposito su due importanti aspetti della questione sociale: il lavoro e il diritto di necessità. Il significato politico del lavoro è stato un argomento ferocemente dibattuto nella storia della filosofia morale e politica così come nell’economia politica. E proprio su questo punto la differenza tra tradizione liberale e filosofia classica tedesca emerge in maniera feroce. Questa differenza torna in gioco poi nella discussione sul concetto politicamente saliente di otium, che rivela controintuitivi legami tra la tradizione liberale e l’antiliberale Nietzsche (intuizione, questa, che non è stata colta a sufficienza da coloro che criticano Nietzsche da una prospettiva di liberalismo egualitario14). Scrive Losurdo: «la tradizione liberale è ben in grado di cogliere l’aspetto alienante del lavoro salariato, ma non l’aspetto emancipatorio e formatore dell’attività produttiva che invece non sfugge a Hegel (e Marx)»15. E aggiunge: «come in Hegel, anche in Kant, nella filosofia classica tedesca nel suo complesso, il lavoro interviene nella definizione dell’autentica attività intellettuale. Non a caso più tardi Nietzsche parlerà espressamente di Kant e Hegel come degli “operai della filosofia”!»16.

Questa “divisione del lavoro” che Losurdo stabilisce tra la tradizione liberale e la filosofia classica tedesca, a mio avviso, è in parte corretta ma in parte fuori fuoco. Egli mette acutamente in luce la differenza tra il riconoscimento delle caratteristiche costrittive e alienanti del lavoro salariato, che pensatori liberali come Adam Smith descrivono in termini sorprendentemente vividi, e la misura in cui la filosofia tedesca classica è stata in grado di identificare il lato emancipatorio del lavoro, andando oltre questa intuizione del liberalismo. Non è chiaro, tuttavia, perché in questa categorizzazione Kant non sia situato dalla parte della tradizione liberale. Dopotutto, la principale differenza filosofica tra questa e Hegel (nonché Marx) è che anche i liberali più perspicaci consideravano la forza-lavoro come una merce, una disutilità necessaria, mentre Hegel e Marx la interpretavano principalmente come un processo trasformativo e un essenziale mezzo di espressione umana, tale da trascendere la mera sopravvivenza e il valore di scambio. Anche Kant, però, considerava la forza-lavoro come una merce alienabile sul mercato, a cui poteva essere assegnato un prezzo sotto forma di salario. Per questa ragione, la famosa seconda formulazione dell’imperativo categorico non condanna la compravendita della forza-lavoro come un affronto alla dignità umana. Al contrario, Kant considera tale contratto di lavoro come consensuale e legittimo, purché la sua durata non sia indeterminata e purché non riduca gli esseri umani esclusivamente allo status di mezzi/oggetti17.

Questo problema è indirettamente riconosciuto da Losurdo stesso quando considera positivamente la prospettiva di Hegel riguardo al «diritto di necessità», escludendo in questo caso dalla propria disamina Kant e altri rappresentanti della filosofia classica tedesca. Mentre la tradizione liberale assolutizza il diritto alla proprietà privata e alla libertà di contratto, Hegel, facendo ricorso al «diritto di necessità», sostiene che vi siano limiti necessari all’assolutismo proprietario. Il ricorso al diritto di necessità presuppone che assicurare il diritto del cittadino alla vita sia politicamente giustificato, anche se ciò significa violare occasionalmente i diritti privati delle persone e in particolare il diritto di proprietà18. Losurdo suggerisce anche che la difesa hegeliana dei «diritti materiali» è probabilmente più originale e più solida della difesa dei «diritti consuetudinari dei poveri» da parte del giovane Marx19. È significativo, comunque, che i suoi elogi non si estendano ad altri rappresentanti della filosofia classica tedesca. In questo caso, infatti, quanto all’idea che si possano sospendere temporaneamente i diritti privati almeno in quelle rare circostanze in cui è in gioco la nuda vita, Kant e Fichte non si differenziano dai liberali dichiarati come Constant20.

Emerge qui un primo significativo punto di dissenso. Se il paragone tra la tradizione liberale e Hegel fosse culminato con il mettere in luce come quest’ultimo difenda il diritto di necessità nella vita quotidiana, non ci sarebbero significative ragioni di contestazione. Losurdo però si spinge oltre e sostiene che Hegel e la tradizione della filosofia classica tedesca si differenzino anche per un altro aspetto decisivo in quanto – come accennato prima – avevano un orientamento maggiormente “plebeo” e non erano legati alle classi dirigenti nell’esercizio delle loro rispettive professioni21.

A onor del vero, si deve prendere atto che Losurdo è sempre attento a mettere “plebeo” tra virgolette, mentre il suo riferimento a uno «Hegel banausico e plebeo» è accompagnato da un punto interrogativo e invita a una certa cautela interpretativa22. Questi accorgimenti stilistici evidenziano i dubbi che Losurdo stesso aveva su questa lettura di Hegel, la quale poteva forse costituire una provocazione. Nonostante queste riserve, colpisce che Losurdo, intenzionalmente o meno, finisca per inserire elementi di Marx, di Engels e persino di Gramsci nella sua valutazione simpatetica di Hegel, cosa che comporta una serie di sfide per la sua interpretazione.

Marx ed Engels ammettono la possibilità che alcuni membri dell’intellighenzia facciano causa comune con il proletariato nella lotta di classe rivoluzionaria contro la borghesia. I due autori notano nel Manifesto che «come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme».23 Un parallelo si può ritrovare anche nei Quaderni del carcere di Gramsci e in particolare nella distinzione tra gli intellettuali organici, che sono orientati verso la trasformazione rivoluzionaria e il socialismo, e gli intellettuali tradizionali, apologeti teorici dello status quo24.

Losurdo è perciò nel giusto nell’interpretare Hegel come un pensatore politicamente in anticipo sui tempi; guidato, per così dire, da una visione riformista che i suoi allievi più vicini pagheranno a caro prezzo con l’imposizione dei repressivi decreti di Carlsbad. Il principale ostacolo alla sua interpretazione protomarxiana è però nella filosofia politica dello stesso Hegel. La Filosofia del diritto, infatti, era informata dal tentativo di recuperare l’unità dello Stato attraverso una dialettica interna di differenziazione che avrebbe finalmente dato alla particolarità moderna ciò che le spettava. Questo processo di differenziazione si dispiega nella sua forma più chiara nella disamina che Hegel compie della società civile e della divisione “organica” tra i tre ceti (e solo quei tre) rappresentati nella legislatura: la nobiltà ereditaria, il ceto imprenditoriale e il «ceto universale» dei funzionari pubblici (che includeva gli «operai della filosofia», come lo stesso Hegel). Come ognuno può capire, il desiderio di mantenere un sistema «razionale» di proprietà era non casualmente una reazione all’atomismo non mediato e agli eccessi egualitari della Rivoluzione francese e alla furia distruttiva che a essi era seguita.

Hegel fu certo abbastanza perspicace da riconoscere che la dialettica di differenziazione interna alla società civile produce anche una massa diseredata e nichilista che non si “sente a casa” nello Stato moderno e che non è rappresentata da nessuno dei ceti o delle corporazioni. Sebbene identifichi una serie di possibili soluzioni al problema della povertà moderna, in quanto distinta dal fenomeno del «bisogno naturale», infatti, egli confuta alla fine ognuna di queste soluzioni e deduce che «vien qui in evidenza che malgrado l’eccesso di ricchezza la società civile non è ricca abbastanza, cioè nelle risorse ad essa peculiari non possiede abbastanza per ovviare all’eccesso della povertà e alla produzione della plebe»25. Cosa significa questo? Il linguaggio di Hegel può sembrare ancor più sorprendente nell’aggiunta al § 244, che recita: «Contro la natura nessun uomo può affermare un diritto, ma nella condizione di società la mancanza acquista subito la forma di un’ingiustizia che viene arrecata a questa o a quella classe. L’importante questione, di come si debba sovvenire alla povertà, è una questione che muove e tormenta segnatamente le società moderne»26. Questi passaggi e le rispettive aggiunte possono certo suggerire un’interpretazione proto-marxiana e “plebea” di Hegel. Tuttavia, ci sono anche dei limiti intrinseci a una simile interpretazione che lo stesso Losurdo sembra in ogni caso riconoscere, proprio nella sua discussione conclusiva su Hegel e la povertà: «Indipendentemente dalle implicazioni politiche che da ciò scaturiscono, e di cui lo stesso Hegel non sembra pienamente consapevole, siamo comunque ben al di là della tradizione liberale che nella “natura” cerca semmai il suggello dell’agognata eternità di rapporti economico-sociali storicamente determinati»27. In sintesi, mentre Hegel è andato oltre la tradizione liberale, non poteva però spingersi avanti quanto Marx, filosofo egli sì realmente “plebeo” e rivoluzionario; e le ragioni di questo limite sono a mio avviso sia metodologiche che storico-temporali.

Dal punto di vista metodologico, i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel sono un’opera sincronica che ripercorre lo sviluppo logico del diritto a partire dal suo più rudimentale ancoraggio nel concetto di libera volontà e nella capacità umana di astrazione, passando attraverso la moralità fino all’eticità. Nella Prefazione all’opera, Hegel ricorda ai lettori che il suo approccio metodologico è esposto nella Scienza della logica. Le lezioni più rilevanti che Hegel ne deriva per la sua filosofia politica includono il ricorso al pensiero senza presupposti e alla critica immanente. Invece di partire da una concezione del diritto già completa, cioè, Hegel inizia da un’idea di diritto astratta e formale. Le crude limitazioni del diritto astratto e formale mostrano poi la necessità del movimento verso la moralità e dalla moralità verso l’eticità. La lezione interpretativa del metodo sincronico di Hegel è pertanto che ogni sfera del diritto va criticata sulla base dei suoi stessi criteri (cioè, in modo immanente) e che solo quando la si consideri nella sua assolutezza e autonomia se ne può mostrare l’imperfezione.

La critica all’assolutismo concettuale che abbiamo descritto sopra ha qui almeno tre principali modi di funzionamento. Nella sua discussione del diritto astratto, ad esempio, Hegel dimostra che la Repubblica di Platone viola il diritto della personalità, in quanto priva i guardiani della proprietà privata e li separa dalla loro famiglia. I limiti assolutistici dell’antica vita etica ateniese sono esemplificati dal desiderio di Platone di epurare Kallipolis da ogni anelito di particolarità che, indirettamente, vada oltre una concezione dell’eticità assai circoscritta. Come altro esempio c’è poi il diritto romano, che introduce il concetto di persona giuridica ma viene contraddetto dall’idea di pater familias, secondo la quale il padre si rapporta ai figli come un padrone si rapporta agli schiavi, violando, in tal modo, il diritto della personalità.

Sebbene Hegel critichi il formalismo del liberalismo classico e difenda il diritto di necessità, lo fa insomma principalmente perché convinto che il diritto astratto non dovrebbe essere assolutizzato e trattato come la forma definitiva del diritto. Ma questa intuizione metodologica implica che il diritto astratto, ivi compreso il diritto di proprietà privata, rimane indispensabile per lo sviluppo della più completa concezione del diritto che è inverata nel contesto dell’eticità. Di conseguenza, il rovescio della medaglia di questa stessa intuizione è, però, nel fatto che Hegel non può che respingere i tentativi di fondare lo Stato moderno sulla base del principio della proprietà comune, il quale è per lui pericolosamente errato e suscettibile di condurre al dispotismo. La lezione del diritto astratto è che la persona, come anche il diritto alla proprietà privata, devono essere rispettati in ogni Stato moderno degno di questo nome, sebbene non siano assolutizzabili nel contesto dell’eticità.

Un argomento ulteriore in questo senso. Sul piano storico-politico è importante riconoscere come la visione hegeliana dello Stato moderno non rispecchiasse nessuno Stato empiricamente esistente a quel tempo. La miglior conferma di questa affermazione è la discussione riguardo alle corporazioni, che a quei tempi non esistevano, né esistono nel mondo contemporaneo. Secondo alcuni recenti studi, le corporazioni, insieme all’autorità pubblica, erano intese da Hegel come le più efficaci risposte al controverso problema della povertà moderna di cui abbiamo appena parlato28. Ma mentre l’interesse per l’economia politica gli permetteva di dare un senso filosofico alle dinamiche interne della società civile, egli non avrebbe potuto prevedere le implicazioni politiche dell’avvento del capitalismo industriale, che non conobbe mai. Questa lacuna storicotemporale spiega perché secondo Hegel è precipuamente sul «ceto universale» dei funzionari pubblici e sulle istituzioni integrative dello Stato moderno che ricadeva il compito di ricomporre con successo la disunione scatenata dalla società civile (il mercato), senza con questo sacrificare il principio moderno della particolarità.

Sembra perciò che Hegel si sia infine riconciliato con l’idea che la povertà moderna fosse un sottoprodotto inevitabile della società civile, la quale è contemporaneamente l’oasi della differenziazione e della particolarità. Qualsiasi tentativo di interrompere il suo processo di integrazione mediante differenziazione avrebbe minato il punto di innesto della distinzione tra modernità e antichità, che costituisce la pietra angolare della sua filosofia politica e del suo audace tentativo di ritrarre lo Stato moderno come intrinsecamente razionale. È in questo senso che la filosofia politica di Hegel non poteva che essere figlia del suo tempo: «del resto, ciascuno è un figlio del suo tempo; così anche la filosofia, è il tempo di essa appreso in pensieri»29. È di certo apprezzabile che l’interpretazione losurdiana riconosca a Hegel di essersi spinto oltre la tradizione liberale, senza per ciò stesso aspettarsi che quest’ultimo facesse l’impossibile, vale a dire, «che un individuo salti il suo tempo, salti al di là di Rodi»30. A differenza di Hegel, però, noi abbiamo il vantaggio del senno di poi e possiamo saltare da Hegel a Marx ed Engels, per poi tornare al tentativo nietzscheano di invertire Hegel.

 

  1. Rivisitazione della critica di Marx al liberalismo e individuazione dell’ambivalenza critica di Losurdo da Controstoria del liberalismo a La lotta di classe

Il mio riferimento iniziale all’ambivalenza critica di Losurdo è volto a evidenziare alcuni importanti cambiamenti nel suo atteggiamento verso Marx e la tradizione marxista che si verificano tra la pubblicazione di Controstoria del liberalismo e quella di La lotta di classe. In verità, Marx è menzionato anche in Hegel e la libertà dei moderni, anche se lì Losurdo lo considera, per lo più, come giovane e talentuoso contributore alla tradizione iniziata da Rousseau e proseguita dal filosofo di Stoccarda. È soprattutto in La lotta di classe che Losurdo, nel considerare il pensiero marxiano, va oltre l’idea di un conflitto per interessi economici. Tuttavia, proprio per capire perché questa esigenza di espansione della teoria emerga proprio da una comparazione con i limiti del liberalismo, prima di analizzare questo testo conviene ancora una volta partire dalla trattazione che di Marx viene proposta in Controstoria del liberalismo, la quale è breve ma critica.

Losurdo sostiene che non si può comprendere adeguatamente la tradizione liberale, che si fa paladina dell’emancipazione nella «comunità dei liberi», senza considerare la deemancipazione che essa ha imposto a coloro che ha ritenuto inadatti a far parte di questa schiera. È da questa angolazione che Losurdo, gettando uno sguardo critico verso l’America, deduce che «negli Stati Uniti la democrazia emerge prima perché emerge come una democrazia Herrenvolk, come “democrazia per il popolo dei signori”» e sostiene che è sempre per tale ragione che «questa forma determinata si rivela così tenace da sopravvivere per molti decenni alla guerra di Secessione». Ovviamente, a suo avviso, «è ben difficile parlare della democrazia Herrenvolk come di una compiuta emancipazione politica»31. Ciò che però è più significativo per le finalità di questo saggio è che, nel passaggio citato, il vero bersaglio della critica di Losurdo non è soltanto il liberalismo ma in primo luogo proprio Marx e il racconto dell’emancipazione politica che questi compie ne La questione ebraica.

È sorprendente che il confronto critico di Losurdo con questo testo di Marx sia molto più decontestualizzato e depoliticizzato rispetto alla sua penetrante controstoria della tradizione liberale. Losurdo trasmette ai lettori l’impressione che la trattazione dell’emancipazione politica compiuta dal giovane Marx non si curasse del fatto che in America schiavitù e deemancipazione fossero realtà ancora presenti32. A ben guardare, però, Marx non trascurava affatto la realtà oppressiva della schiavitù in America, paese in cui, in alcuni casi, lo Stato era formalmente (politicamente) emancipato dai consolidati poteri della religione e della proprietà privata. Proprio perché ne era consapevole, infatti, Marx qui non scrive semplicemente «in Nord America» ma scrive che «solo nei liberi Stati dell’America del Nord almeno in una parte di essi [corsivo mio] – la questione ebraica perde il suo significato teologico per diventare una questione realmente mondana», concludendone che «solo là dove lo Stato politico esiste nella sua formazione compiuta, il rapporto dell’ebreo e in generale dell’uomo religioso, con lo Stato politico, vale a dire il rapporto della religione con lo Stato, può presentarsi nella sua peculiarità, nella sua purezza»33. Di conseguenza, prima di affrettarci a concordare con l’affermazione di Losurdo per la quale non si può ragionevolmente sottoscrivere la tesi di Marx per cui l’«emancipazione politica» americana rappresenterebbe un grande progresso, occorre esaminare con attenzione ciò che Marx effettivamente intendeva, in relazione alla cosiddetta «questione ebraica», quando si riferiva a uno Stato esistente nella sua formazione compiuta.

Quando parla di uno Stato moderno nella sua formazione compiuta, Marx ha in mente uno Stato che si è emancipato dai privilegi formalmente riconosciuti in precedenza a una particolare religione o classe sociale. Uno Stato moderno completamente sviluppato è uno Stato liberale che considera tutti i cittadini eguali davanti alla legge ed egualmente meritevoli di diritti civili e politici. Nel suo nucleo, lo standard giuridico di ogni Stato politicamente emancipato deve pertanto escludere lo schiavismo legalmente sancito che vigeva negli Stati del Sud prima della guerra di Secessione. In caso contrario non è possibile parlare, come fa Marx, di «libero Stato» nel senso forte di uno Stato moderno nella sua formazione compiuta. Un tale Stato sarebbe, piuttosto, uno Stato sottosviluppato e reazionario. Ma cosa ha a che fare uno Stato politicamente emancipato con la «questione ebraica»? Qualsiasi tentativo di rispondere a questa domanda richiede grande attenzione al contesto storico e politico. Per inciso, tra l’altro, proprio la «questione ebraica» così come intesa da Marx conferma la tesi di Losurdo per cui alcuni «gruppi sociali ed etnici» hanno continuato a subire dominio e discriminazione nonostante il trionfo della «rivoluzione liberale». Questo “difetto” della rivoluzione liberale, in altre parole, evidenzia già per Marx il potenziale e i limiti dell’emancipazione politica entro i confini dello Stato moderno sviluppato.

Prima di passare a La questione ebraica è utile dire qualcosa sull’esperienza storica di persecuzione religiosa subita dalla comunità ebraica renana e sulle discriminazioni politiche che ne derivarono. Negli ultimi anni, eminenti biografi di Marx hanno prestato maggiore attenzione all’emancipazione post-rivoluzionaria degli ebrei renani, che furono poi deemancipati dal Regno di Prussia nel 1815. Questo processo di deemancipazione ebbe un profondo impatto su quella comunità. Il padre di Marx, Heinrich – discendente da una famiglia rabbinica che aveva abbracciato l’umanismo liberale – fu costretto a convertirsi al luteranesimo per conservare il suo studio di avvocato. Tuttavia, il fratello di Heinrich, Samuel, portò avanti i suoi doveri rabbinici a Treviri ancora per molto tempo dopo che la moglie di Heinrich, il loro figlio Karl e gli altri figli erano stati battezzati34. In breve, le conseguenze della deemancipazione post-1815 furono tutt’altro che irrilevanti per gli ebrei renani35.

Questo aiuta a spiegare perché i capi della comunità ebraica della Renania si avvicinarono all’allora venticinquenne Karl Marx per domandare il suo sostegno a una petizione che richiedeva eguali diritti civili e politici per gli ebrei36. Dopo La questione ebraica Marx tornò poi su questo argomento ne La Sacra Famiglia, una polemica scritta insieme a Engels contro i fratelli Bauer e i loro sostenitori. Proprio la discussione che Marx svolge in quell’opera aiuta a meglio precisare e definire la posizione che egli sviluppava nel suo testo precedente. Marx individua un’ipocrisia nella repubblica costituzionale francese; quest’ultima infatti, seppur dichiaratamente laica, continuava a discriminare gli ebrei a causa della predominanza religiosa del cristianesimo37. Ebrei e cristiani erano considerati eguali agli occhi della legge francese, eppure Marx fa notare come gli ebrei, di fatto, fossero discriminati. Ora, questo fenomeno è strettamente connesso alla precedente intuizione di Marx sull’ipocrisia dello Stato cristiano moderno in relazione alla minoranza ebraica38, al punto che egli sostiene che il grado di emancipazione politica degli ebrei dovrebbe valere come punto di riferimento per valutare il livello di sviluppo generale degli Stati39.

Lungi dal sottostimare la deemancipazione che diversi gruppi etnici e nazionali stavano subendo, insomma, Marx sta reiterando l’idea che l’emancipazione politica è una condizione necessaria ma non sufficiente per l’emancipazione umana. A questo proposito, la sensibilità di Marx rispetto alla possibilità della deemancipazione non differisce significativamente dalla posizione assunta da Losurdo, il quale osserva che «oltre a non essere indolore, il processo storico sfociato nell’avvento della democrazia risulta tutt’altro che unilineare» e precisa che «l’emancipazione, e cioè l’acquisizione di diritti precedentemente non riconosciuti e non goduti, può ben essere seguita da una deemancipazione, e cioè dalla privazione dei diritti di cui gli esclusi avevano strappato il riconoscimento e il godimento»40. Le tragiche esperienze storiche degli ebrei in Germania, che Marx ben conosceva, ne sono un vivido esempio.

Losurdo spiega le motivazioni della sua critica a La questione ebraica di Marx in un’utile intervista del 2012 alla Platypus Affiliated Society. In questa intervista critica nuovamente il riferimento di Marx all’emancipazione politica nel contesto americano e ancora una volta non tiene conto della selettività del suo riferimento alla parte di «liberi Stati» americani (piuttosto che all’America del Nord nel suo complesso) in cui l’emancipazione politica era un termine applicabile almeno dal punto di vista concettuale. Losurdo sospetta invece che l’approccio “unilaterale” del giovane Marx alla questione dell’emancipazione politica (e la sua presunta disattenzione al problema della deemancipazione) fosse dovuto a una mancanza di familiarità con la storia americana. Ma nello stesso contesto chiarisce la base più ampia della sua critica, che si estende da Marx ed Engels alla tradizione marxista nel suo complesso, che è la cosa che più ci interessa riguardo al confronto con il liberalismo. Su questioni riguardanti lo Stato, il diritto e i diritti, Losurdo ritiene infatti che il marxismo sia fondamentalmente carente rispetto al liberalismo41. In particolare, mostra l’incapacità di questa tradizione di dare un senso teorico cogente alla necessità di una regolamentazione giuridica che limiti il potere arbitrario e protegga i diritti dopo il capitalismo.

Losurdo fa bene a rimarcare come questa lacuna teorica, specialmente per come essa emerge dall’opera del giurista sovietico Evgeny Pashukanis e di altri autori, abbia avuto conseguenze politiche devastanti in Unione Sovietica42. Mentre indica questi importanti punti ciechi nella tradizione marxista, avverte inoltre che «non possiamo leggere la tesi di Marx ed Engels [la tesi dell’estinzione dello Stato] in modo semplicistico»43. Nello spirito dell’insegnamento losurdiano, comunque, nei paragrafi che seguono dimostrerò brevemente che una lettura di Marx più produttiva e “caritatevole” mostra in realtà anche in quest’ultimo una preoccupazione più profonda per la legalità e i diritti di quanto non avvenga nella stessa tradizione liberale, soprattutto in condizioni di restaurazione autoritaria.

Se è vero che il futuro del diritto sotto il socialismo non è stato sufficientemente teorizzato da Marx e dai marxisti successivi, vi è infatti un senso preciso in cui Marx ha riconosciuto l’importanza della legalità e dei diritti in un frangente critico per il loro destino. Abbiamo già visto come La questione ebraica di Marx, spesso letta come un trattato contro i diritti, fosse scritta con l’obiettivo di difendere l’eguaglianza dei diritti civili e politici degli ebrei, in particolare di fronte alla feroce opposizione di pensatori come Bruno Bauer (l’ex mentore di Marx) e, soprattutto, dello Stato prussiano. La posizione di Marx sullo status della legalità e dei diritti dopo il capitalismo, allora, deve essere affrontata su due livelli, dato che egli non ci ha lasciato alcuno scritto esaustivo su questi argomenti. Il primo livello è testuale e si limita quindi a un’esegesi degli scritti che Marx ha pubblicato o non ha pubblicato in specifiche congiunture politiche. Il secondo livello si concentra invece su ciò che può essere logicamente dedotto dai suoi argomenti e obiettivi teorici. Per quanto riguarda il lato testuale, si deve prestare attenzione alla posizione di Marx sul valore della legalità e dei diritti durante le rivoluzioni del 1848 – in particolare nelle due Germanie, contesto in cui Marx era politicamente immerso. E bisogna notare come già prima della Rivoluzione di marzo Marx sottolineasse il valore politico della legalità e dei diritti del proletariato.

Per mettere le cose in prospettiva, questo accadeva in un momento in cui i giornali socialisti rivali liquidavano la legalità e i diritti come inganni borghesi. Marx sosteneva una visione diversa:

«Il proletariato non si potrebbe certo interessare ai privilegi degli stati feu- dali. Ma una Dieta che chiede giurie popolari, eguaglianza di fronte alla legge, abolizione delle servitù, libertà di stampa e una reale rappresentanza, una Dieta che abbia rotto una volta per sempre col passato e che abbia conformato le sue rivendicazioni secondo le esigenze dei tempi, una Dieta così potrebbe contare sul più energico appoggio del proletariato»44.

Questa posizione di Marx sui diritti civili e politici rimarrà sempre invariata. Egli sosterrà, ad esempio, che una stampa libera rimane una forza reale contro gli abusi arbitrari del potere da parte dello Stato e dei suoi funzionari. Quando la questione della libertà di stampa tornerà in gioco, formulerà questo avvertimento:

«A partire dal giorno in cui questa legge entrerà in vigore, i funzionari potranno commettere impunemente qualsiasi atto arbitrario, tirannico, illegale; potranno impunemente picchiare e far picchiare, arrestare, detenere senza interrogatorio; l’unico controllo efficace, la stampa, è reso inefficace. Il giorno in cui questa legge entrerà in vigore, la burocrazia potrà festeggiarlo con gioia: sarà più potente, meno ostacolata, più forte di quanto non fosse prima di marzo»45.

Questo la dice lunga sull’opinione convenzionale per cui Marx non si sarebbe preoccupato degli abusi del potere esecutivo. Va inoltre riconosciuto che ogni discussione sul diritto e i diritti dopo il capitalismo deve partire dalla premessa che il comunismo fu concepito da Marx (ed Engels) come un movimento in divenire, che attinge a premesse già esistenti, piuttosto che come un ideale o un’utopia che debbano essere impressi dall’alto sulla realtà sociale. Per questo motivo, è ai movimenti politici contemporanei e alle lotte contro il capitalismo che si deve guardare, per comprendere come potrebbero strutturarsi il diritto e i diritti oltre il capitalismo. Né Marx né Engels possono offrire indicazioni certe rispetto a quale potrà essere il loro contenuto nel comunismo46.

Proprio tenendo conto dei risultati emersi nella Controstoria, assieme alla lotta per la trasformazione delle condizioni sociali e degli individui, in La lotta di classe Losurdo sarà più disponibile ad apprezzare gli scritti in cui Marx ed Engels si confrontano con la tradizione liberale. Come vedremo nella prossima sezione, la differenza decisiva tra Nietzsche e i fondatori del marxismo classico può invece essere ricondotta alle loro opposte “reazioni” verso l’eredità lasciata da Hegel. Marx ed Engels condividevano la dialettica hegeliana della lotta per il riconoscimento e cercavano di estenderne gli esiti oltre l’eguaglianza dei diritti liberale47; e cioè essi estendevano il potenziale che emerge dalla conquista del moderno concetto di persona oltre i limiti della “comunità dei liberi”. Nietzsche fa la mossa esattamente opposta.

 

  1. Un degno avversario: il tentativo di Nietzsche di invertire la filosofihegeliana e il “punto dapprodo della filosofia classica tedesca

Secondo Losurdo, Nietzsche era un pensatore politico da capo a piedi. Le convinzioni politiche di Nietzsche erano “reazionarie” nel senso classico della parola, nonché guidate da un radicalismo aristocratico che non ha eguali tra i filosofi moderni. Questa, che per alcuni può sembrare una tesi intuitiva, contrasta con le interpretazioni oggi prevalenti di Nietzsche come filosofo del “prospettivismo”, aperto a diverse concezioni della moralità ma sempre apolitico. Tali interpretazioni di Nietzsche, colpevoli, nella formulazione di Losurdo, di un’«ermeneutica dell’innocenza», non potrebbero però essere più lontane dalla verità. Nietzsche costituisce il più formidabile critico di Hegel. La sua politica di radicalismo aristocratico e la sua “reazione” ai movimenti politici del proprio tempo erano parte integrante di un maestoso tentativo di invertire il percorso dialettico tracciato da Hegel mediante la lotta per il riconoscimento tra servo e signore. Ragion per cui – ed è per tale motivo che questo autore rientra in questo saggio – Nietzsche deve essere considerato come il più valido avversario della filosofia classica tedesca e per certi aspetti come il suo vero “punto d’approdo”.

Come per Hegel, sono state formulate interpretazioni opposte anche per il pensiero di Nietzsche, i contenuti delle quali sono variati notevolmente a seconda dei periodi storici. Gli interpreti più ostili alle sue posizioni furono probabilmente Bertrand Russell (nel suo libro del 1945, Storia della filosofia occidentale) e György Lukács (con la sua opera del 1954 La distruzione della ragione). Nonostante le loro notevoli differenze filosofiche e politiche, Russell e Lukács scrivevano entrambi per contrastare le ombre ancora visibili del nazismo. Anche se nessuno dei due si concentrò esclusivamente su Nietzsche, entrambi interpretarono la sua prospettiva filosofica come un’ispirazione per il movimento che trovò espressione nella politica genocida del Terzo Reich. Questa condanna suscitò da subito, però, interpretazioni diametralmente opposte, ad esempio da parte di Walter Kaufmann, il cui classico del 1950 Nietzsche: filo- sofo, psicologo, anticristo può essere considerato come il libro che, con successo, “riabilitò” Nietzsche rispetto al nazismo. Vale la pena di notare che il sottotitolo di questo libro, in modo rivelatore, esclude proprio ogni considerazione di Nietzsche come pensatore e attore politico. Per quanto lodevole fosse questo contributo all’epoca in cui apparve, la sua interpretazione era dunque sovradeterminata dalla necessità di diminuire la forza della retorica politica di Nietzsche, finendo per “passare una mano di bianco” sulle sue reali posizioni politiche ogni volta che i suoi pronunciamenti non erano in accordo con la sensibilità popolare del dopoguerra. Questa tendenza a interpretare Nietzsche in modo apolitico si è da qui estesa alle letture “postmoderniste”, come quella di Alexander Nehamas nel suo influente Nietzsche, La vita come letteratura, che paragona l’opera di Nietzsche a un esercizio di autocreazione letteraria. Tali interpretazioni di Nietzsche enfatizzeranno la dimensione estetica del suo lavoro a spese di quella normativa e politica, come se queste fossero in qualche modo non correlate. Nietzsche ha esclamato in Al di del bene e del male che «non esistono affatto fenomeni morali, ma soltanto una interpretazione morale di fenomeni»48, ma questo suo prospettivismo era informato dalla profonda convinzione che certi modi di vivere fossero nettamente superiori ad altri, anche se il loro perseguimento (che egli approvava vivamente) avrebbe portato a ridurre di nuovo in schiavitù la maggior parte della popolazione umana. In questo senso, il prospettivismo di Nietzsche era tutt’altro che una preferenza estetica. Il tema del “gusto”, del resto, porta con sé importanti implicazioni politiche che non dovrebbero essere ignorate, quando si ha a che fare con un pensatore di tale audacia49. Oltre ad essere un filosofo, uno psicologo e un anticristo, Nietzsche era perciò indiscutibilmente anche un pensatore politico, che cercava di portare l’umanità a «prendere nuove strade»50. E in questo senso era mosso dall’obiettivo di riunire teoria e pratica non meno di quanto lo fossero Marx ed Engels51.

Ma ciò che distingue il Nietzsche di Losurdo dalle interpretazioni concorrenti che hanno già affrontato questo tema è che egli tratta Nietzsche come un pensatore e un attore in primo luogo politico e cioè come un autore che pensa a partire dalle controversie politiche del suo tempo. Da questa prospettiva, Losurdo è allora in grado di comprendere Nietzsche come un formidabile avversario, separando da qui in avanti l’analisi scientifica dall’impegno ideologico. Il fascino che Nietzsche ha esercitato su di lui, durato tutta la vita, attesta così la rara capacità dello storico italiano (rispetto a molti autori della tradizione marxista) di imparare da avversari di valore.

Se Losurdo non è certo il primo autore a notare quanto la Comune di Parigi avesse turbato Nietzsche, è tra i pochi a suggerire che le preoccupazioni di Nietzsche a riguardo possano essere fatte risalire già a La na- scita della tragedia. La sua reazione alla Comune è illuminante su diversi livelli. In primo luogo, le inquietudini di Nietzsche riguardo alle minacce alla civiltà poste dai comunardi di Parigi riflettono il suo peculiare rapporto con il movimento liberale: un rapporto iniziato con un’approvazione condizionata, seguito da un crescente scetticismo dovuto all’avvicinamento del liberalismo al movimento democratico e finito con un disconoscimento di quei liberali che intendevano coalizzarsi con l’ambizione socialista di creare la «bestia nana fornita di eguali diritti ed esigenze»52. In secondo luogo, quella reazione è rivelatrice rispetto alle sue opinioni sul movimento socialista. Losurdo ha ragione nel sottolineare che Marx e Nietzsche non si conoscevano, ma questo non ha impedito a nessuno dei due di commentare indirettamente le posizioni dell’altro attraverso la lente dei loro contemporanei53. La Comune di Parigi offre perciò agli studiosi l’opportunità di confrontare il modo in cui ciascun pensatore ha reagito a questo evento «storico-mondiale» e le implicazioni che esso ha avuto per le rispettive teorie politiche. E su questo piano non possono esserci dubbi: Nietzsche vedeva inquietanti collegamenti tra il 1789 e il 1871 e leggeva queste date come momenti in cui si riaffermava il disastroso trionfo della morale degli schiavi con le sue implicazioni nichiliste.

Nietzsche era profondamente turbato dai pericoli che la Comune poneva per il futuro della “cultura”, che egli considerava privilegio di pochi. La nascita della tragedia è solitamente interpretata come un’opera apolitica; ossia come un originale e provocatorio confronto tra i due movimenti rivali che caratterizzavano il pensiero greco antico, in cui Nietzsche va ad abbracciare la prospettiva “tragica” piuttosto che visione “razionalistica” del Socrate di Platone. Il motivo di fondo de La nascita della tra- gedia non può però essere astratto dall’evento politico cruciale del suo tempo e dai legami che Nietzsche cominciava allora a tracciare tra il platonismo, l’ebraismo, la Rivoluzione francese e i pericoli posti dalla Comune. Non deve sorprendere, allora, che il primo Nietzsche sostenesse un’idea di “liberalismo nazionale” che, nell’affermare una visione moderatamente tragica della vita, cercava altresì di riportare all’ordine le forze indisciplinate del movimento democratico54.

Il liberalismo è costretto a convivere con eterne “contraddizioni”, abbracciando “mali necessari” e adottando una concezione molto circoscritta del “possibile in ambito sociale e politico”: alla luce di questo, è meno difficile capire perché, secondo Losurdo, il primo Nietzsche sia stato tanto ricettivo rispetto alla visione tragica della vita affermata dal liberalismo. Per comprendere meglio queste affinità elettive in questa fase del suo sviluppo intellettuale, si deve considerare proprio l’indisciplinata marea di ottimismo contro cui egli dirigeva la sua polemica. Il socratismo e l’ebraismo condividevano un comune ottimismo sulla capacità degli esseri umani di trascendere attraverso la ragione le circostanze dettate dalla natura e di superare la stessa sofferenza. Sia il socratismo che l’ebraismo rinunciano perciò alla “prospettiva tragica”, in cui Nietzsche identificava la vita sic et simpliciter. Da questo punto di vista, il fatto che il liberalismo si fondasse sull’idea della fallibilità umana, assieme al fondamentale pessimismo di questa teoria politica riguardo alle possibilità della politica, non potevano che risultare per lui ben più attraenti delle concomitanti e minacciose alternative democratico-socialiste.

L’apertura di Nietzsche alla variante europea del “liberalismo nazionale” fu particolarmente evidente dopo che la Comune di Parigi venne repressa nel sangue e mentre la Terza Repubblica francese sembrava in grado di pacificare qualsiasi minaccia residua55. Secondo l’interpretazione di Losurdo, in questa fase Nietzsche era persino disposto a considerare l’idea di estendere il suffragio maschile, ritenendolo una possibile base per un’ulteriore pacificazione e stabilizzazione: «l’importante è però – osserva Nietzsche – che non si confondano mezzi e fini. La democrazia non è un fine in sé, ed è probabile o auspicabile che non lo sia neppure per coloro che ad essa dicono di volersi ispirare»56. In questo senso, condivideva per intero la distinzione tra liberalismo classico e democrazia.

La ricettività di Nietzsche nei confronti del liberalismo, durante questo periodo, andava del resto di pari passo con la denuncia dell’istruzione pubblica e della partecipazione politica attiva, che egli curiosamente associava agli insegnamenti di Platone e al livellamento sociale ispirato dai giacobini57. Essa era però soprattutto radicata nella sua profonda ostilità verso il “socialismo” e nel timore che il potere pubblico finisse per inglobare l’individuo. In alcuni passaggi Nietzsche suona persino come un “neoliberale” avant la lettre, poiché mostra di possedere una chiara concezione del rapporto dello Stato con l’economia e dei suoi necessari confini58. In altre parole, Nietzsche si schierava con il liberalismo classico nell’opporsi a quello Stato sociale che cercava di intervenire sull’economia per alleviare le forme oggettive della sofferenza e degradazione umana59. Non diversamente da Locke nel suo Essay on the Poor Law, considerava perciò le agitazioni e i disordini sollevati dai lavoratori come una questione di «individui malriusciti, tarati, interiormente bacati»60. Di conseguenza, mentre era disposto ad accettare il suffragio maschile come prevenzione di ogni ulteriore possibile Comune di Parigi, egli si opponeva risolutamente, al contempo, a qualsiasi sforzo riformatore volto a espandere il potere collettivo dei lavoratori e del sempre più vasto movimento socialista teso a promuovere i loro interessi61.

Il “matrimonio” di Nietzsche con il liberalismo non arrivò però alla sua “terza fase”, proprio a causa della dialettica di emancipazione e deemancipazione di questa teoria politica. Proprio le riluttanti concessioni del liberalismo classico al proto-Stato assistenziale, cioè, portarono Nietzsche ad allontanarsi da un movimento con il quale, pure, aveva in precedenza trovato una causa comune. Adesso, dirà, «non siamo assolutamente “liberali”, non lavoriamo per il progresso, non abbiamo bisogno di tapparci le orecchie contro le avveniristiche sirene del mercato – quel che esse cantano, “eguaglianza dei diritti”, “libera società”, “basta con i padroni e con gli schiavi”, non ci attira»62. Siamo così di fronte alla prospettiva “matura” di Nietzsche, che concepisce ora il platonismo, la tradizione cristiano-giudaica, il socialismo e persino lo stesso liberalismo come fratelli che si sono nutriti allo stesso corrotto albero del risentimento. Facendo gli avvocati del diavolo, si potrebbe allora dire che Nietzsche non ha lasciato il “movimento liberale” ma che, piuttosto, il movimento liberale ha lasciato Nietzsche, gettando con le sue concessioni nuova benzina sul fuoco rivoluzionario del socialismo. Non poteva esservi un tradimento peggiore, per lui, che vedere il liberalismo porre fondamenta politiche e culturali in favore della rivoluzIone.

L’allontanamento di Nietzsche dal liberalismo può essere compreso fino in fondo, però, solo se si prende sul serio la sua dichiarata opposizione a un mondo in cui non ci siano più padroni e schiavi e dunque il suo anti-hegelismo di fondo. Hegel aveva abbracciato la Rivoluzione francese come un punto di svolta decisivo nella lotta per la libertà, che era iniziata con la dialettica di signoria e servitù e puntava a un nuovo mondo senza servi e senza padroni. L’opera di Hegel produsse proprio per questo un’impressione profondamente negativa su Nietzsche, in quanto dava voce al protagonista che più di ogni altro egli disprezzava e a una visione del mondo che aborriva. Così parlò Zarathustra, Al di del bene e del male, La genealogia della morale e L’Anticristo, evidenziano esattamente questo: la sua ossessione per il pathos della distanza tra servi e signori, il rifiuto del mondo inaugurato dalla rivolta degli schiavi, la necessità di introdurre una nuova rivoluzionaria “filosofia del futuro” che ripristini la distanza tra servi e padroni. È esattamente il proposito di invertire la Fenomenologia dello spirito di Hegel, quell’immane programma implicito che ha attirato l’attenzione di Losurdo63.

Il disaccordo di Nietzsche con Hegel derivava in realtà già dalle lezioni diametralmente opposte tratte dal mondo antico. Mentre Hegel vedeva l’antica polis come una circoscritta comunità etica che non permetteva la fioritura dell’individuo autonomo, Nietzsche anelava al ritorno a un regime cetuale in cui si rinunciasse al concetto moderno di persona64. In questo senso, Nietzsche si distingueva da Hegel e dalla tradizione della filosofia classica tedesca per il suo posizionamento da “antimodernista moderno”. La sua prospettiva implicava la rinuncia all’eredità emancipatrice della Rivoluzione francese e il rifiuto di qualsiasi movimento che prendesse come punto di partenza l’eguaglianza formale degli esseri umani. Anche il liberalismo classico, con cui Nietzsche si era precedentemente identificato, non era a questo punto più tollerato, in quanto predicava la medesima, disprezzata dottrina dell’eguaglianza quantomeno formale. Nietzsche si rese conto però che la filosofia che celebrava la modernità poteva essere sovvertita solo mediante il ricorso a una filosofia ancor più potente, ma dagli obiettivi decisamente antimoderni65. Ed è esattamente questo antimodernismo moderno di Nietzsche che rivela, per Losurdo, l’unità e la coerenza, altrimenti nascoste, del suo pensiero66. Per comprendere adeguatamente Nietzsche dobbiamo comprendere il suo tentativo di invertire Hegel e dobbiamo guardare perciò alle “radici” del problema ne La genealogia della morale, quella che, nonostante l’opposizione di Nietzsche ai “sistemi”, rimane la sua opera più sistematica.

È sorprendente vedere, allora, come il punto di partenza di Nietzsche si ponga qui in esatto parallelo con la discussione di Hegel di signoria e servitù nella Fenomenologia. Nietzsche si rivolge all’etimologia ma, proprio come Hegel, prende le mosse dal pathos della distanza tra i signori, abbastanza potenti da imporre i loro valori come legge, e i servi, subordinati per debolezza fisica alla volontà del più forte. Nietzsche pone poi l’attenzione sull’inversione dei concetti di “buono” e “cattivo” in “cattivo” e “buono”, sviluppando una compiuta analogia con l’inversione dialettica della figura di signoria e servitù, in cui il servo ha infine il sopravvento rispetto al signore e aggiungendo la spiegazione per cui questo capovolgimento non è avvenuto perché gli schiavi siano riusciti a “sopraffare” i padroni, ma solo tramite una “vendetta spirituale” motivata da un enorme risentimento.

Tando odio per gli schiavi, in ogni caso, non dovrebbe far dimenticare la sua ammissione che «la storia umana sarebbe una cosa veramente troppo stupida senza lo spirito che da parte degli impotenti [gli ebrei] è venuto in essa»67. Né l’affermazione per cui «nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori»68. Queste non sono parole di disprezzo: per quanto controvoglia, Nietzsche attribuisce in realtà proprio agli schiavi il merito di aver introdotto la profondità nella vita umana; e va anche oltre, sottolineando la vittoria decisiva della Giudea su Roma69. Certo, aborriva il compimento della dialettica hegeliana (l’ascesa della morale dei servi e della progenie di essa, la modernità democratica); ma al tempo stesso non poteva che concedere riconoscimento all’eredità storico-mondiale degli schiavi stessi, che avrebbe ispirato la Riforma protestante e la Rivoluzione francese.

Non è affatto una coincidenza, insomma, che l’approccio genealogico di Nietzsche segua da vicino la fenomenologia dialettica di Hegel, sebbene invertendo il giudizio di valore tra le parti in causa. È interessante notare, poi, che sia Hegel che Nietzsche pongono l’accento sui meriti di Napoleone, per quanto per ragioni diametralmente opposte. Per Hegel, Napoleone rappresenta lo «spirito del mondo a cavallo», che annuncia una nuova era di libertà ed eguaglianza; Nietzsche, al contrario, considera Napoleone come «l’ultimo aristocratico» e il migliore esito emerso da quella disprezzata rivoluzione. Anche Nietzsche, in ogni caso, non si accontenta della descrizione dell’orrendo fait accompli. Per segnare adeguatamente la distanza tra il sottouomo e il superuomo, egli doveva proporre qualcosa al posto della decadente morale degli schiavi. Quando pubblicò Al di del bene e del male aveva ben chiaro, dunque, ciò contro cui si batteva. Nietzsche ci dice che «il cristianesimo è un platonismo per il popolo»70 e, successivamente, che «il movimento democratico costituisce l’eredità di quello cristiano»71. La confluenza che per il primo Nietzsche vi era tra il platonismo (o socratismo), la tradizione cristianogiudaica e il minaccioso movimento democratico, è riaffermata così con forza e in modo indiretto fin nella sua opera matura72; con la differenza che egli ora include anche il liberalismo oltre al socialismo nella sua sempre più lunga lista di nemici mortali, a causa, in particolare, della loro comune visione del futuro73.

La preoccupazione di Nietzsche di fronte all’avanzata del socialismo è presentata anche in Così parlò Zarathustra come scelta fatale tra il retrogrado «ultimo uomo» e il lungimirante «superuomo». L’«amore» incondizionato di Nietzsche per il superuomo è saldamente radicato, però, nella sua celebrazione dell’ineguaglianza e della sofferenza come fatti naturali e desiderabili, tanto che Zarathustra afferma che «“Gli uomini non sono uguali”. E neppure debbono diventarlo! Che sarebbe il mio amore per il superuomo se io parlassi diversamente?»74. Altrettanto vivido è il ritratto poco lusinghiero che Nietzsche traccia dello spregevole «ultimo uomo»75, che importanti implicazioni avrà per la politica reazionaria successiva76. In sintesi, tutte le strade riconducono Nietzsche alla dialettica hegeliana di signoria e servitù, con la decisiva differenza che egli cercava di capovolgere le conquiste della “rivolta degli schiavi” e di dare spazio a una nuova «morale dei padroni», al superuomo che avrebbe portato l’umanità su nuovi/vecchi binari. Losurdo è pertanto pienamente nel giusto quando sostiene che Nietzsche non poteva immaginare un mondo senza padroni né servi. Dopotutto, il realizzarsi del «superuomo» (Übermensch) richiederà sempre, come suo corollario, una classe subordinata di “sottouomini” (Untermenschen), il che è l’esatto contrario della prospettiva avanzata da Hegel e dalla filosofia classica tedesca. D’altra parte, avrebbe Nietzsche potuto lanciare una sfida tanto ambiziosa a questa tradizione se non vi fosse stato immerso lui stesso, per quanto contro la sua stessa volontà?

 

  1. Il complesso rapporto di Losurdo con il liberalismo e il nostro

Il rapporto critico di Losurdo con il liberalismo è strettamente connesso alla doppia tendenza di emancipazione e deemancipazione inerente alla tradizione liberale. Come abbiamo visto, Losurdo sottolinea anche i meriti del liberalismo rispetto al marxismo, almeno quando si tratta della protezione giuridica delle libertà e delle funzioni di coordinamento dei mercati. Mentre è certamente vero che, con scarsa utilità, l’atteggiamento della tradizione socialista verso i mercati ha oscillato tra scetticismo e ostilità77, Losurdo è irremovibile sul fatto che non possa esservi un futuro socialista oltre il mercato78. E proprio questa tesi informa la sua visione favorevole della traiettoria di sviluppo intrapresa dal Partito comunista cinese in seguito alle riforme “liberalizzanti” di Deng Xiaoping, sullo sfondo dell’egemonia imperialistica americana: Losurdo interpreta tali riforme addirittura in termini analoghi alla Nuova politica economica (NEP) che fu intrapresa da Lenin79.

C’è da chiedersi se questo atteggiamento tanto favorevole al mercato non porti a trascurare il significato che Marx aveva attribuito alla democratizzazione dell’economia nella forma dell’autogestione operaia. Lungi dal dare credito a questa intuizione, Losurdo critica Marx ed Engels per essere scivolati qui, nella loro lungimirante visione del comunismo, in una sorta di «idealismo della prassi»80. Nel suo apprezzamento dei mercati (anche a quelli socializzati) non c’è però il pericolo opposto, ossia quello di trascurare il fatto che i mercati non generano democrazia né autodeterminazione collettiva, e nemmeno il libero sviluppo degli individui celebrato da Marx ed Engels come dalla tradizione della filosofia classica tedesca81? Come abbiamo esperito, riforme favorevoli ai mercati sono state spesso varate proprio con l’obiettivo di limitare la democrazia e inibire il libero sviluppo degli individui. E in questa prospettiva, in La lotta di classe Losurdo mi pare trascurare una delle intuizioni politiche più originali di Slavoj Žižek, e cioè il fatto che è stata semmai la tradizione liberale a imparare dalla sua controparte “comunista” contemporanea (ossia la Cina) che livelli senza precedenti di crescita economica ed efficienza possono essere raggiunti anche senza rispettare i diritti formali “borghesi” e le libertà politiche82.

Da questo punto di vista, le democrazie liberali capitalistiche, oggi diffusamente caratterizzate da diseguaglianze di classe e da forme di esclusione, possono permettersi di fare a meno della democrazia e dei diritti politici in modi che sarebbero stati impensabili nel lontano passato. Invece di esaltare il potere correttivo dei mercati (socialisti o meno), sarebbe importante, allora, che questi fossero sottoposti al controllo democratico. Ed è proprio in questo senso, a mio avviso, che i socialisti dei nostri giorni dovrebbero essere più “liberali” dei liberali nel difendere contro ogni assalto autoritario i diritti conquistati. Cominciando magari con il prestare maggiore attenzione alle lezioni pratiche che Marx ed Engels ci hanno trasmesso a proposito della restrizione delle libertà nel periodo 1848-49 e traendone le conseguenze oggi, in un momento in cui il liberalismo si trova sotto attacco da parte di una folta schiera di avversari politici antiliberali, tra cui i fascisti nuovamente risorti.

Non è più possibile, purtroppo, confrontarsi con Losurdo su queste tematiche. Ricordiamo però che egli conclude La lotta di classe chiedendo ai lettori di andare oltre ogni concezione binaria e riduzionista del conflitto e di sottrarsi alla «nostalgia» populista della «pienezza originaria» del popolo contro le élite83, proprio per salvare «uno strumento essenziale al tempo stesso per la comprensione del processo storico e per la promozione delle lotte di emancipazione»84. Il complesso rapporto di Losurdo con il liberalismo, alla fine, non è allora altro che il tentativo di usare questo strumento per far luce sulle contraddizioni del pensiero e della pratica politica liberale moderna: dando voce a un orientamento critico verso il mondo e con la volontà di rendere la filosofia “reale”, esso si appella alla perdurante eredità della filosofia classica tedesca e alle sfide politiche che questa è ancora oggi chiamata ad affrontare.


Trad. it. di Eleonora Piromalli, Università di Roma “La Sapienza”.

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Note
1 Cfr. LÖWITH 2000.
2 Cfr. ENGELS 2009.
3 LOSURDO 2005, p. viii.
4 Ibid.
5 Ivi, p. 3.
6 Cfr. KANT 2006, pp. 248-249.
7 Cfr. BUCK-MORSS 2005.
8 Cfr. BURKE 2020.
9 LOSURDO 1992, p. 140.
10 Ibid.
11 HEGEL 1981, pp. 202-203.
12 CONSTANT 2001, p. 19.
13 LOSURDO 1992, p. 140.
14 Cfr. BEINER 2018.
15 LOSURDO 1992, p. 2004.
16 Ivi, p. 183.
17 Cfr. KANT 1997, 4:429, p. 91.
18 LOSURDO 1992, pp. 105-106.
19 Ivi, pp. 159-160.
20 Ivi, p. 204.
21 Ivi, p. 190.
22 Ivi, p. 188.
23 MARX—ENGELS 1962, p. 72.
24 Cfr. GRAMSCI 1975, pp. 1550-1551.
25 HEGEL 2004, § 245, p. 188.
26 Ivi, aggiunta al § 244, pp. 355-356.
27 LOSURDO 1992, p. 195.
28 Cfr. BRUDNER 2017.
29 HEGEL 2004, p. 15.
30 Ibid.
31 LOSURDO 2005, p. 316.
32 Cfr. Ibid.
33 MARX 1954b, pp. 53-54.
34 Cfr. AVINERI 2019, p. 12.
35 Ivi, p. 8.
36 Cfr. MARX 1980, p. 420.
37 Cfr. MARX, ENGELS 1972, pp. 150-151.
38 Ivi, p. 145.
39 Ivi, p. 144.
40 LOSURDO 2005, p. 337.
41 Cfr. LOSURDO 2012.
42 Cfr. HAZARD 1951.
43 LOSURDO 2012.
44 MARX 1973, p. 240.
45 MARX 1974, p. 258.
46 Cfr. SHOIKHEDBROD 2019.
47 Cfr. LOSURDO 2013, p. 101.
48 NIETZSCHE 1968a, aforisma 108, p. 75.
49 Cfr. ANDREW 1985.
50 NIETZSCHE 1968a, aforisma 203, p. 103.
51 Cfr. LOVE 1986; ANDREW 1975.
52 NIETZSCHE 1968a, aforisma 203, p. 104.
53 LOSURDO 2002, p. 432.
54 Ivi, p. 311.
55 Ivi, p. 312.
56 Ivi, p. 313.
57 Cfr. ivi, p. 317.
58 Cfr. ivi, p. 352.
59 Ibid.
60 Ibid.
61 Cfr. ivi, p. 349.
62 LOSURDO 2002, p. 354.
63 Cfr. ivi, p. 358.
64 Cfr. ivi, p. 1058.
65 Cfr. ivi, p. 370.
66 Cfr. ivi, p. 898.
67 NIETZSCHE 1968b, saggio 1, aforisma 7, p. 232.
68 Ivi, saggio 1, aforisma 10, pp. 235-236.
69 Ivi, saggio 1, aforisma 16, pp. 250-252.
70 NIETZSCHE 1968a, p. 4.
71 Ivi, aforisma 202, pp. 101-102.
72 Cfr. ivi, aforisma 203, p. 103.
73 Ibid.
74 NIETZSCHE 1973, p. 121.
75 Cfr. ivi, pp. 11-12.
76 Cfr. LANDA 2018.
77 Cfr. LOSURDO 2013, p. 251.
78 Cfr. ivi, p. 258.
79 Cfr. ivi, p. 255.
80 Ivi, p. 241.
81 Cfr. WOOD 2014.
82 Cfr. ŽIŽEK 2021.
83 LOSURDO 2013, p. 338.
84 Ivi, p. 364.

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Franco Trondoli
Monday, 17 October 2022 13:15
Lo "studioso" in questione pare non aver preso in considerazione nessuna pubblicazione di Gilles Deleuze su Nietzsche.
In particolare il libro "Nietzsche e la Filosofia".
Tantomeno gli Studi Italiani, su Nietzsche stesso, di Mazzino Montinari e Giorgio Colli.
Non esiste pluralismo di "discussione" Filosofica se non si presentano all'attenzione studi e considerazioni complementari e/o alternative.
Le cause possono essere due:
1) l'articolista non conosce i diversi approcci.
Oppure:
2) decide in maniera unilaterale di dare delle "interpretazioni soggettive", e quindi ideologiche, che a lui interessano.
In entrambi i casi, non si fa un "buon lavoro Filosofico".
Ma, in maniera surrettizia, oggettivamente, si fa "politica" di bassa levatura.
Cordiali Saluti
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