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Resilienza: adattarsi a un mondo tossico

di Silvia Guerini

imagesjuygbnjkoL’ultimo uomo è l’umano resiliente in perfetta sintonia con i dettami di Davos: dinamismo resiliente era una frase lanciata dal WEF nel 2013. Schwab delinea una società più inclusiva, resiliente e sostenibile. Non è un caso che il piano nazionale per l’economia approvato nel 2021 in Italia dopo la pandemia dichiarata al fine di velocizzare la transizione ecologica e digitale sia stato chiamato Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La parola resilienza entra così a pieno titolo nel leitmotiv di inclusività e sostenibilità. In perfetta sintonia con la fluidità che deve contraddistinguere ogni cosa e diventare una caratteristica di ogni individuo.

La resilienza in ingegneria si riferisce alla proprietà dei metalli di assorbire un urto seguendo il corso delle deformazioni senza spezzarsi. Così, come per i metalli, all’umano nelle nuove geometrie del mondo tecnomorfo viene chiesto di diventare poroso per assorbire ogni tipo di tossicità e di diventare plastico in grado di deformarsi senza più tenere memoria del suo stato originario. Dalla meccanica dei corpi alla meccanica dello spirito per una sopportazione dell’insopportabile.

In ambito psicologico la resilienza rappresenta la capacità di attraversare e superare dei traumi, per riuscire a far fronte a delle situazioni immodificabili come l’avvento di un tumore o la morte di una persona cara.

Quando alcune parole vengono fatte proprie dal potere chiediamoci cosa andranno poi a significare e cosa andranno a rappresentare nelle trasformazioni e metamorfosi messe in atto dal potere stesso. La resilienza, da qualità che può essere considerata positiva in ambito strettamente psicologico, viene resa modus operandis, ideologia, imperativo dominante.

Per esserci resilienza deve esserci un trauma, questo già dovrebbe bastare per rendersi conto che il fine è far sopportare alle persone un esistente traumatico. Una peculiarità della resilienza su cui fa leva il potere è il suo riferirsi a un fenomeno irreversibile. Qui sta il punto: la resilienza viene universalizzata ed estesa a un contesto sociale che invece non è irreversibile.

La resilienza si estende occupando fino a non rendere possibili e immaginabili gli spazi e le tensioni di resistenza e rivolta. Rientra così a pieno titolo nell’unico orizzonte di senso che dissolve ogni spigolo in quel livellamento globale in cui tutto deve scorrere fluido senza scosse e senza sussulti di rivolta. Ma gli spigoli, se pur piccoli, sono in grado di penetrare e creare fessure che possono allargarsi e rompere quel che si riteneva indistruttibile.

La resilienza è un’accettazione dell’esistente che non è considerato giusto, ma intrinsecamente immodificabile. Di conseguenza non si metterà in atto un agire per stravolgere l’esistente, ma si metterà in atto un agire solo per cambiare e adattare sé stessi.

Lo sguardo si sposta dalla società e dalla realtà la fuori verso l’interno del singolo individuo. Il piano dall’esterno si sposta all’interno, dalle concrete realtà alle proprie soggettività. In queste traslazioni le ingiustizie che si subiscono o che si percepiscono – ma nella maggior parte dei casi sempre e solo in riferimento a sé stessi e raramente con un sentire verso il mondo intero – vengono risolte cercando dentro di sé come sopportarle al meglio al fine di reggere una vita insopportabile adattandosi alle esigenze del sistema. Insomma, cambiare se stessi – in piena sintonia con i principi cibernetici per i quali dopo aver modificato l’ambiente non resta che modificare l’essere umano – per non lottare al fine di cambiare la società…

Non solamente quindi si accettano le ingiustizie, ma queste vengono considerate come un’importante occasione di crescita personale. Nulla potrebbe essere di più triste e anche profondamente vile nel non affrontare la realtà scontrandosi con essa.

Essere resilienti è rendersi in ultima istanza disponibili ed è una resa incondizionata all’esistente.

Se un tempo erano vivi modi altri di sentire il mondo e l’umano, anche se dominato, poteva disporre di un bagaglio di conoscenze altre, oggi l’umano è dominato fin nel suo profondo e non è più in grado di orientarsi diversamente seguendo così solo i percorsi già tracciati dal potere senza nemmeno rendersene conto. Un tempo c’era consapevolezza di essere dominati, di quello che irrimediabilmente si stava perdendo e di voler desiderare un mondo altro da quello moderno, oggi i dominati desiderano le stesse cose dei loro dominatori e sono i migliori custodi di sé stessi in una gabbia che è stata resa trasparente.

L’umano resiliente non sente nulla per cui valga la pena di rischiare tutto, nulla per cui valga la pena di lottare. Un tempo l’uomo e la donna rivoluzionari vivevano nella passione della lotta, sognando di assaltare il cielo, oggi l’umano resiliente non ha più passioni e non ha più sogni.

La resilienza diventa giustificazione per vite mediocri, per chi non ha il coraggio di mettere in discussione l’esistente, per chi cerca sempre di vedere qualcosa di positivo, per chi è sempre ottimista pensando che andrà tutto bene, pensando che sicuramente la situazione che stiamo vivendo produrrà ottime occasioni, cercando di non destabilizzarsi troppo per continuare a sopravvivere nella propria quotidianità.

Ma quando si tocca il fondo – e il fondo lo abbiamo toccato da un pezzo, ma al fondo non c’è mai fine – è bene sentire un pugno nello stomaco, se si è sempre stati abituati ad essere accarezzati dal potere o a non essere considerati nemmeno come un’espressione di dissenso, non si avrà mai la percezione di quello che il potere potrebbe fare, sia come repressione, sia come opera di distruzione. Qui si spiega anche l’incredulità nel considerare impossibile che determinati progetti vengano portati avanti dal potere stesso.

Con questo humus emotivo come sarà possibile che si sviluppi una tensione di lotta contro l’esistente, un essere ostinatamente contro?

Il fenomeno della Resilienza ha anche una versione impegnata a livello sociale in cui si crede che sia sufficiente il lavoro su di sé per poter cambiare il mondo. Ci si sente costantemente impegnati, ma di fatto l’unico impegno è un lavoro su se stessi. L’umano resiliente chiuso in sé stesso ha soffocato il proprio agire in una dimensione personale credendo che il cambiamento sociale si possa raggiungere attraverso un cambiamento individuale. L’agire è stato sostituito da una protesta che fa della testimonianza individuale il proprio centro, una mera biografia di sé che bene si accompagna all’odierna caleidoscopica frammentazione dell’azione politica nei mille rivoli di un attivismo il cui campo di intervento è il proprio desiderio individuale e la propria identità. I sogni delle donne e degli uomini rivoluzionari erano sogni di rivolta collettiva per una società libera, oggi i sogni sono stati sostituiti dai desideri personali.

Quello che viene a generarsi è anche una psicologizzazione dei moti di protesta e in ultima istanza un loro soffocamento. La rabbia – anche quella spontanea e a tratti confusa nel delineare i processi in corso e le diramazioni e i passaggi di un disegno più ampio, a tratti anche ingenua e senza sapere le strade da intraprendere, ma comunque la sana e giusta rabbia – oggi non deve avere spazio, meglio confinarla in una dimensione di disagio individuale. La resilienza aiuterà a superare questo disagio cancellando così la possibilità di trasformare in consapevolezza e opposizione tutte quelle emozioni di rabbia e insofferenza. La rabbia scoperchia i soprusi e può generare una rottura e un conflitto, oggi dalla rabbia che vuole rompere con la realtà di questi si passa alla resilienza che sposta lo sguardo dal sistema opprimente a un disagio individuale. La realtà oggettiva dei soprusi viene sostituita da un disagio soggettivo che deve essere superato facendo un lavoro su di sé e non più contrastando la realtà. Si lavorerà per cambiare la propria percezione delle cose, rendendole più sopportabili e arrivando addirittura a negare la stessa realtà.

Significative queste parole: “Non occorre più operare per costruire una società più giusta, […], poiché nonostante tutto è possibile appellarsi alla resilienza. La pressione sociale […] non è più un problema, poiché chi è resiliente riuscirà a sopravvivere e gli altri potranno appellarsi a uno psicologo, a uno psichiatra o a un tutore benevolo”1.

Un altro aspetto importante da sottolineare è che la Resilienza è usata anche nelle situazioni di disastri ecologici.

L’ONU ha festeggiato il ritorno degli animali a Chernobyl e la “terza riserva naturale più grande dell’Europa continentale” come “esempio di resilienza della natura”.

Dopo Chernobyl e Fukushima sono fiorite numerose pubblicazioni sulla capacità di resilienza di piante e animali selvatici. Questa argomentazione viene usata per sminuire gli effetti nocivi e irreversibili del nucleare al fine di sostenerne l’avanzata e si presta bene ad essere utilizzata in tutti i possibili casi di contaminazione e di danni derivanti da sostanze tossiche e mutagene.

Nella nuova normalità di convivenza con l’emergenza e il disastro resa paradigma si diventerà tutti e tutte resilienti per pesticidi, diossina, metalli pesanti, onde elettromagnetiche, nanoparticelle, ogm, sieri genici. E quando la realtà dell’irreversibilità di certi processi e della mutagenesi – che nessun vivente potrà superare con la tanto acclamata resilienza – irromperà con tragicità nelle belle speranze ci penseranno le tecnologie di ingegneria genetica con modificazioni genetiche embrionali e cliniche di fecondazione assistita. Dobbiamo prepararci a uno scenario in cui le mutazioni genetiche diventeranno la norma. Significativi dei progetti di ricerca che hanno studiato le reazioni delle specie animali selvatiche osservando come alcuni volatili (colpiti da una forte riduzione di fertilità) abbiano imparato a utilizzare gli antiossidanti in modo diverso per resistere meglio alle radiazioni. Nella nuova normalità post-umana e post-natura perché, si chiederanno i tecnocrati transumanisti ed eugenisti, non prevenire e modificare geneticamente le specie viventi facendo sì che siano più resistenti a radiazioni e contaminanti di ogni tipo?

Triste, ma significativo, che l’argomentazione della resilienza – usata dai tecnocrati e dalle varie compagnie al fine di sminuire gli effetti del nucleare – sia usata anche da contesti di sinistra per promuovere il nucleare di nuova generazione o, ugualmente grave, arrivando a considerare che la nocività del nucleare è relativa.

Il soffermarsi sulla resilienza apre nell’immaginario uno spiraglio positivo e in piena tendenza post-moderna e post-verità tutto diventa relativo, anche i danni delle radiazioni. Quando invece in contro-tendenza bisognerebbe sostenere con forza che, per certe questioni, non esistono dati opinabili o relativi… non è possibile sostenere che sono relative le molteplici nocività mortifere e le pratiche di appropriazione dei corpi, così come, di conseguenza, non potrà essere relativa l’opposizione ad esse e all’intero sistema che le rende possibili, necessarie e addirittura desiderabili. Di fatto non ci si discosta dallo stesso paradigma tecno-scientifico e di accettazione e cogestione del disastro diventando funzionali a rafforzarlo.

A Chernobyl le varie associazioni ambientaliste sono corse nell’accaparrarsi una fetta di gestione del disastro realizzando svariati progetti sul territorio. Da parte delle associazione ambientaliste le iniziali denunce sugli effetti delle radiazioni non potevano mancare per quello che comunque ancora rappresenta il nucleare nell’immaginario delle persone. Per ora è ancora vivo il ricordo dei bambini e bambine nati malformati, ma è un ricordo che man mano tenderà ad evaporare o ad essere ripreso come occasione di sviluppo di ulteriori passaggi di ingegneria genetica sui corpi. Ma, in poco tempo, dalle iniziali denunce sugli effetti sulla salute c’è stato il passaggio a un altro significativo piano. Si afferma che i danni sanitari sono enormi, ma mettendo in luce un altro effetto collaterale: le ripercussioni sociali e psicologiche. Da una lettura superficiale sembrerebbe un’importante denuncia di altre gravi problematicità non considerate. Ma se prestiamo attenzione e leggiamo come viene descritta la “sindrome Chernobyl”: “affligge chi non vede una prospettiva alla condanna di vivere in una zona radioattiva”2.

Perfetto rovesciamento. Il problema quindi non è la reale ripercussione psicologica e sociale, ma il pensare che non c’è prospettiva perché il fine è creare una possibile prospettiva di coesistenza e di sopportazione del disastro. Quando, invece, il nucleare e tutti gli sviluppi delle tecno-scienze nella loro stessa realizzazione cancellano ogni possibile prospettiva di vita libera, sana e indisponibile.

Basterebbe leggere queste dichiarazioni: “c’è da lavorare sulla parte legata al modo di vivere in un’area a rischio: il futuro di queste popolazioni passa per la resilienza, bisogna adattarsi cercando di convivere con la situazione in una maniera che crei meno danni possibile. Questo fa bene sia alla salute fisica che a quella mentale, perché permette di intravedere una speranza. […] Noi stiamo cercando di offrire una maggiore cernita nella dieta delle popolazioni che porti a una contaminazione più bassa, fornendo loro una conoscenza rispetto a quello che si può mangiare o meno. Facendo comprendere che è importante non mangiare, ad esempio, i funghi, i frutti di bosco, non bere il latte né mangiare la carne provenienti da pascoli radioattivi, ma che ci si può nutrire delle verdure e della frutta degli orti di zone meno radioattive. Dopo tanti anni, c’è la speranza che i giovani possano recepire maggiormente rispetto agli anziani un percorso di questo tipo, perché più capaci di adattarsi a una vita diversa, con uno sbocco nuovo anche in termini di minore rischio rispetto a prima. È un po’ quello che stiamo vivendo nel dramma dell’emergenza sanitaria del Coronavirus, con la quale ci stiamo abituando a convivere, nell’ottica di diminuzione del rischio”3.

Affermare che “il percorso è uno sbocco verso una coesistenza con la contaminazione” porta a considerare le popolazioni locali come un problema: queste devono essere educate su come comportarsi.

Questo stesso approccio ci riporta alla mente la gestione del dopo Fukushima. Lo Stato con la complicità delle varie ONG occidentali aveva trasformato gli abitanti di Fukushima in perfetti cogestori del disastro. Le ONG avevano diffuso dosimetri e aiutato gli abitanti a costruirseli, assistendoli nell’immane compito di una impossibile decontaminazione con molteplici iniziative cittadine, costruite dal basso con la partecipazione degli abitanti.

Le ONG invece di spingere le persone a salvare la propria vita fuggendo altrove le hanno aiutate a rimanere, allineate ai dettami dello Stato giapponese il cui obiettivo, fin dall’inizio degli avvenimenti, era di mantenere le popolazioni nei luoghi. Hanno insegnato alle persone come convivere in una società mortifera nell’attesa che i dosimetri facessero il miracolo. Le persone sono state trasformate in sensori viventi che si automisuravano da sé i propri livelli di contaminazione, ovviamente in piena autodeterminazione.

La cogestione si manifesta per quello che è: l’arte di diffondere metastasi statali, per riprendere le analisi di Jaime Semprun e René Riesel. Una volontaria incarcerazione nei protocolli del mondo macchina.

Tutte le soglie di tollerabilità – dai pesticidi alle onde elettromagnetiche – rappresentano dei parametri che non potranno mai calcolare gli effetti combinati e cumulati nel tempo di tutte le sostanze tossiche e mutagene, ma non solo, sottendono un’accettazione a una certa dose di nocività che diventa la normalità mortifera con cui convivere, in un continuo adattamento a situazioni sempre più estreme di attacco ai corpi tutti.

Un tempo si pensava che la conoscenza delle conseguenze delle nocività avrebbe portato alla generazione di moti di rivolta. La storia di Chernobyl insegna che la massa non si rivoltò nemmeno difronte a ciò che tutti sapevano, continuando a comportarsi come se non si sapesse. Dopo anni ci si trova a constatare una sottomissione partecipativa nell’adattarsi a continue e più pervasive condizioni di non vita.

In questo orizzonte si colloca la Resilienza, funzionale nella cogestione dei disastri, a tutti i processi in corso e all’adattamento a un mondo tossico.

Da parte nostra, sappiamo dove collocarci, fuori dalle geometrie del mondo tecnomorfo e fuori dalla sua neolingua, sicuri che “finchè ci sarà lo splendore delle stelle, in qualsiasi posto del mondo ci saranno sempre ribelli decisi a volare all’assalto del cielo”, contro la Resilienza per la Resistenza di spiriti liberi.


Da L’Urlo della Terra, numero 10, luglio 2020

Note:
1 E. Malaguti, Educarsi alla resilienza.
2https://iorestoacasa.legambiente.it/approfondimenti/chernobyl-tra-resilienza-e-semi-di-futuro-possibile/
3https://iorestoacasa.legambiente.it/approfondimenti/chernobyl-tra-resilienza-e-semi-di-futuro-possibile/

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