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kriticaeconomica

L’alleanza deflazionista

di Yakov Feygin*

Pubblichiamo un’analisi sulla coalizione deflazionista scritta da Yakov Feygin, già ricercatore ad Harvard, e originariamente pubblicata sul sito “Phenomenal World”

m money 696x365Un modo efficace per scrivere la storia degli ultimi trent’anni del ventesimo secolo”, scrisse l’economista Albert Hirschman nel 1985,”potrebbe essere quello di concentrarsi sulle reazioni distintive dei vari paesi al medesimo problema dell’inflazione mondiale“. Dal momento che stava scrivendo proprio mentre la “grande inflazione” globale degli anni ’70 era in fase calante, Hirschman non poteva prevedere quanto avesse ragione.

Come ha scritto recentemente Claudia Sahm sul New York Times, la paura della grande inflazione degli anni ’70 domina ancora il pensiero della Federal Reserve, anche se i suoi recenti messaggi fanno presagire che il vento stia cambiando. In commenti recenti, l’avvertimento di Larry Summers che gli assegni da duemila dollari avrebbero fatto sì che l’economia si surriscaldasse eccessivamente così da generare inflazione ha tradito una cecità decennale sull’argomento.

Gli economisti non hanno una buona comprensione di ciò che causa l’inflazione. Nei programmi introduttivi dei corsi di macroeconomia, il mantra di Milton Friedman “l’inflazione è sempre un fenomeno monetario” rimane centrale: con questa affermazione, Friedman intende che un’eccessiva crescita dei prezzi avviene quando uno Stato allenta le proprie politiche sull’offerta di moneta, espandendo così la base monetaria. Recenti ricerche hanno però messo in discussione questa popolare dottrina.

Gli aumenti dell’offerta di moneta sembrano essere condizione necessaria ma non sufficiente per il verificarsi di un aumento incontrollato dell’inflazione. Nel corso della storia si sono verificati incrementi della base monetaria senza episodi inflazionistici e, viceversa, in alcuni casi si sono registrati episodi inflazionistici a seguito di incrementi molto piccoli della base monetaria.

In opposizione al pensiero di Friedman, Hirschman suggerisce che l’inflazione incontrollata è principalmente un fenomeno politico che si verifica quando i gruppi competono sulle risorse. Il rapido aumento del livello dei prezzi è un segnale del fatto che lo Stato non può più controllare questo tipo di competizione. Ma cosa è successo esattamente nei decenni di decrescita del XX secolo, e perché i fantasmi dell’inflazione perseguitano ancora la nostra realtà economica e politica?

Gli scritti di Hyman Minsky sul crollo della cosiddetta età dell’oro del capitalismo offrono qualche intuizione, portando a focalizzarci su come le lotte distributive abbiano guidato i cicli inflazionistici e deflazionistici degli ultimi cinquant’anni. In questo modo possiamo realizzare un resoconto accurato dell’economia politica alla base della “coalizione deflazionista” che domina il modus operandi dei nostri decisori di politica economica, così da poter poi intraprendere nuove strade.

 

Il “momento Minsky”

Minsky è diventato famoso dopo la sua morte come profeta dell’instabilità intrinseca dei mercati finanziari. Il termine “momento Minsky” – l’istante in cui scoppia una bolla causata dall’accumulo di debito privato – è stato coniato da Paul McCauley, della società di gestione fondi PIMCO, nel contesto della crisi finanziaria russa del 1998 ed è diventato onnipresente nei media finanziari. Ma l’ipotesi dell’instabilità finanziaria di Minsky, cioè l’idea che il capitalismo abbia una tendenza alla crisi finanziaria, faceva parte di una teoria più elaborata, riguardante le economie capitalistiche avanzate.

Minsky credeva che il capitalismo come sistema finanziario fosse meglio definito come l’insieme di tutte le unità economiche, compresi individui e famiglie, che sopravvivono effettuando afflussi di cassa e obblighi corrispondenti. Questo è ciò che ha definito un “vincolo di sopravvivenza“: tutti, dalle imprese ai singoli lavoratori, devono avere contanti a disposizione per pagare i loro debiti, oppure devono poter accedere agevolmente al credito così da posticipare le loro passività a una data futura in cui avranno flussi di cassa in entrata. Il modo in cui le società organizzano l’estensione e la gestione di questi flussi di cassa e l’accesso al credito è una funzione delle loro istituzioni.

Per Minsky, i cambiamenti nella distribuzione del capitale e nelle dinamiche dei prezzi possono essere capiti studiando la loro evoluzione nel corso della storia. Nel suo primo libro, intitolato “John Maynard Keynes”, Minsky analizzò quello che chiamava “grande capitalismo governativo”. Il suo obiettivo era duplice. In primo luogo, cercò di reinterpretare Keynes distinguendo il cosiddetto “keynesismo idraulico” del dopoguerra dall’opera scritta dell’autore.

Sostenne che i governi del dopoguerra, che aumentarono l’inflazione attraverso i profitti privati, contraddissero il sistema originale di Keynes. Keynes riteneva che lo Stato avrebbe dovuto facilitare lo sviluppo economico a lungo termine pianificando direttamente l’attività economica, compresa la distribuzione degli investimenti nel lungo periodo.

I politici americani del dopoguerra, tuttavia, hanno creato una politica che ha protetto i profitti del settore privato durante le crisi. Il governo degli Stati Uniti non ha costruito strutture in grado di sostenere la produzione di un paniere di beni e servizi primari dall’instabilità del mercato durante le riprese. Al contrario, ha gonfiato la domanda aggregata attraverso l’occupazione nel settore militare-industriale con i relativi beni di investimento.

Il secondo obiettivo del libro era quello di mettere in guardia contro le tendenze inflazionistiche di questo approccio. Il governo stava forzando, tramite investimenti eccessivi, settori ad alta intensità di capitale, come la produzione automobilistica e aerospaziale. Mentre da un lato ciò creava buoni posti di lavoro, dall’altro significava anche che i lavoratori avrebbero avuto più denaro da spendere per cose fatte da industrie a minor intensità di capitale e produttrici di beni di consumo non durevoli. La disuguaglianza salariale tra questi due settori ha causato un crescente conflitto industriale.

Negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale è emerso un modello in cui i dirigenti hanno fatto concessioni salariali ai lavoratori più produttivi per tenere a bada le richieste di una maggiore partecipazione sindacale alle decisioni aziendali, aumentando così ulteriormente la domanda di beni di consumo. Poiché i rendimenti dei beni ad alta intensità di capitale erano elevati, il capitale d’investimento necessario per espandere la capacità dei beni di consumo era scarso. Con un rapido aumento della domanda, il prezzo di questi beni iniziava ad aumentare, portando ad una spirale salari-prezzi.

Nelle industrie senza profitti previsti, i capitalisti non avevano alcun incentivo ad espandere la capacità produttiva. Di conseguenza, la produzione è rimasta stabile mentre i prezzi sono aumentati. Nel mercato del lavoro, alcuni lavoratori hanno mantenuto il proprio posto, mentre altri sono stati relegati alla sottoccupazione cronica.

La spiegazione di Minsky differisce significativamente da quelle che vediamo nella maggior parte dei libri di testo. Nel mondo di Minsky, non è l’offerta di moneta a guidare il processo inflazionistico, ma piuttosto gli sviluppi dell’economia reale. È la domanda di denaro che causa l’espansione della disponibilità dei mezzi di pagamento attraverso l’emissione di credito bancario emesso privatamente, che può essere utilizzato per acquistare beni. Pertanto, l‘offerta di moneta è endogena al sistema economico e non fornita in maniera esogena dalla banca centrale.

In una moderna economia capitalista, il ruolo della banca centrale è duplice: cerca di fissare il prezzo della moneta di credito comportandosi da agente di grandi dimensioni e determina quale credito privato può essere accettato come garanzia per il credito pubblico – contanti o riserve – che rimangono i migliori mezzi di pagamento rispetto al denaro privato. Non è la capacità delle banche centrali di stampare moneta, ma la loro capacità di contrarre ed espandere l’emissione di denaro a credito, che alimenta le espansioni economiche.

È importante sottolineare che Minsky sosteneva che le ricette di politica economica dei cosiddetti keynesiani idraulici hanno avuto origine da un drammatico errore di interpretazione e comprensione del concetto di equilibrio in Keynes. Mentre i keynesiani idraulici cercavano di ripristinare l’equilibrio a lungo termine attraverso interventi a breve termine volti a preservare i profitti privati, Keynes riteneva che il punto di equilibrio non dovesse essere fissato dall’incontro tra domanda e offerta. Al contrario, il rapporto chiave era tra le aspettative di profitto degli investitori e il consumo finale di beni prodotti da parte dei lavoratori.

Il sostegno ai profitti privati non aiuterebbe in alcun modo a correggere questi squilibri, al contrario creerebbe solo instabilità finanziaria, lasciando ai capitalisti il potere di fissare i margini di profitto così da portare a compimento i loro investimenti. Stabile solo quando veniva sostenuto da un sistema bancario altamente regolamentato, il “grande capitalismo governativo” era quindi vulnerabile alle strozzature causate dalla cattiva distribuzione della domanda tra i gruppi sociali.

 

Dal grande capitalismo governativo al money manager capitalism

A partire dalla fine degli anni ’60, le banche nell’economia globale stavano diventando sempre più deregolamentate e i mercati interni iniziavano a sentire le pressioni dell’inflazione. Il processo iniziò con l’erosione della bilancia dei pagamenti americana. Quando i paesi si ripresero dalla seconda guerra mondiale, l’aumento delle importazioni spinse verso il basso il prezzo del dollaro rispetto all’oro. Una maggiore attività commerciale internazionale richiedeva anche nuove fonti di credito che, sotto Bretton Woods, erano limitate dai controlli sui capitali.

Questa rigidità ha lasciato il posto alla formazione del mercato dell’Eurodollaro, in cui gli strumenti di credito denominati in dollari sono stati emessi da banche non domiciliate negli Stati Uniti. Gli eurodollari potevano essere utilizzati in transazioni monetarie, ma, a differenza dei dollari onshore, gli Eurodollari negli anni ’60 e ’70 non disponevano ancora di un backstop ufficiale e le banche centrali non potevano controllare la loro emissione. L’offerta di credito iniziò ad espandersi e non ci fu alcuna risposta globale per limitarla.

Alla base di queste cause di futura crescita dell’inflazione vi erano le questioni fondamentali degli investimenti e della distribuzione. Il boom dell’occupazione nel periodo della guerra del Vietnam ha accompagnato la crescente disparità nell’aumento dei salari tra le industrie produttrici di beni di consumo ad alto investimento e quelle di beni di consumo a basso investimento. L’aumento dei salari in un settore ha scatenato un conflitto al ribasso sui salari nell’altro. Questa spirale ha provocato una crescita degli squilibri tra l’aumento dei salari e la disponibilità di beni di consumo. Ciò rese le imprese americane non competitive, portando a maggiori importazioni e destabilizzando il sistema di Bretton Woods.

Con il calo del valore del dollaro, i produttori di petrolio hanno aumentato i prezzi, abbassando ulteriormente le aspettative di profitto e disincentivando gli investimenti. Se i prezzi delle materie prime chiave – in particolare il petrolio – fossero stati stabili, la nuova domanda dei lavoratori avrebbe potuto essere assorbita dall’espansione di nuove capacità produttive. Ma lo shock dal lato dell’offerta dell’aumento dei prezzi dell’energia ha limitato un’espansione degli investimenti nei settori che avrebbero potuto soddisfare la crescente domanda e quindi mantenere i profitti complessivi degli investitori. Per realizzare ugualmente profitti, le aziende hanno risposto aumentando i prezzi. Di conseguenza, gli anni ’70 divennero tristemente un’era di “stagflazione” – alta inflazione e crescita lenta – in tutto il mondo industrializzato.

Per affrontare la stagflazione, i governi passarono a un sistema che Minsky etichettava come “money manager capitalism“. Questo nuovo sistema è stato caratterizzato da una rapida deregolamentazione della finanza e dalla creazione di un’economia in cui i gestori di grandi concentrazioni di denaro a credito creato privatamente hanno rispettato gli impegni di credito attraverso rapidi rendimenti degli investimenti. Come sistema era meno stabile e più anemico del suo grande predecessore governativo, ma anche meno incline all’inflazione.

È importante sottolineare che questo nuovo sistema si era spostato dai salari e dai prezzi dei beni di consumo alle attività finanziarie. L’espansione del credito ha permesso l’acquisto e il riacquisto di attività finanziarie, facendo salire i loro prezzi indipendentemente dall’investimento. In tal modo, ha permesso ai governi di arrestare l’inflazione dei beni di consumo, a costo di spostare gli investimenti dall’economia reale al settore finanziario.

In un articolo del 1983, Minsky considerò questo approccio ispirato a Friedman e promulgato da Volcker:

L’esperimento monetarista del 1979-1982 ha dimostrato che, se la politica è disposta a tollerare l’inutilizzo di capacità produttiva su larga scala e massiccia disoccupazione, si può ottenere un successo transitorio contro l’inflazione. Tuttavia, non vi è alcuna dimostrazione che la disoccupazione possa essere ridotta senza ristabilire l’inflazione. La recente stabilità dei prezzi è stata realizzata mentre il potere del cartello petrolifero era indebolito ed un dollaro in aumento contribuiva ad abbassare i prezzi del dollaro per le importazioni, dunque non è affatto chiaro se il tasso d’inflazione non aumenterà quando questi due fattori diminuiranno”.

Minsky sottolinea correttamente che il Volcker Shock ha posto fine all’era della stagflazione distruggendo la domanda di moneta. Non è stata la riduzione dell’offerta di moneta da parte dello stato, ma la distruzione assoluta dell’economia privata a porre fine alla Grande Inflazione. Sono stati i cambiamenti nell’economia reale che hanno reso sostenibile il Volcker Shock. La rottura del cartello dell’OPEC e la sconfitta del movimento operaio distrussero la barriera all’espansione degli investimenti e ridussero il potere del lavoro di contrattare i salari. Ciò che Minsky non aveva previsto era che questa situazione sarebbe durata molto a lungo. Negli Stati Uniti e nel mondo, le coalizioni politiche deflazioniste si sono dimostrate molto durature.

 

Il capitalismo patrimoniale e la coalizione deflazionistica

Nonostante si siano svolti in contesti diversi, i processi che hanno portato alla formazione di coalizioni deflazionistiche hanno avuto alcune caratteristiche comuni: i governi hanno conferito potere ai rentier, hanno dato ad alcuni cittadini guadagni nominali come consumatori, hanno assicurato a potenti gruppi di elettori l’accesso a determinate classi di “growth asset” e hanno riconvertito le istituzioni del “grande capitalismo governativo” per sostenere la deregolamentazione finanziaria. Redistribuendo i guadagni lontano dai lavoratori, la deregolamentazione finanziaria ha integrato le economie globali in una maniera che ha permesso agli Stati di perseguire strategie di crescita a vantaggio di una classe esclusiva di rentier. Questa nuova classe ha sostenuto politiche deflazionistiche anche molto tempo dopo che l’inflazione ha smesso di rappresentare una minaccia imminente.

Negli Stati Uniti, la deregolamentazione finanziaria e la conseguente coalizione politica deflazionistica furono incorporate nella politica abitativa. La politica abitativa è integrata con la previdenza sociale sin dal New Deal, quando il governo federale intervenì nei mercati del credito per creare un mutuo fisso trentennale e consentire una proprietà immobiliare diffusa. Ma come ha dimostrato Greta Krippner, la stabilità di questo sistema dipendeva da rigide normative finanziarie che limitavano i tassi di interesse che le banche potevano applicare sui depositi. L’industria bancaria “risparmi e prestiti” era specificamente dedicata all’emissione di prestiti fissi trentennali sostenuti dal governo. L’inflazione degli anni ’70 minacciò questo sistema, perché i risparmiatori alla ricerca di rendimenti più elevati ritirarono i loro soldi da risparmi e prestiti e il investirono in prodotti nuovi e non regolamentati come i certificati di deposito (CD). Una nuova regolamentazione di questi nuovi strumenti avrebbe comportato un alto costo politico, ma trascurarli avrebbe rischiato di distruggere il mercato immobiliare.

In risposta, i responsabili politici americani reagirono deregolamentando i prestiti e mantenendo allo stesso tempo la protezione del governo per le abitazioni rispetto ad altri prestiti al consumo. Così, l’alloggio divenne un tipo speciale di bene che poteva essere ampiamente detenuto e guadagnare valore rispetto ad altre forme di ricchezza personale. Ciò evitò esplicite “scelte difficili” sulla distribuzione e il razionamento del credito compensando le perdite salariali che seguirono il Volcker shock.

In pratica, avere un obiettivo di inflazione significa che la Federal Reserve e le altre banche centrali limitano il credito al punto in cui i mercati del lavoro iniziano a irrigidirsi. Fino a poco tempo fa, i banchieri centrali presumevano che l’inflazione fosse almeno in parte innescata da un aumento dell’occupazione oltre il tasso di disoccupazione non inflazionistico (NAIRU). Ciò significa che, quando un’economia si muove verso la piena occupazione e i lavoratori possono contrattare per salari più alti, le banche centrali limiteranno il credito per evitare questi trend.

Come risultato di queste politiche, una generazione di proprietari di case si trovò con un capitale in apprezzamento, assicurato dal governo, che poteva essere utilizzato in sostituzione al calo dei salari. La politica abitativa del New Deal si riconvertì dalla fornitura di un rifugio stabile e a lungo termine a un sostegno all’inflazione dei prezzi degli asset. Questo accordo ha favorito molto una schiera politicamente potente di proprietari di case che hanno acquistato la loro prima casa negli anni ’70 e ’80. Le coalizioni di più vecchi proprietari di case hanno difeso le basse tasse sulla casa rispetto ad altri beni e attività economiche, come la famigerata “Proposition 13” della California, a sua volta una reazione all’inflazione degli anni ’70. Questi stessi elettori hanno reso impossibile costruire nuove unità abitative in aree ad alta domanda, facendo aumentare i prezzi degli immobili. La ricchezza abitativa si è concentrata sempre più nelle mani di anziani, bianchi e ricchi, mentre per le generazioni nate dopo gli anni ’70 la casa è stata un freno al loro patrimonio netto. (Lisa Adkins e Martijn Konings sostengono che l’economia politica degli Stati Uniti sia ora una macchina per rubare le opportunità ai giovani al fine di preservare i mezzi di sostentamento degli anziani.) La coalizione deflazionistica è stata tenuta insieme da una coorte di potenti elettori la cui posizione finanziaria dipende dal continuo apprezzamento dei beni capitali a scapito dei salari.

La previsione di Minsky del 1983 di un ritorno all’inflazione non si è avverata negli Stati Uniti né in altri paesi avanzati. La creazione di coalizioni deflazionistiche in tutto il mondo ha sostenuto lo spostamento dei rapporti di forza dai salari alle plusvalenze. Tuttavia, al di fuori di queste economie, il mondo ha effettivamente assistito a un secondo ciclo di inflazione, concentrato nelle economie post-comuniste. Le economie pianificate sovietiche che generavano crescita attraverso investimenti in beni strumentali ad alta intensità di capitale hanno sperimentato l’inflazione non attraverso la crescita dei prezzi, ma attraverso scarsità e calo della crescita. Lavoratori e manager hanno evitato i tentativi di migliorare la produzione a causa della mancanza di ricompense, una situazione riassunta nella frase: “loro fingono di pagarci, noi fingiamo di lavorare“.

La liberalizzazione e il collasso finale delle economie comuniste hanno portato allo scoperto il problema dell’inflazione. Per affrontare queste conseguenze, i regimi post-comunisti, compresa la Cina, controllarono l’espansione del credito bancario e l’accumulo di valuta estera attraverso persistenti surplus commerciali. Dal punto di vista pratico, ciò è stato ottenuto abbassando i salari rispetto alla produttività. I lavoratori di queste economie producevano più di quanto potevano consumare, creando un surplus che poteva essere esportato.

Michael Pettis e Matthew Klein hanno documentato questa situazione nel loro recente libro “Trade Wars are Class Wars”. Nella loro discussione di studio sulla Cina, Pettis e Klein hanno dimostrato che la stabilizzazione del tasso di cambio della Cina nel 1994 mantenne i salari cinesi inferiori alla produttività, consentendo la creazione di un surplus commerciale di lungo periodo. E come ha mostrato Victor Shih, questa decisione faceva parte di una spinta politica per arginare l’inflazione di fronte alla crescente domanda dei consumatori e agli elevati investimenti dei decenni precedenti nelle zone economiche speciali del paese.

Di recente, per sostenere questo assetto, sembra che le autorità cinesi prendano in prestito dall’Occidente e incoraggino i lavoratori cinesi a investire in case, in modo da evitare un aumento della spesa in beni e servizi non durevoli che minaccerebbe il modello basato sull’esportazione e riporterebbe lo spettro dell’inflazione.

Politiche simili furono perseguite dalla Germania dopo l’unificazione. A causa dei traumi degli anni ’20, la Germania ha ampiamente evitato l’inflazione che ha afflitto altre economie industrializzate. Un sistema di contrattazione settoriale per la gestione del capitale e una politica antinflazionistica aggressiva da parte della Bundesbank aiutarono la Germania occidentale a evitare la stagflazione degli anni ’70, trattenendo in modo aggressivo sia il capitale che il lavoro. Tuttavia, lo stesso non valeva per la Germania comunista dell’Est. Molti osservatori credevano che l’unificazione tedesca avrebbe avuto bisogno di conseguenze inflazionistiche, poiché l’inflazione repressa dell’economia della Germania orientale sarebbe venuta allo scoperto. Tuttavia, le autorità tedesche combatterono l’inflazione arrestando virtualmente la crescita economica.

Dal 2003 al 2005, il governo tedesco ha approvato una serie di riforme note come Riforme Hartz per rendere competitiva l’economia tedesca abbassando i salari e promuovendo il lavoro part-time. I vantaggi sono stati grandi: questo taglio della quota di lavoro è avvenuto nello stesso momento in cui la Germania è entrata nell’euro, impedendo alle economie più povere dell’Europa meridionale di proteggere i loro mercati interni da un’ondata di importazioni tedesche.

I surplus dei paesi esportatori sono stati sostenuti a scapito del settore dei beni commerciabili americani e dei suoi posti di lavoro ben remunerati, continuando così a sopprimere l’inflazione. A loro volta, tuttavia, gli esportatori dovevano acquistare asset con le loro entrate denominate in dollari. Il settore finanziario americano è stato più che felice di rifornirli, finanziando il credito al consumo che rendeva possibile il ciclo che abbiamo descritto. La domanda di asset in dollari a metà degli anni 2000 contribuì ad alimentare il boom immobiliare americano che si concluse nel 2008. Questo ciclo di finanziamento e distribuzione di asset collega il “money manager capitalism” con l’”asset capitalism” ed è la ragione della sua durata nonostante l’intrinseca instabilità finanziaria.

 

Riportare in auge l’inflazione

Per alcuni osservatori, un risultato scioccante della crisi finanziaria del 2008 è stato la “strana non morte del neoliberismo“. Perché le idee neoliberiste sono sopravvissute nonostante i loro apparenti fallimenti? La questione sembra meno sconcertante se concepiamo il neoliberismo come un insieme di pratiche economiche messe in atto da istituzioni progettate per proteggere gli interessi della coalizione deflazionistica.

Esaminare l’attuale panorama politico attraverso la politica dell’inflazione è illuminante: i membri dei movimenti populisti di destra, ad esempio, sono uniti dal desiderio di preservare le plusvalenze sulla proprietà degli asset, siano essi amministratori delegati di grandi banche o proprietari di case suburbane che devono compensare salari in calo. Gli slogan del Tea Party e della destra populista negli Stati Uniti contro aumenti di spesa pubblica dimostrano chiaramente questa paura dell’inflazione.

Sulla scia della pandemia di Covid-19, gli stessi timori vengono sollevati per argomentare contro il sostegno del governo ai singoli per sostenere le misure di salute pubblica. Coloro che alimentarono l’opposizione alla spesa pubblica e a un potenziale salvataggio dei proprietari di case nel 2008 stanno ora spingendo per una rapida riapertura dell’economia. In Europa, le coalizioni pro-austerità e di destra sono salite al potere per mantenere il famigerato “schwarze null”, il surplus di bilancio così centrale per la politica conservatrice in Germania e in altre economie del Nord Europa fondate su surplus commerciali. Nel frattempo, in Cina, il trinceramento autoritario è radicato nella paura dell’instabilità finanziaria posta dai debiti dei governi locali e nella necessità di mantenere la repressione dei consumi delle famiglie.

Dal 2008, e soprattutto dall’inizio della pandemia, le visioni di un’alternativa al consenso deflazionistico sono venute da un attore sorprendente: le banche centrali indipendenti (BCI). Una pietra angolare del cambiamento di politica deflazionistica degli anni ’80, le BCI sono ora in una posizione unica per combattere per quella parte sempre più grande della popolazione che è uscita perdente da un sistema basato su inflazione dei prezzi degli asset, bassi salari, bassa inflazione dei beni materiali, e facile accesso al credito. Un sistema che ha dominato le politiche degli ultimi decenni.

La Banca centrale europea e la Federal Reserve hanno iniziato a rivalutare la priorità che è data al controllo dell’inflazione rispetto alla piena occupazione. La cosiddetta politica monetaria non convenzionale sta espandendo lo spazio di azione delle banche centrali in settori al di fuori del sistema bancario tradizionale. Dopo il 2008, la Federal Reserve ha utilizzato accordi di swap con banche centrali estere per sostenere il credito offshore in dollari e ha acquistato garanzie dalle shadow banks al di fuori del sistema bancario convenzionale. Lo scorso anno, la Fed è entrata nei mercati del credito societario, prestando così direttamente all’economia reale, e ha anche fatto passi da gigante verso i prestiti ai governi municipali e alle piccole imprese.

Questi esperimenti dovrebbero essere di grande interesse per quelli di noi che vogliono vedere una crescita guidata dai salari. La capacità delle banche centrali di superare la barriera tra l’economia finanziaria e quella reale significa che il loro potere sulla creazione e la limitazione del credito può essere utilizzato per “socializzare la finanza”, come sostenuto da Minsky nella sua operazione di recupero di Keynes. Socializzare il flusso di investimenti al fine di garantire un’ampia prosperità richiederà una istituzionalizzazione, forse separando la funzione tradizionale delle banche centrali da un nuovo tipo di autorità di investimento nazionale o sovranazionale progettato per distribuire razionalmente il credito in modi che non sarebbero né inflazionistici né deflazionistici.

Il controllo del ciclo inflazione-deflazione non può essere ridotto a interventi apolitici sull’offerta di moneta. Piuttosto, per spezzare questo circolo vizioso al cuore del capitalismo è necessario capire come spendere al meglio questi soldi tenendo conto delle capacità e dei beni adeguati a ogni fase di evoluzione del sistema economico. Stabilire una simile “regola di investimento” dovrebbe essere compito di un’economia post-deflazionistica. Una banca centrale attivista, che si sforza di risolvere i problemi che le politiche deflazionistiche neoliberiste hanno costruito, potrebbe essere la strada per realizzare il sogno di Hyman Minsky di fermare boom e crac di inflazione e deflazione, attraverso la socializzazione della finanza.


Tradotto da Giacomo Gusmini e Alessandro Bonetti.

* Yakov Feygin è responsabile presso il Berggruen Institute per il programma "Future of Capitalism" per lo sviluppo dell'agenda di ricerca, per i progetti e le collaborazioni. In precedenza, è stato ricercatore in Storia e Politica alla Harvard University Kennedy School of Government ed editore del "Private Debt Project".

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