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Perché il Piano per la Ripresa potrebbe non essere sufficiente per un autentico rilancio del Mezzogiorno

di Nicola Dimitri

pnrr6763e1. «Crede, e spera, nella Madonna, il fabbricante di Madonne?»[1]

Con queste parole Carlo Emilio Gadda si domandava se è sempre sovrapponibile, nell’artista che compie un’opera, l’aspetto del credere con quello dell’eseguire. Altrimenti detto, Gadda si chiedeva se tra lo stato emotivo interno, che spinge un soggetto a immaginare di compiere un’attività (in questo caso, preordinata alla realizzazione di un’opera d’arte), e l’atto esterno, che consiste nell’eseguire e osservare il comando necessario per realizzare l’opera, vi fosse sempre intimità, inevitabile coincidenza.

Per impiegare ancora i termini di Gadda: «Qual è il grado di adesione interna, di accensione intima nei confronti del tema, che induce ad opera l’artista, che gli guida la mano sulla tela?»

Ebbene, quello di Gadda era sicuramente un interrogativo retorico. Infatti, non sempre la mano che esprime l’atto e che permette di realizzare un’opera, è fedele testimone dello stato emotivo interno che pure induce a realizzare l’opera, così come infine sarà.

In effetti, ciò che ha a che fare con l’eseguire non sempre corrisponde a quel che riguarda il credere.

Già Ludwig Wittgenstein, benché in altri contesti, ci avvertiva del rapporto rivale e per certi versi dicotomico che può emergere tra il credere e l’eseguire, sottolineando, ad esempio, che l’essere persuasi di seguire una regola non equivale certo ad eseguire una regola.

È evidente, pertanto, che l’interrogativo posto da Gadda è crepuscolare e insidioso al tempo stesso e, come tutte le questioni di siffatta specie, apre la strada a riflessioni ampie che, per analogia – per quanto che qui interessa -, possono essere ricondotte all’ambito politico e sociale odierno.

E invero, volendo emancipare dal contesto artistico-letterario l’interrogativo posto da Gadda per calarlo, pur mutuandone l’impostazione, nell’attualità, è lecito chiedersi: “Crede e spera nella ricrescita del Sud la classe politica che pure stanzia i fondi destinati a ricostruire il Sud?”

Nell’attuale momento storico – caratterizzato da severi sconvolgimenti pandemici e, al contempo, da inediti orizzonti di ripresa – porsi una questione di questo tipo non è di poco conto.

Al contrario, interrogarsi sul futuro del Mezzogiorno è senza dubbio prioritario, posto che, a seguito della recente approvazione del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), sembrano profilarsi nuove prospettive per il Sud Italia.

 

2. Come risaputo, il PNRR, altresì noto come Recovery Fund o “Fondo per la ripresa”, che si inserisce all’interno del programma Next Generation EU (concordato dall’Unione Europea in risposta alla crisi pandemica), prevede un corposo piano di investimenti per l’Italia, consistente in oltre 220 miliardi di euro[2]. L’obiettivo è quello di servirsi del pretesto pandemico per attuare profonde, e da tempo attese, riforme: nell’ambito della Pubblica Amministrazione, della giustizia, della semplificazione normativa e della concorrenza.

In questo senso, il PNRR, recentemente presentato da Draghi in seno alle Istituzioni europee, si organizza lungo sei missioni (vale a dire sei obiettivi e altrettanti blocchi di stanziamenti) attraverso cui:

  1. promuovere la trasformazione digitale del Paese e sostenere l’innovazione del sistema produttivo (49,2 miliardi);
  2. accelerare la rivoluzione verde e la transizione ecologica (68,6 miliardi);
  3. sviluppare le infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,4 miliardi);
  4. fortificare il sistema di istruzione e ricerca (30,9 miliardi);
  5. stimolare l’inclusione e la coesione sociale, facilitando l’accesso al mercato del lavoro (22,4 miliardi);
  6. rafforzare, modernizzare e digitalizzare il sistema sanitario e garantire equità di accesso alle cure (18,5 miliardi).

Dalla lettura del programma, si apprende che buona parte degli investimenti, così come sopra elencati, saranno destinati a finanziare il Mezzogiorno.

Nel corpo del testo del PNRR è, infatti, chiaramente riportato che: «a testimonianza dell’attenzione al tema del riequilibrio territoriale […] il Governo ha deciso di investire non meno del 40 per cento delle risorse territorializzabili del PNRR (pari a circa 82 miliardi) nelle otto regioni del Mezzogiorno»[3].

Si tratta di investimenti economici senza precedenti; idonei, almeno potenzialmente, a ridisegnare il futuro del Sud Italia, da anni censito tra i territori più depressi dell’intera Eurozona[4].

«Al Sud», si legge a p. 39 del documento in commento, «vive un terzo degli italiani, ma vi si produce soltanto un quarto del prodotto nazionale lordo. Ad oggi, è il territorio arretrato più esteso e popoloso dell’area euro. Il suo rilancio non è solo un tema italiano, è una questione europea».

Ebbene, la cronica arretratezza che caratterizza il Sud Italia, in un momento di generalizzata crisi dovuta alla pandemia, torna ad essere anche “questione europea”.

Il Sud Italia – definito da Pasolini nel suo La lunga strada di sabbia come un «cafarnao sterminato»[5]; un luogo distante dai luoghi in cui le cose accadono; una geografia misteriosa e grottesca, in cui si coltivauna «pura e oscura riserva di vita» e ove l’esperienza umana si alterna tra un immobilismo preistorico e un casualismo esistenziale privo di meta – sembra, allora, essere destinatario privilegiato di una esclusiva quanto irripetibile occasione di crescita.

Dunque, è opportuno chiedersi: l’Italia e l’UE stanno lavorando per favorire un momento di riscatto per il Sud Italia?

Se volessimo prendere in considerazione l’atto esterno, richiamando per un istante la frase di Gadda, parrebbe di sì. I fondi ci sono.

Ma (utilizzando ancora come riferimento e contraltare l’interrogativo posto dallo scrittore lombardo), è bene non cedere alla tentazione di credere che vi sia sicura sovrapposizione tra il volere e l’agire; non per forza, infatti, l’atto esterno, la mano che guida l’artista sulla tela, è fedele testimone della volontà interna, spesso inespressa, dello stesso artista.

È bene, allora, prendere la questione sul serio e tentare di capire per quali ragioni non è detto che questo sia un momento di ripartenza per il Mezzogiorno. Occorre, allora, benché per sommi capi e sinteticamente, inquadrare lo scenario in cui è avvolto il Sud Italia.

 

3. Il Sud Italia è povero. Rispetto all’Italia settentrionale, dal punto di vista economico, si afferma esclusivamente in negativo; alla stregua di una «forma incompiuta di nord»[6]. Le Regioni meridionali, infatti, a differenza dei territori dell’Italia del Nord e ancor di più dell’Europa del Nord, sono omogeneamente caratterizzate da una debolezza strutturale del sistema produttivo; da una bassa qualità e quantità del capitale umano; nonché dalla scarsità delle infrastrutture e dei servizi offerti dalla Pubblica Amministrazione.

Il Sud Italia ha un basso livello di istruzione e un alto livello di dispersione scolastica[7]. Nel Mezzogiorno, il livello delle competenze di base (italiano, matematica e inglese) è inferiore alla media italiana che, a sua volta, è inferiore ai parametri stilati dall’OCSE[8].

Il Sud Italia è scarsamente collegato. La qualità della rete ferroviaria e stradale non è uniformata agli standard dei servizi di trasporto garantiti, invece, nella restante parte del territorio nazionale.

Il Mezzogiorno, inoltre, si sta spopolando. Il divario territoriale si manifesta nelle scarse opportunità lavorative per i giovani. Questi ultimi, come nei fenomeni di bassa pressione atmosferica in cui l’aria calda – poiché più leggera – tende inevitabilmente a salire, non fanno altro che emigrare verso il Nord. Si dirigono verso l’alto, quasi inesorabilmente, per raggiungere le aree più ricche del Paese; alienandosi da territori che, in molti casi, li hanno solo partoriti senza, tuttavia, aver offerto loro occasione di crescere.

Questi fattori impediscono uno sviluppo autentico del Sud Italia e rendono il Mezzogiorno un’area arretrata, in cui, del resto, anche il potere pubblico (orientato da interessi politici del tutto particolari) ha deliberatamente smesso di investire.

Ebbene, nel Recovery Fund i fondi destinati all’asserita ripresa e al rilancio del Sud Italia ci sono. È importante, però, comprendere se accanto ai fondi esiste anche una volontà politica autenticamente informata allo sviluppo dei territori del Sud Italia.

Il fatto che, come è dato leggere nel documento che illustra e caratterizza il PNRR, «tra il 2008 e il 2018, la spesa pubblica per investimenti nel Mezzogiorno si è più che dimezzata ed è passata da 21 a poco più di 10 miliardi» è, in questo senso, assai rilevante.

Questo dato sta a significare che da oltre dieci anni il potere pubblico ha apertamente rinunciato a favorire la convergenza del Mezzogiorno con le aree più sviluppate e che, conseguentemente, per scelte di matrice politica, ha destinato i fondi in altri territori (verosimilmente il Centro-Nord).

In questi termini, la scelta – a partire dal Recovery Fund – di orientare oltre 80 miliardi al Sud Italia segnerebbe una discontinuità storica significativa; quantomeno rispetto all’ultimo decennio.

Ma è possibile garantire un cambio di passo (ridurre il divario, favorire la convergenza) per il solo tramite della capacità di spesa messa a disposizione del Sud?

È possibile rilanciare un territorio senza un intervento politico finalizzato alla risoluzione delle insidie che lo affliggono?

Il rilancio del Sud non può essere garantito se non si pone in essere una discontinuità nelle logiche politiche di fondo che hanno permesso il suo impoverimento. In quelle stesse logiche politiche (di stampo neoliberale) che, subordinate alle pretese del mercato, in Europa così come in Italia hanno orientato gli investimenti nei territori già produttivi, favorendo la progressiva perdita di ricchezza del Sud; dando vita, altresì, ad estese forme di precariato, collegate ad altrettanto diffuse operazioni di privatizzazione di enti e istituti nazionali dedicati alla protezione sociale.

In altre parole, la discontinuità storica dal punto di vista degli investimenti non può essere sufficiente.

Il Sud Italia, ormai da tempo sconvolto da un disarticolato quanto miope processo di turistificazione (che peraltro, non dura più di due mesi l’anno), proprio a causa dell’influenza neoliberale che tanto nell’UE quanto nella maggior parte dei Paesi membri ha causato e causa divari sempre più marcati tra territori e classi sociali, è divenuto negli anni una mera sacca ove pescare la forza lavoro da orientare al Nord.

Ebbene, il Mezzogiorno può evolvere davvero se gli investimenti che dovrebbero rilanciarlo sono orientati dallo stesso approccio neoliberista che ne ha segnato il declino?

E se sì, occorre chiedersi: a che prezzo?

 

4. Il tema, così come posto, richiede ancora di riferirsi alla domanda iniziale: «Crede, e spera, nella Madonna, il fabbricante di Madonne?»[9]

I divari territoriali tra Nord e Sud che affliggono lo Stato italiano sono assimilabili, sotto alcuni aspetti, agli stessi (apparentemente) irrisolvibili divari che segnano la differenza tra i Paesi del Nord e i Paesi del Sud dell’UE.

Una simile questione si inserisce nel più ampio e complesso tema che caratterizza i meccanismi di funzionamento del mercato interno dell’UE, orientato (come si coglie dalla lettura dell’art. 3 TUE) ad un modello di economia fortemente competitiva. Dunque, un modello che non tende alla costruzione di un fronte politico unitario tra Stati membri e che non prevede regole volte a favorire la creazione di ricchezza nelle aree e nei territori meno competitivi[10].

In questo senso, le logiche di funzionamento del modello economico informato alla competizione tra Stati membri hanno favorito una “solidarietà competitiva” [11].

Vale a dire, una forma di solidarietà che, come a più riprese ha sostenuto Wolfgang Streeck, nel segno di una superiorità incontrovertibile dei principi del libero mercato rispetto a quelli che ispirano i diritti sociali, ha finito per accentuare le già presenti disuguaglianze economiche nelle diverse aree geografiche dell’UE. Scatenando divari (e con essi conflittualità accese) non solo tra Paesi del Sud e Paesi del Nord dell’Unione, ma anche tra territori ricchi e territori arretati all’interno dei singoli Paesi membri.

Nel quadro normativo europeo, in altre parole, la solidarietà, e con essa la coesione economica, sociale e territoriale tra gli Stati membri, appare dotata di una priorità decrescente rispetto agli obiettivi del libero mercato[12].

In questi termini, la pervasività nell’UE della spinta neoliberista, che ha dato vita a pesanti de-regolamentazioni del mercato – il cui agire aggressivo è messo al riparo da ogni influenza che pretenda di individuare fini collettivi[13] – sta determinando divari economici sempre più evidenti tra gli Stati membri e, conseguentemente, sta acuendo i divari, per altre ragioni già presenti, all’interno dei territori di questi stessi Stati.

Il potere pubblico ha da tempo smesso di perseguire le finalità sociali, di rettificare le ingiustizie socio-economiche, e di rendere possibile l’integrazione degli individui appartenenti alle fasce più deboli e che risultano (in partenza) sprovvisti dei mezzi sufficienti per fronteggiare singolarmente i rischi economici e sociali connaturati al vivere in comune; vivere in comune che anche a livello individuale, sempre di più, si conforma alla competizione e alle logiche di mercato.

Con l’affermazione del modello ideologico neoliberista, che trionfa in Europa, e che a sua volta ha un grosso peso nell’orientare le politiche domestiche dei Paesi membri, si è verificato un vero e proprio indietreggiamento dello Stato a favore del mercato. Questo, liberatosi con successo dalle istituzioni e dalle regolamentazioni che gli erano state imposte, ha finito per corrompere i più intimi fondamenti del modello di welfare state europeo[14].

Il libero spazio lasciato ai poteri dei mercati ha generato non solo una rinuncia degli Stati a mantenere il controllo delle specifiche funzioni di governo dell’economia e della redistribuzione delle ricchezze, ma ha anche causato una forte contrazione della spesa pubblica a favore delle politiche sociali, e una conseguente esplosione (nei territori più deboli) di disuguaglianze economiche[15].

Le conclusioni provvisorie che possono trarsi sono quelle per cui, in questo scenario, le Regioni del Sud dell’UE, e in particolare del Sud Italia, hanno registrato una duplice perdita di potere politico: perdita discendente tanto dal fallimento degli strumenti di riequilibrio territoriale dell’UE, tanto dall’incapacità dello Stato di operare una efficiente ed autonoma redistribuzione territoriale delle risorse.

 

5. Come sosteneva il sociologo Franco Cassano, recentemente scomparso, «l’emarginazione del sud viene da molto lontano, e superarla significa immaginare una concezione degli equilibri politici e un rapporto tra l’Italia, l’Europa e il Mediterraneo molto diversi da quelli oggi esistenti»[16].

Pertanto, credere di curare l’arretratezza solo attraverso gli interventi straordinari – così come straordinario è l’intervento economico di cui si discute -, significa cedere alla tirannia dell’urgenza[17], tipica (per usare un’espressione di Luciano Gallino) del “turbocapitalismo” che, proprio col pretesto dell’emergenza, tende a bypassare i processi democratici (considerando la stessa democrazia solo una “terribile perdita di tempo”) e induce ad accettare offerte miopi e prive di progetto; offerte che conducono non già verso una prospettiva di cambiamento, strutturata e definita, bensì in un vicolo cieco. In un vero e proprio cul-de-sac da cui sembra impossibile uscire: la pretesa di curare gli asseriti “difetti di modernità” del Sud soltanto con lo strumento economico (più affine ai temi dell’efficienza che a quelli della giustizia sociale), finisce per aggravarne le condizioni.

Ebbene, è opportuno, ancora chiedersi: può l’Europa, con l’intermediazione dell’Italia, assicurare un vero rilancio per il Sud?

Sì, ma quale Europa?

L’Unione europea che «è diventata una governance tecnopolitica funzionalizzata agli interessi del capitalismo finanziario e degli Stati più forti»[18] non è detto che abbia un vero interesse a promuovere un cambio di passo nelle geografie dei poteri, rilanciando in questo senso il Sud.

Come fa notare sarcasticamente il politologo Marco Revelli non è detto che ci sia da fidarsi. Al contrario, bisognerebbe guardare con sospetto il Recovery Fund già a partire dal suo nome: “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”. Ebbene, il tema della resilienza non promette niente di buono, considerato che “resilienza” sta ad indicare «il ritorno di un oggetto contuso alla sua precedente forma»[19].

C’è da aspettarsi, dunque, un vero cambio di paradigma che sia da rimedio alle tante dissennate scelte politiche che nel tempo hanno avvelenato il Sud applicando al bene pubblico la logica d’impresa?

È sicuramente troppo presto per tirare le somme. Non si tratta, tantomeno, di demonizzare in via preventiva e a tutti i costi gli stanziamenti previsti dal PNRR, che sono sostanziosi e senza precedenti.

Si tratta di mantenere un occhio vigile e critico, che permetta di comprendere se questo piano di investimenti costituirà un trampolino per ulteriori (e antiche) attività predatorie a scapito del Sud o, al contrario, se si tratta di un vero (quanto inedito) cambio di rotta. Cambio di rotta che però, per essere tale, non può fare a meno di un cambiamento di quelle linee guida di matrice politica che, fino ad oggi, hanno consentito di innescare un profondo e costante processo di mortificazione economico-sociale del Sud Italia.


Note
[1] C. E. Gadda, Saggi Giornali Favole e altri scritti I, (a cura di) D. Isella, Garzanti, p. 509, 1991.
[2] Segnatamente si tratta di: 191,5 miliardi di euro, finanziati attraverso il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza, lo strumento chiave del NGEU; 30,6 miliardi sono parte di un Fondo complementare, finanziato attraverso lo scostamento pluriennale di bilancio approvato nel Consiglio dei ministri del 15 aprile.
[3] Piano Nazionale di ripresa e resilienza, p. 39.
[4] Per approfondimenti si veda: Share of the population at risk of poverty in Italy in 2019, by region, release date December 2020: https://www.statista.com/statistics/647996/at-risk-of-poverty-rate-italy-by-region/
[5] P. P. Pasolini, La lunga strada di sabbia, Parma, Guanda, 2019, p. 85.
[6] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. XIII.
[7] «Le province dove i cittadini residenti tra 30 e 39 anni hanno in media l’istruzione più elevata sono quelle di Bologna, Milano, Trieste, Roma, L’Aquila e Firenze. Le aree metropolitane del Centro-nord risultano degli attrattori: i residenti sono infatti più istruiti dei nati nelle stesse province, e il piazzamento di Milano, Roma, Firenze e Trieste in cima alla graduatoria è dovuto proprio all’acquisizione di residenti nati in altre province, mentre i centri più piccoli tendono a cedere anni di studio. Le province coi livelli d’istruzione più bassi si collocano tutte nel Mezzogiorno e comprendono Napoli e Palermo, sia considerando i cittadini residenti sia i nati». ISTAT, Rapporto sul territorio 2020 – Ambiente, economia, società, Capitolo I, “I Cambiamenti”, p. 15.
[8] Si veda il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, p. 174.
[9] C. E. Gadda, Saggi Giornali Favole e altri scritti I, p. 509, 1991.
[10] Di ciò si è avuto traccia a partire, in particolar modo, dall’introduzione della moneta unica, la quale non fu accompagnata da apposite politiche di coesione destinate ad sostenere le regioni più povere nel tenere testa alla concorrenza economica di quelle più ricche, come avverte Zielonka. J. Zielonka, Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione europea, Roma-Bari, Laterza, 2015, p. 11.
[11] W. Streeck, “Il modello sociale europeo: dalla redistribuzione alla solidarietà competitiva”, in Stato e mercato, 1-2000, 58, pp. 3-24.
[12] A. SOMMA, “Diritto comunitario e patrimonio costituzionale europeo: cronaca di un conflitto insanabile”, in Politica del diritto, 2, 2004.
[13] Cfr. G. Preterossi, Ciò che resta della democrazia, Roma-Bari- Laterza, 2015, p. 29.
[14] I. Krastev, Gli ultimi giorni dell’Unione. Sulla disintegrazione europea, Roma, LUISS University Press, 2019.
[15] Sul punto si rimanda alla riflessione sviluppata e approfondita da A. Lo Giudice, “L’Europa sociale come risposta alla crisi di legittimazione dell’Unione Europea”, in Federalismi, n. 13/2016.
[16] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. XIV.
[17] Z. Laïdi, La tyrannie de l’urgence, Montreal, Editions Fides, 1999.
[18] G. Preterossi, “L’Odissea nello spazio”, introduzione al focus Diritto e Spazi Politici (a cura di G. Preterossi), in Rivista di filosofia del diritto, 2/2019, p. 331.
[19] Si veda l’articolo di Marco Revelli apparso su Volere la Luna il 18.04.2021, Da Jhonson a Draghi il trionfo dell’avidità.

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