Print Friendly, PDF & Email

gliasini

Il cattivo debito dell’Italia

di Alberto Rocchi

DSCF3671 1536x1229Vorrei dare una prospettiva, probabilmente falsata e limitata di quello che vedo io quotidianamente, oltre a darvi conto di alcune letture fatte. In particolare vorrei partire da una parola attorno alla quale gira tutto il futuro dei prossimi quattro-cinque anni. Questa parola è debito. In realtà essa già in passato aveva un significato preponderante perché noi stiamo vivendo quella che tanti economisti chiamano la “fase del debito” o anche “l’economia del debito”: è un’analisi che va molto di moda. Entriamo nel dettaglio e chiediamoci perché questa parola, debito, debba avere una connotazione negativa, o per meglio dire quando essa ha una connotazione negativa e quando ne ha una positiva. Evito le discussioni sul rapporto tra economia e religione, anche queste molto di moda (su cui rimando all’intervista a Luigino Bruni, sul numero 85, marzo 2021). Il debito ha una connotazione positiva quando dietro al debito c’è un progetto, un programma di sviluppo. Dal punto di vista economico un debito è una leva, un leverage, serve per portarci da un punto a un altro. Se io faccio debiti per raggiungere un obiettivo sto facendo una cosa buona, non necessariamente cattiva.

Quando si deteriora questa parola? Quando faccio i debiti per coprire i debiti, ma soprattutto quando un debito non è il frutto di uno scambio negoziale equo. Dietro il debito c’è un contratto di finanziamento, tra due soggetti; uno scambio contrattuale che unisce una persona disponibile a prestare denaro a una bisognosa di riceverne. In una visione perfetta del sistema economico questi due soggetti si trovano su una posizione di simmetria, cioè hanno lo stesso potere negoziale. Può succedere che questa simmetria si sposti fisiologicamente a favore di uno o dell’altro: se un debitore è già particolarmente indebitato, avrà difficoltà a contrattare un nuovo prestito; al contrario, se è molto solvibile, sarà lui a poter imporre delle condizioni al suo finanziatore.

Quando si rompe questa simmetria e il rapporto diventa asimmetrico, il debito si trasforma da una transazione negoziale tra due soggetti a un rapporto di potere. Sulla stessa linea: cosa succede quando nel rapporto negoziale di finanziamento a chiedere un prestito all’istituzione finanziaria è uno stato sovrano? Verrebbe da pensare che l’asimmetria, se e quando si crea, si verifica per colpa dello Stato; esso infatti, in teoria, ha il potere di bloccare tutti i pagamenti e, in quanto titolare di un potere sovrano, può teoricamente imporre qualsiasi condizione divenendo la parte forte del rapporto negoziale. Eppure non sempre è così.

Pensiamo all’Italia, a una sua istantanea a dicembre 2019: l’Italia ha 2.400 miliardi di debito, un importo enorme, che mette spavento ma che se si va a confrontare con quello di altri stati europei non è molto dissimile: non troppo da quello dei tedeschi, ad esempio, anche perché molto dipende dalle modalità di calcolo. Comunque, questo stock enorme di debiti (che poi è un decimo di quello degli Stati Uniti) chi lo detiene? Da una parte c’è lo stato italiano debitore, ma chi sono i creditori? Nel dicembre 2019 i creditori principali sono istituzioni finanziarie per il 70%, delle quali il 30% banche straniere, il 20% italiane e il 20% fondi di investimento transnazionali; per il resto un 20% ce l’ha la Banca d’Italia, appena un 6% ce l’abbiamo noi cittadini. All’inizio degli anni Novanta la quota del debito pubblico che era posseduta dai cittadini era sopra il 50%. Come è stato possibile che l’Italia sia arrivata ad avere un debito così elevato? È successo per l’effetto congiunto di due fattori: da un lato il Pil, dall’altro il tasso d’interesse. Uno è costantemente caduto, l’altro è costantemente cresciuto. Il tasso di interesse che paghiamo dagli anni Novanta ha avuto una crescita con impennate clamorose, picchi quasi insostenibili a metà degli anni Duemila. L’effetto congiunto di questi due fattori ha portato l’Italia in una posizione di svantaggio, di asimmetria rispetto ai suoi finanziatori. Sono quindi successe due cose: innanzitutto tu per chiedere, anzi elemosinare, finanziamenti, ti dovevi piegare alle condizioni che gli altri ti imponevano. Dall’altro lato il debito che facevi alimentava altro debito: si verificava quello che gli economisti chiamano “effetto snowball”, l’effetto valanga.

Il debito genera debito perché serve per pagare gli interessi sul debito stesso. Gli interessi sono sempre più alti e tu per pagare questo debito continui a indebitarti. L’altro termine è il Pil, che continua a calare. Quindi, se ragioniamo in termini di comparabilità, non prendiamo lo stock o valore assoluto del debito, ma il suo rapporto sul Pil. Confrontando questa grandezza, noi siamo il paese messo peggio a livello europeo. Quindi l’asimmetria negoziale è alla base della crescita esponenziale incontrollata del debito pubblico italiano. È per questo che noi abbiamo dovuto accettare delle condizioni imposte dall’UE, come il famoso 3%, la decrescita sostanziale del debito, il 60% dello stock eccetera; tutte misure che ci hanno penalizzato, a partire dagli anni Novanta e soprattutto nella prima metà degli anni Duemila. Questo è stato il punto a partire dal quale l’Italia ha perso tutta la sua competitività.

In queste condizioni, arrivando al 2020, con uno shock impressionante sull’economia per i motivi che sappiamo, per il quale serviva un’iniezione di liquidità straordinaria e imprevista, noi ci troviamo in una situazione in cui non riusciamo a intervenire efficacemente. Gli altri paesi, diversamente dall’Italia, non camminano con una palla al piede. Le nostre misure compensative del calo del Pil e dei danni dell’emergenza sanitaria in generale hanno comportato un maggior debito del 6,8%, contro l’11% della Germania, il 16% del Regno Unito, il 12% della Francia. Noi rispetto agli altri paesi abbiamo avuto una crescita del rapporto deficit-Pil di 23 punti, contro i 10 della Germania, i 12 del Regno Unito. Se andiamo a vedere la perdita di Pil pro capite in confronto ai ristori c’è un divario del 50% circa: cioè ogni cittadino, rispetto alla perdita di reddito, ha avuto ristori per la metà. In Germania è l’esatto opposto: hanno avuto il doppio rispetto alla perdita di Pil pro capite, cioè di reddito di capacità. In queste condizioni diventa impossibile fare debito nella misura in cui sarebbe necessario farlo. Eppure c’è un dato positivo: rispetto al passato, il fatto che l’UE abbia allentato i vincoli, con la deroga sul patto di stabilità e sul rispetto dei limiti di bilancio, ha contribuito a ricostruire almeno in parte la simmetria contrattuale. In questo momento, grazie al fatto che la Banca Centrale Europea acquista i titoli di stato, l’Italia ha la possibilità di indebitarsi in modo più libero, senza dover sottostare necessariamente a quei ricatti che le istituzioni transnazionali le hanno sempre fatto.

Io sto parlando come se gli stati e le istituzioni finanziarie transnazionali fossero due parti del negozio; in realtà forse sono ormai diventate la stessa cosa, nel senso che gli stati sono un’appendice delle banche, i politici sono strumenti in mano alle banche e forse in alcuni casi sono le stesse banche, non vi è differenza. Vedete da voi che in questo caso non si può parlare di debito buono, si può parlare solo di debito cattivo.

Per queste ragioni penso che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza non abbia delle possibilità concrete di successo, non nei prossimi cinque anni. Noi dobbiamo vedere la realtà, la nostra. Basta leggere gli studi di Marcello De Cecco ma anche di altri che hanno capito già negli anni Novanta che l’Italia stava retrocedendo in serie B, in serie C. Se noi vogliamo fare politica industriale, spesa pubblica, debito “buono”, dobbiamo guardare in faccia la realtà. Sotto almeno tre aspetti.

Primo aspetto: la pubblica amministrazione. È ridotta in uno stato pietoso, basta fare un giro nei ministeri, negli uffici pubblici. Sembra quasi che si sia saltata una generazione: abbiamo funzionari che sono tutti nella fascia 45-65, non ci sono giovani, c’è una carenza di dirigenti impressionante, perché non si è investito. Veniamo da anni in cui i tagli della spesa, frutto di quel ricatto sul debito nel quale in passato sono incappati i nostri politici, ci impedisce di portare avanti programmi di sviluppo e ci impone solo disinvestimenti. Il nostro apparato burocratico è ridotto ai minimi termini. Credete che sia possibile spendere il denaro stanziato dalla Ue in modo efficace? Un esempio concreto: il comune di Perugia ha ricevuto nel 2020 somme a ristoro delle perdite legate all’emergenza sanitaria ma ne ha spesi solo una parte. Non ci sono i funzionari, non c’è l’apparato pubblico che funzioni, che possa fare da volano per programmare ed eseguire investimenti. Sul tema della pubblica amministrazione sarà necessario tornare su questa rivista; ci sono delle riforme nella pubblica amministrazione che sono veramente funzionali a questo stato di cose. La legge sulla progressione verticale è quasi studiata perché ogni politico si porti dietro il suo burocrate, quindi i burocrati e i politici si alimentano l’un l’altro. Dobbiamo considerare oltretutto che abbiamo un sistema infrastrutturale a pezzi dal punto di vista tecnico, materiale ma soprattutto della struttura giuridica. Pensate alla riforma fiscale: noi siamo fermi a un sistema fiscale che è stato creato nel 1973, in un contesto che non esiste più. L’Irpef, nata come imposta generale sul reddito, oggi è un’imposta speciale sul reddito di lavoro dipendente. Solo i redditi del lavoro dipendente pagano l’Irpef, il resto è tutta imposta sostitutiva, ormai anche i redditi di lavoro autonomo. Chi può fare una riforma fiscale seria ed equa se, come ci ricorda De Rita, non c’è più l’apparato burocratico che studia, non c’è il dossieraggio dietro? Dietro a questo ci sarebbero dei temi giuridici enormi: provate a pensare alla tassazione della rendita, che oggi è una cosa indispensabile, da cui non si può prescindere. Si dovrebbe rivedere il rapporto costituzionale che c’è tra proprietà e bene comune, ma è un discorso troppo ampio. Ma non è solo la riforma fiscale che urge: c’è il sistema della giustizia, il diritto penale, un’obsolescenza giuridica generalizzata.

Secondo aspetto: la domanda interna: come facciamo ad agire sul Pil? Do solo un dato su questo e non aggiungo altro: negli ultimi dieci anni in Italia il potere d’acquisto dei salari a prezzi correnti è diminuito, quando la media dei paesi Ocse ha registrato un aumento del 10%. Non c’è molto da dire, la domanda interna è debolissima, inesistente.

Infine arriviamo al punto ancora più dolente: con quale settore imprenditoriale abbiamo a che fare noi in Italia? Oggi la produzione di beni segue logiche transnazionali se non addirittura transcontinentali. Le catene di creazione del valore sono lunghe, ogni bene ha una catena del valore che è lunghissima e ogni paese ne gestisce un segmento; e all’interno del paese la catena è ulteriormente segmentata. Nasce da qui il mondo della subfornitura che caratterizza il nostro paese. Noi infatti, nelle catene del valore, siamo un punto del tutto marginale. Siamo un piccolo hub nella catena transnazionale del valore del tessile: Cina, Vietnam, Italia, Stati Uniti. Per il resto contiamo solo come subfornitura di secondo ordine al di fuori dalle catene di valore principali. Abbiamo qualche eccellenza nella meccanica, nell’hi-tech, c’è qualche impresa che emerge, ma è poca cosa. Il resto è livello di galleggiamento puro, microimprese fatte da disperati che non investono e non hanno visione del futuro, si limitano semplicemente a lotte di retroguardia per mantenere queste posizioni. Qualche giorno fa ero in Cassa edile, un ente che gestisce le erogazioni del settore edile. Si guardavano i dati del 2020: in Umbria c’è stato un ricorso alla cassa integrazione inedito rispetto al passato, poi però nessuna impresa è ricorsa a finanziamenti straordinari. Queste imprese navigano a vista, a livello di sussistenza, con poche spese fisse; in queste condizioni, non hanno poi così bisogno di liquidità. Paradossalmente, queste imprese crisi di questo genere le incassano meglio, anche se ogni volta retrocedono di un gradino. Non ci sarebbe da stupirsi se, andando a vedere le ore di cantiere rispetto agli anni precedenti, si scoprisse che non vi è stato alcun calo, perché la maggior parte del lavoro viene fatta in nero. Sono tutte imprese che vivono nell’illegalità, non hanno una visione, galleggiano: questo è in larga parte il sistema imprenditoriale italiano.

Quando si parla di politica industriale, con questo tipo di tessuto imprenditoriale, è veramente difficile fare dei programmi. Ed ecco perché il debito che noi faremo per dar vita a questo Piano potrebbe essere ancora una volta un debito improduttivo, perché la spesa con la quale si vorrebbe stimolare una determinata reazione non colpisce necessariamente nel segno, anzi, quasi mai. C’è stata una recente indagine sulla normativa sull’impresa 4.0, con cui sono stati dati degli incentivi sotto forma di credito di imposta a quelle imprese che investivano in digitalizzazione. Bene, se si va a vedere chi ha usufruito di questo credito d’imposta, si scopre che sono sempre quelle tre-quattro eccellenze che si elevano rispetto alla massa. Le altre non le raggiungi, non ci arrivi. Per una trasformazione più profonda, l’unica via sarebbe quella dell’accorciamento delle catene di valore. Oggi si discute molto in economia di questo, del concetto di reinternalizzazione: provare cioè a portare le catene del valore al di fuori dei circuiti transnazionali e creare le condizioni perché possano essere reinserite all’interno di una singola nazione. Ma per fare questo servono le infrastrutture tecniche e giuridiche.

Chiudo con una riflessione che non c’entra niente con quanto detto finora. Se vogliamo parlare di economia oggi, dobbiamo immaginare il futuro. Non abbiamo la fortuna di vivere negli anni Settanta, quando c’erano dei futurologi che non hanno sbagliato di una virgola tutte le loro previsioni; e mi riferisco qui agli scrittori di fantascienza. Dobbiamo pensare al futuro cercando di capire cos’è oggi il presente, perché noi continuiamo a leggere il presente con gli occhi del passato. Nella società postindustriale ormai ci sono tre gruppi sociali, che non sono tre classi sociali, sono tre gruppi: un’élite che sta tra l’1 e il 3% della popolazione, una classe creativa che sta tra il 10 e il 12%, il resto è la neo-plebe. L’élite è quella che si può chiamare minoranza organizzata, cioè quella che organizza tutto il resto, che ci impone il mondo nel quale al momento siamo costretti a vivere; la classe creativa è quella che crea le innovazioni e le propone all’élite che le premia (o le scarta) a seconda se sono idonee o meno per il mantenimento del proprio potere. Il resto è neo-plebe, cioè piccole imprese, settore impiegatizio con mansioni ripetitive, operai, addetti al facchinaggio, lavoratori del sociale, della sanità. Questa massa di neo-plebe non ha la minima idea di quale possa essere il proprio futuro né si interroga su come si possa cambiare il mondo a partire dalla propria condizione.

È possibile un’alleanza all’interno dei singoli gruppi sociali per creare circuiti virtuosi? È possibile un’alleanza tra i diversi gruppi sociali? Questo è il tema che va esplorato.

Add comment

Submit