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cumpanis

La Cina contemporanea, erede principale dell’Ottobre Rosso e del bolscevismo

Per il centesimo anniversario del partito comunista cinese

di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

36228974. UY385 SS385 Quale tipo di eredità politica lascia e proietta fino ai nostri giorni l’epocale rivoluzione bolscevica del 1917, l’eroico “assalto al cielo” condotto con successo un secolo fa dagli operai e contadini dell’ex impero zarista, diretti dal partito di Lenin?

Dove si cristallizza concretamente l’attualità politico-sociale e il significato odierno, vivo e contemporaneo della Rivoluzione d’Ottobre?

Si tratta di una domanda semplice che trova una risposta politico-teorica altrettanto chiara, anche se sgradita e indigesta per larga parte della sinistra antagonista italiana, affetta sia da una prolungata impotenza politica di tipo anarcoide che da un puerile eurocentrismo: l’erede principale dell’Ottobre Rosso, all’inizio del terzo millennio, è costituito dalla Cina prevalentemente socialista dei nostri giorni.

Si è ormai attuata proprio quella scissione epocale tra “Oriente avanzato” (avanzato sul piano politico-sociale, e ai nostri giorni anche in campo tecnologico-produttivo) e “Occidente arretrato” (arretrato e reazionario sul piano politico-sociale) che Lenin aveva previsto, in modo geniale e provocatorio, fin dal maggio 1913 in un suo splendido articolo dal titolo omonimo e pubblicato sulla Pravda, scritto che il cosiddetto marxismo occidentale, da Otto Bauer fino ad arrivare a Toni Negri e a Žižek, evita come la peste bubbonica.

Certo, la sedimentazione concreta che rimane ancora oggi della rivoluzione bolscevica si rivela e si mostra anche nella memoria collettiva favorevole rispetto ad essa che è emersa di recente all’interno dalla coscienza di milioni di operai, contadini e intellettuali di sinistra di tutto il mondo, a partire ovviamente dal gigantesco continente-Russia.

Sono altresì successori legittimi e in carne e ossa dell’Ottobre Rosso del 1917 anche tutti quei partiti comunisti – non parliamo ovviamente delle litigiose e ininfluenti sette e micro sette di matrice trotzkista, bordighista o consiliarista – che continuano a lottare e operare nel mondo capitalistico e nelle ipersfruttate periferie del cosiddetto Terzo Mondo, perseverando con orgoglio a rivendicare l’eredità leninista anche ai nostri giorni e nei difficili decenni di controffensiva imperialistica, sviluppatasi con forza dopo il deleterio crollo dell’Unione Sovietica e dal 1989 ad oggi.

Passando a un livello politico-sociale ancora superiore, sempre come continuatore dell’Ottobre Rosso del 1917 troviamo, poi, l’esperienza apertamente marxista, seppur di natura creativa e non-dogmatica, dei partiti comunisti di Cuba e del Vietnam, del Laos e della Repubblica Democratica Popolare di Corea: partiti per i quali, è appena il caso di dire, la teoria e la praxis politico-sociale del bolscevismo rimane tuttora una fonte diretta di ispirazione, seppur letta e decodificata senza paraocchi dogmatici e applicata creativamente alla realtà locale, nazionale.

Ma in ogni caso l’erede principale della rivoluzione d’Ottobre all’inizio del terzo millennio si trova in oriente e, più precisamente, nella Cina Popolare: ferma restando l’importanza e il valore concreto delle altre esperienze statali sopracitate, la Cina contemporanea gode, infatti, di una centralità politica a livello planetario per tutta una serie di ragioni indiscutibili e connesse tra loro.

Innanzitutto il numero attuale dei cinesi risulta pari a più di 1.400.000.000 e comprende quindi quasi un quinto dell’intero genere umano, mentre invece, ad esempio, lo splendido popolo del Laos, con i suoi gentili e coraggiosi esseri umani, raggiunge solo quota sei milioni di unità.

Altrettanto indiscutibile risulta il “fatto testardo” (Lenin) in base al quale l’estensione territoriale della Cina equivale a più di 9.500.000 di chilometri quadrati, quindi oltre trenta volte l’Italia, mentre il Laos prevalentemente socialista invece si estende su una superficie di 236.000 km²: la Cina rappresenta il terzo paese nel mondo, dopo Russia e Canada, in termini di superficie geografica.

Sul piano geopolitico la Cina Popolare risulta, inoltre, collocata quasi al centro del gigantesco continente asiatico e confina, o risulta molto vicina a nazioni importanti quali la Russia, l’India e il Giappone, il Pakistan e l’Afghanistan, il Vietnam e la penisola coreana, oltre alle grandi estensioni della Mongolia e del Kazakistan.

La Cina prevalentemente socialista dall’inizio del terzo millennio è altresì ben posizionata, ormai da più di due decenni, all’interno della decisiva zona geoeconomica dell’Oceano Pacifico: un’area enorme e una rete proteiforme di interrelazioni produttive, commerciali e politiche che ormai rappresenta il “numero uno” a livello mondiale, come del resto aveva previsto in modo geniale Karl Marx fin dal 1850, nel suo splendido scritto intitolato “Spostamento del centro di gravità mondiale”.

Rimanendo sempre nel settore dei “numero uno” globali, la Cina Popolare è diventata, come minimo fin dal 2014, la prima potenza economica del mondo in termini di prodotto nazionale lordo – a parità di potere d’acquisto – persino secondo le valutazioni della Banca Mondiale a guida occidentale e, stando anche alle stime più prudenti, rappresenta sicuramente la terza potenza militare del nostro pianeta.

In che senso tale gigantesco potenziale materiale e umano, tale snodo enorme di accumulazione di potenza multilaterale costituisce l’erede politico principale del leninismo e della Rivoluzione d’Ottobre?

La prima risposta risulta di matrice politica e viene costituita dal semplice “fatto testardo” (Lenin) per cui, come in Russia dalla fine del 1917, l’egemonia nel controllo del potere statale e della gestione degli affari comuni della società viene esercitata tuttora dal partito comunista cinese: un partito comunista che risulta fiero di definirsi tale, presentandosi apertamente di fronte a tutto il mondo come marxista, oltre che basato sul materialismo dialettico in campo filosofico.

Tra i tanti esempi concreti disponibili va sottolineato come nell’ottobre del 2016 il compagno Xi Jinping, attuale segretario del partito comunista cinese, abbia dichiarato pubblicamente che “gli ideali e le cause per cui noi comunisti abbiamo combattuto” a partire dal 1921, “non sono cambiati”, mentre celebrava davanti ai mass-media e a centinaia di milioni di cinesi l’eroica “Lunga Marcia” maoista del 1935-1936.

Parole molto chiare, che vanno collegate a una seria pratica leninista tesa al controllo dei gangli fondamentali del potere politico ed economico rifiutando le pavide e anarcoidi pseudo teorizzazioni, ancora tanto diffuse nella sinistra antagonista occidentale, rispetto al “rifiuto di prendere il potere” e alla necessità di un “contropotere permanente rispetto alla borghesia”: ossia le concezioni infantili di intellettuali come Holloway, Žižek e Negri, incapaci persino di amministrare un condomino o anche solo pensare di amministrarlo.

Fondato nel luglio del 1921, quando Lenin svolgeva anche il suo ruolo di leader della Terza Internazionale, oltre che uno dei pochi partiti comunisti che opera senza soluzione di continuità politico-organizzativa da un secolo, il partito comunista cinese rivendica invece apertamente la realpolitik rivoluzionaria e l’eredità politica di Lenin, forte delle lezioni impartite da una storia ormai pluridecennale.

In seconda battuta la Cina dell’inizio del terzo millennio rivela una matrice socioproduttiva prevalentemente socialista e di tipo statale/cooperativo/municipale, come del resto avvenne in forme diverse anche nelle zone urbane della Russia post-rivoluzionaria durante il periodo compreso tra il novembre del 1917 (nazionalizzazione delle banche e della proprietà della terra, ecc.) e il 1928.

Persino la rivista statunitense “Fortune”, anticomunista e anticinese, in un suo rapporto sulle principali 500 aziende su scala mondiale pubblicato nell’estate del 2016, ha rivelato che tutte le prime undici imprese cinesi all’interno di tale “Top 500” planetaria erano, completamente o in larga parte, di proprietà pubblica: a partire dalla formidabile società cinese State Grid, seconda nella classifica mondiale Fortune con un fatturato pari a ben 329 miliardi di dollari, ossia un sesto del prodotto interno lordo italiano.

Il totale del fatturato del 2015 delle prime undici aziende cinesi, tutte di proprietà pubbliche (completamente o in gran parte), è risultato pari a 1.944 miliardi di dollari: ossia il 20 percento e un quinto del prodotto interno lordo cinese dello stesso anno.

Circa un quinto del PIL cinese del 2015 risultava, quindi, di proprietà statale e veniva generato da sole undici gigantesche aziende cinesi, da solo undici colossi di proprietà pubblica, con un fatturato pari al PIL italiano.

La Cina contemporanea ha preso il “testimone” politico lasciato dai bolscevichi russi anche nel campo dello sviluppo qualitativo delle forze produttive, settore strategico per il quale il geniale Lenin sostenne, a ragion veduta e fin dal giugno 1919, pubblicando l’articolo intitolato “La grande iniziativa”, che “la produttività del lavoro è in ultima analisi la cosa più importante, essenziale per la vittoria del nuovo ordine sociale. Il capitalismo può essere battuto definitivamente e sarà battuto definitivamente appunto perché il socialismo crea una nuova produttività del lavoro molto più alta”.

Se dal 1919 passiamo al 2021, proprio negli ultimi anni e smentendo molti profeti di sventura, anche di “estrema sinistra”, la Cina prevalentemente socialista ha raggiunto il primato mondiale in settori scientifico-tecnologici decisivi quali:

• i supercomputer;

• le comunicazioni quantistiche;

• il settore spaziale;

• le nanotecnologie;

• l’intelligenza artificiale;

• la produzione e utilizzo di robot;

• treni ad alta velocità (hyperloop, ecc.);

• le tecnologie per le energie rinnovabili (solare, eolica, ecc.).

Ormai, il secolare primato occidentale nell’alta tecnologia e nei settori scientifici all’avanguardia è entrato in crisi irreversibile, mentre si sta ormai consolidando un nuovo centro di gravità planetario all’interno di questo segmento decisivo per le sorti del genere umano.

Un ulteriore elemento di continuità teorica e pratica con la Rivoluzione d’Ottobre è rappresentato dalla particolare NEP cinese, introdotta in modo creativo in Cina a partire dal 1978 e proseguita fino ai nostri giorni, seguendo in buona parte l’importante modello socioproduttivo della Nuova Politica Economica già abbozzata nel marzo-aprile del 1918 e, in seguito, elaborata e messa in pratica da Lenin e dal partito bolscevico a partire dal marzo del 1921.

Come ha notato correttamente Fosco Giannini, dopo la vittoria dei bolscevichi nella durissima guerra civile del 1918-20 l’enorme massa dei contadini russi “non accettò più i sacrifici imposti dal comunismo di guerra” e Lenin si fece carico, più di ogni altro dirigente, della contraddizione sociale in atto, che lo portò a ragionare sull’esigenza dell’alleanza contadini-operai. Un’alleanza che Lenin, all’inizio, tentò di saldare attraverso un’innovazione politico-teorica: lo scambio di prodotti (baratto di merci) tra contadini e operai, tra grano e beni industriali. Non sarebbe stata la soluzione, ma l’indicazione di marcia da parte di Lenin, già potente, antidogmatica, una premessa della stessa NEP.

Quale corredo politico-teorico lascia la breve esperienza della NEP leninista? Lascia, innanzitutto, una riflessione, da parte di Lenin, profonda e proficua, un vero e proprio apparato teorico (accantonato) a sostegno del “socialismo attraverso un’economia di mercato”.

Lenin mette a fuoco la concezione dell’“uklad”, una struttura socialista, una produzione economica socialista, in grado di svilupparsi proprio in virtù della competizione con le strutture neocapitalistiche interne al socialismo. Una visione, questa di Lenin, addirittura preveggente, rispetto alla futura stagnazione sovietica brezneviana e in accordo con lo stesso, odierno, tipo di sviluppo e proficua competizione stato-mercato del “socialismo con caratteri cinesi”; oltre ciò, Lenin affronta il problema dell’entrata dell’economia di mercato (e persino del capitale straniero) nel socialismo in termini nuovi, sottolineando gli aspetti positivi, per ciò che riguardava e riguarda il necessario sviluppo generale delle forze produttive, di queste incursioni capitalistiche.

In modo abbastanza simile alla Russia sovietica del 1921-28, anche all’interno dei rapporti sociali di produzione cinesi dal 1978 fino ai nostri giorni si è riprodotto costantemente un particolare effetto di sdoppiamento di gigantesca portata storica, in base al quale un egemone e prioritario settore produttivo di matrice collettivistica da più di quattro decenni interagisce e coesiste conflittualmente con una larga, ma subordinata e minoritaria area di tipo capitalistico, endogeno o di proprietà delle multinazionali straniere.

Pertanto, le coordinate generali, allo stesso tempo teoriche e pratiche, tracciate sulla NEP in modo lungimirante da Lenin nel 1921, si ritrovano e sono state ricreate in modo creativo anche nella Cina contemporanea, come del resto vale anche per la vitale soluzione del rapporto dialettico esistente tra pianificazione – ben presente e tuttora ben funzionante all’interno del gigantesco paese asiatico – e mercato. Basta solo ricordare come lo stesso Lenin, capace di elaborare le linee-guida della NEP e delle relazioni mercantili nella Russia sovietica, avesse altresì introdotto simultaneamente sia il GOELRO, cioè l’Istituto di Pianificazione sovietico, sia il piano per l’elettrificazione della futura Unione Sovietica: ossia il comunismo inteso come “potere sovietico più elettrificazione”, come descrisse del resto in un loro colloquio avvenuto alla fine del 1920 a uno stupefatto scrittore di fantascienza come Herbert G. Wells.

Quinto anello di continuità tra l’esperienza bolscevica e la Cina contemporanea: la capacità di compiere, seppur con gravi errori e profonde autocritiche, imprese straordinarie e “miracoli” laici, imprevisti e inaspettati per gran parte degli osservatori del resto del mondo.

La politica non venne certo concepita dai comunisti sovietici e cinesi principalmente come arte del possibile, ma invece innanzitutto come prometeica e liberatoria scienza della trasformazione dell’impossibile (nel passato) nel possibile (nel presente) e nella realtà concreta del domani, di un futuro a volte molto ravvicinato.

Lenin e il partito bolscevico, con il supporto politico indispensabile dell’avanguardia degli operai e contadini russi, riuscirono infatti a realizzare l’eccezionale “triplice impresa” di sconfiggere la borghesia russa e internazionale nell’Ottobre Rosso del 1917, di vincere contro quasi tutti i pronostici la tremenda guerra civile del 1918-20 (in cui i “Bianchi” e le forze controrivoluzionarie erano foraggiate, armate e sostenute direttamente dall’imperialismo occidentale) e, infine, di risollevare in pochi anni l’area dell’ex-impero zarista da una situazione ormai divenuta, dopo la fine della lotta armata, disastrosa sia sul piano politico (sommossa di Kronstadt del 1921, ribellioni contadine nello stesso anno, ecc.) che economico: fame e cannibalismo nella Russia del 1921, distruzione quasi totale dell’industria nazionale, ecc.

Il partito comunista cinese, dal 1921 fino ad arrivare ai nostri giorni, è riuscito a sua volta a compiere un suo particolare “triplice miracolo”, laico e materialista, seppur commettendo a volte gravi errori politici e mettendo in campo una quasi costante pratica collettiva di autocritica. Il “triplice miracolo” si è via via manifestato nella sua vittoria epocale durante la guerra civile prolungata (e la resistenza all’imperialismo giapponese) del 1926-49; nella capacità di risolvere plurisecolari problemi della Cina quali la denutrizione, l’analfabetismo e l’assenza di protezione sociale (periodo 1949-76) e, infine, nel quarantennale decollo produttivo, tecnologico e sociale innescato dall’introduzione della NEP cinese a partire dal 1978, grazie allo stimolo e capacità pratica di progettazione del geniale Deng Xiaoping.

Un miracolo laico concretissimo che ha rivelato i suoi frutti positivi anche nella concretissima triplicazione (triplicazione…) dei salari degli operai e delle tute blu cinesi negli anni compresi tra il 2005 e il 2016, come ha ammesso l’insospettabile istituto Euromonitor a inizio 2017, oltre che nel fatto testardo – ammesso persino dall’insospettabile banca elvetica Credit Suisse e già nel 2013 – per cui il salario medio dei trentenni cinesi ormai supera quello dei trentenni italiani.

Niente male, per un paese e una nazione nella quale per le strade di Shanghai prima del 1949 morivano di fame e malattie facilmente curabili migliaia di proletari e di disoccupati, nell’indifferenza generale del mondo “civilizzato” e dell’avida borghesia cinese.

Anche in campo internazionale troviamo del resto delle sorprese politiche che fanno riferimento alla prospettiva universale di Lenin e dei bolscevichi, dato che si sta ormai materializzando ai nostri giorni una raffinata strategia su scala mondiale di lungo periodo, elaborata con cura dal partito comunista cinese: una visione globale di natura logistico-produttiva, pacifica e cooperativa che sarebbe piaciuta moltissimo al Lenin del “Decreto sulla pace” del 1917 e del trattato di Rapallo del 1922 tra Germania e Russia sovietica, oltre che un progetto cinese che già ora sta cambiando in modo graduale ma sensibile i vecchi rapporti di forza internazionali, geopolitici e geoeconomici.

L’obiettivo centrale per i prossimi anni di questa strategia è rappresentato dalla “Grande Eurasia”, mentre i suoi mezzi principali si cristallizzano nell’alleanza con la Russia e nelle nuove “Vie della Seta” che stanno sorgendo da Shanghai a Madrid/Londra: anche un intelligente studioso americano come Alfred McCoy ha rilevato già nel 2015 che “la Cina si sta affermando in modo profondo” in Eurasia e che per modificare la struttura geopolitica mondiale “sta usando un fine strategico, che fino a questo momento ha eluso la comprensione da parte delle élite al potere in Usa”.

“Il primo passo è consistito in un sensazionale progetto di creazione di una infrastruttura che assicuri l’integrazione economica del continente. Stendendo un’elaborata e complessa rete di ferrovie ad alto volume e ad alta velocità, come anche gasdotti e oleodotti, nelle vaste distese Eurasiatiche, la Cina potrebbe rendere realtà l’intuizione di Mackinder in un modo imprevisto. Per la prima volta nella storia il rapido movimento transcontinentale di carichi di materie prime fondamentali, petrolio, minerali, prodotti, sarà possibile su una scala prima impensabile, unificando così potenzialmente la grandissima estensione di terre in questione in un’unica zona economica, che si estende per 6500 miglia da Shanghai a Madrid. In tal modo la leadership di Pechino spera di spostare il baricentro del potere geopolitico via dalla periferia marittima e fin dentro l’Heartland continentale” (Alfred McCoy, “Il gran gioco di Washington e perché sta fallendo”), attraverso l’applicazione creativa della dialettica materialistica al processo di sviluppo delle relazioni internazionali.

Anche nel settore geopolitico e geoeconomico mondiale la Cina si sta dunque mostrando come l’erede principale della Rivoluzione d’Ottobre: del resto il geniale e antieurocentrico Lenin aveva previsto nel 1923, in uno dei suoi ultimi scritti intitolato “Meglio meno, ma meglio”, che “l’esito della lotta” (tra socialismo e imperialismo) “dipende, in ultima analisi, dal fatto che la Russia, l’India, la Cina, ecc. costituiscano l’enorme maggioranza della popolazione” del pianeta.

“Un’enorme maggioranza della popolazione” (Lenin) che ormai da tempo sta iniziando, in modo pacifico ad auto-organizzarsi, seppur tra molte contraddizioni e difficoltà, in buona parte dell’Eurasia, spezzando la strategia globale dell’imperialismo statunitense e la sua spietata “grande scacchiera”, esposta fin dal 1997 da Z. Brzezinski, il cui centro di gravità era ed è tuttora costituito dal controllo da parte di Washington del continente euroasiatico.

In conclusione, non si può che concordare con il marxista cinese Cheng Enfu quando quest’ultimo, sulle pagine dell’autorevole rivista cinese “International Critical Thought”, ha evidenziato in modo esplicito come il progetto globale della Nuova Via della Seta non è solo un piano infrastrutturale – come scorgiamo nitidamente anche in Occidente – ma “assume il volto di una iniziativa di edificazione globale del socialismo con caratteristiche cinesi” e quindi una planetaria operazione di soft-power con la quale “i comunisti cinesi contribuiscono al rafforzamento e allo sviluppo del movimento comunista a livello internazionale”.

Mentre la Cina progetta e agisce concretamente: quando la “raffinata” e (una volta) avanzata sinistra occidentale riuscirà a sua volta a dare finalmente segnali concreti di vitalità, dopo il “lungo sonno” del 1989-2020?

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daniele, massimo e roberto
Saturday, 04 December 2021 10:30
A SEGUIRE UN BREVE ESTRATTO DEL CAPITOLO SECONDO RIPRESO DAL LIBRO CENTO MILIARDI DI GALASSIE.
IL CAPITOLO PROSEGUE SU:
WWW.MONDOROSSO.WORDPRESS.COM

BUONA LETTURA

Capitolo secondo
Algoritmo ontologico nella notte stellata
L’Homo sapiens osserva da molte migliaia di anni la dinamica di movimento delle miriadi lattiginose di stelle, al pari dei terrestri “fiori fiammeggianti che brillano intensamente” e di quelle “nuvole vorticose nella foschia viola” dipinte e descritte magistralmente, seppur con modalità artistiche diverse, da Vincent Van Gogh e da Don McLean attraverso vere e proprie schegge di infinito, variegate per colori e sonorità.
Un processo infinito che riecheggia in modo diverso anche negli “interminati spazi” e “sovrumani silenzi” tratteggiati in una delle più belle poesie finora prodotte dal genere umano: ma persino il genio malinconico di Leopardi non poteva immaginare la magia e la celeste immensità di un mare stellare nel quale realmente, a partire dal 1917 e dalla scoperta clamorosa di Heber Doust Curtis, risulta facile naufragare e perdersi, dentro abissali vuoti cosmici costellati spesso di mortali e spietati buchi neri.
Ma per il nostro studio proprio tali “interminabili spazi” cosmici assumono il ruolo di un decisivo filo di Arianna e di un punto di partenza determinante.
A come Andromeda, in primo luogo; almeno cento miliardi di altre galassie, in seconda battuta, intese come concretissime memorie di luce per il nostro presente.
Soprattutto almeno cento miliardi di concretissimi motivi a sostegno del realismo ontologico e, simultaneamente, di validissime ragioni che demoliscono, invalidano e falsificano le tesi opposte dell’idealismo soggettivo con il suo peculiare schema del “nessun oggetto” (ad esempio cento miliardi di galassie) “senza soggetto”.
Partendo da Andromeda, la prima osservazione per iscritto rispetto a quella che solo dal 1917 verrà conosciuta come la galassia di Andromeda venne effettuata, nel X secolo d.C., dall’astronomo persiano Abd al-Rahman al-Sufi, il quale la descrisse come una “piccola nube” proprio all’interno del suo Libro delle stelle fisse, pubblicato nell’attuale Iran intorno al 965: uno splendido ritrovamento protoscientifico, ma ancora limitato dall’assenza di telescopi.
Andromeda venne considerata una particolare “nube” cosmica anche in seguito e ancora alla fine dell’Ottocento, mentre solo nel cruciale 1917 il geniale astronomo statunitense Heber Doust Curtis scoprì, comprese e in seguito dimostrò, grazie alle fondamentali osservazioni effettuate da Hubble nel 1923 e nel corso di alcuni anni di accaniti dibattiti scientifici, che Andromeda costituiva invece un’enorme galassia come la nostra Via Lattea, denominando inoltre la nostra sorella stellare come un altro “universo-isola”.
Si trattò di una scoperta epocale e di un vero e proprio simbolo dell’eurekismo scientifico.
Ormai nessun astronomo, nessun astrofisico dubita dell’esistenza della galassia di Andromeda che, ben lungi da essere un’insignificante “nube a spirale”, rappresenta invece una galassia a spirale lontana approssimativamente 2,5 milioni di anni luce dal nostro sistema galattico, essendo tra l’altro di dimensioni superiori alla Via Lattea e venendo formata da un numero di stelle stimato nell’ordine di un bilione: ossia mille miliardi di corpi stellari, al cui interno avviene una continua e formidabile attività di fusione termonucleare.
Dunque abbiamo una galassia e circa mille miliardi di stelle assolutamente sconosciute al genere umano, a qualunque essere umano prima del 1917 e prima della scoperta epocale di Curtis: fatti testardi (Lenin) e innegabili, a dispetto di Nietzsche e del suo “non ci sono fatti, solo interpretazioni”.
La storia astronomica da analizzare era comunque solo all’inizio del suo processo di sviluppo di matrice eurekista, visto che dopo il 1917 alla nostra Via Lattea e alla galassia di Andromeda si sono via via aggiunte come minimo cento miliardi di altre galassie, prima ignote: ossia altri cento miliardi di complessi di stelle, sistemi stellari, gas e polvere legati e connessi dalla reciproca forza di gravità, facendo in modo che in poco più di un secolo la nostra prospettiva rispetto al cosmo si sia espansa e ampliata di miliardi di volte, rispetto ai ristretti parametri del 1916 e precedenti all’epocale ritrovamento di Curtis.
Nessuno scienziato ormai dubita che nel nostro universo siano presenti e ruotino nello spazio come minimo cento miliardi di galassie; si clicchi a tal proposito su Internet alla suggestiva voce del 2002 curata da Glen Mackie, To see the Universe in a grain of Taranaki Sand.
Ma gli astrofisici, ormai abituati a “vedere un mondo in un granello di sabbia” (William Blake), in maggioranza ormai stimano che nell’universo vi sia un numero di galassie superiore di almeno dieci volte alla cifra sopracitata di cento miliardi: ad esempio nell’ottobre del 2016 un nuovo studio, uscito sulla prestigiosa rivista The Astrophisical Journal, aveva fornito una stima di ben duemila miliardi di galassie esistenti nel cosmo, alzando altamente l’asticella numerica.
Per un evidente criterio di sicurezza filosofica limitiamoci alla cifra, minimalista e ipersicura, di almeno cento miliardi di galassie presenti e in continuo moto all’interno dell’universo, ciascuna delle quali connessa e legata dalla forza di gravità espressa proprio dalla miriade di singole stelle che le compongono: passiamo a questo punto alla riflessione filosofica su questo spettacolare e immenso materiale cosmico.
La teoria realista-ontologica può spiegare la scoperta in un secolo di cento miliardi di galassie?
La risposta è sicuramente positiva, visto che per essa tali cento miliardi di galassie esistevano indipendentemente dall’uomo e bastava solamente “coglierle” e conoscerle da parte della nostra specie, attraverso nuovi telescopi (Hubble, ecc.) adeguati allo scopo e sufficientemente sofisticati.
La teoria realista può altresì fornire una spiegazione razionale e credibile anche alle nuove e continue scoperte di galassie, visto l’accumularsi del tempo-lavoro degli astronomi di tutto il mondo e il parallelo miglioramento degli strumenti di osservazione dello spazio cosmico, partendo dal rudimentale cannocchiale di Galileo del 1610 fino ad arrivare al moderno Hubble, prevedendo altresì la scoperta di altre galassie, quando e se miglioreranno i mezzi di osservazione e trascorrerà più tempo a favore della praxis scientifica umana: ad esempio grazie al nuovo telescopio James Webb, che dovrebbe essere operativo verso la metà del 2021, saremo in grado di individuare moltissime galassie ancora celate alla vista collettiva – soprattutto tecnoartificiale – del genere umano.
La concezione realista-ontologica spiega ad esempio perfettamente la scoperta della galassia “Wolfe Disk”, distante dalla Terra 12,5 miliardi di anni luce e ritrovata nel maggio 2020; oppure il ritrovamento della galassia EGS8p7 a 13,2 miliardi di anni luce dal nostro sistema solare, scoperta avvenuta nel 2015 in un elenco che può essere allungato a piacere.
A questo punto verifichiamo se la scoperta di almeno cento miliardi di galassie sia invece compatibile con la tesi principale dell’idealismo soggettivo, secondo cui “non esiste oggetto senza soggetto”: ma proprio da tale teoria e presupposto intellettuale discende inevitabilmente la conseguenza che le sopracitate cento miliardi di galassie, ciascuna delle quali con miliardi di stelle, non esistevano prima del 1917, e cioè prima di Curtis e delle sue osservazioni rispetto ad Andromeda.
Conclusione assurda, certo, ma logica e inevitabile, visto il sopracitato presupposto filosofico.
Almeno stando ad esso, in assenza delle osservazioni del “soggetto” di derivazione schopenhaueriana e in mancanza della “percezione, osservazione, misurazione” (Massimo Cacciari) del genere umano, la galassia di Andromeda non esisteva prima del 1917 e prima dei rilevamenti scientifici di Curtis; e anche ciascuna delle oltre cento miliardi di galassie osservate nel corso dell’ultimo secolo non orbitavano nello spazio prima delle rilevazioni effettuate via via dai vari astrofisici, partendo dal 1918 per arrivare ai tempi attuali e ai nostri giorni, sempre seguendo Berkeley, Schopenhauer e i loro seguaci.
Risulta forse veritiero e credibile tale inquadramento generale da parte dell’idealismo soggettivo, con il suo mantra del “nessun oggetto” (=cento miliardi di galassie) “senza soggetto”?
Per niente, non esprime neanche un briciolo di veridicità e di credibilità.
Acquisirebbe un minimo di veridicità e di credibilità solo se per assurdo agisse e fosse in azione, come minimo dal 1917 e fino ai nostri giorni, senza soluzione di continuità, un (presunto, inesistente) superpotere degli astrofisici capace di creare ex-novo e di “costruire” in prima persona, in totale segretezza, cento miliardi di galassie, ciascuna con miliardi di stelle in giro per il nostro universo; senza poi rivelare tale tremendo segreto e senza farsi scoprire dai normali esseri umani. Tuttavia tale immaginario superpotere astrofisico sicuramente non esisteva e non esiste, nel 1917 come tutt’oggi. L’eccellente astronomo Curtis non possedeva alcuna magia iperprometeica ed era incapace di creare non solo la galassia di Andromeda, ma anche un singolo pianeta o un meteorite di piccole dimensioni, trovando tra l’altro difficile dopo il 1917 persino convincere i colleghi dell’esistenza di Andromeda come galassia, almeno fino a quando Edwin Hubble studiò nel 1923 e all’interno di Andromeda una stella variabile, denominata V1, dimostrando che essa era collocata a una distanza per quei tempi incredibile e in ogni caso molto oltre i confini della nostra Via Lattea.
Non solo: se non forse in qualche oscura clinica per malattie mentali, non si è ancora manifestato al genere umano alcun presunto soggetto, individuale o collettivo, che abbia dichiarato di aver creato una galassia, da Andromeda fino a quelle più lontane dalla Terra.
Pertanto è ormai in formazione un algoritmo ontologico-eurekista; un particolare software, un programma e un procedimento filosofico che risolva il problema dell’esistenza della realtà in modo indipendente dall’uomo.
Si parte da fatti sicuri e indiscutibili quali le sopracitate scoperte di oggetti prima ignoti, ad esempio cento miliardi di galassie dopo il 1916.
Si prende inoltre in esame solo la teoria interpretativa dell’idealismo soggettivo, ossia nessun oggetto senza soggetto.
Terza regola della sequenza algoritmica: si escludono come assurde e inaccettabili alcune possibili ipotesi interpretative della scoperta X, quali ad esempio il presunto astronomo iperpotente, lasciandone solo due praticabili per l’idealismo soggettivo.
Quarto passo: si prende in esame una delle due opzioni interpretative ancora a disposizione dei seguaci di Berkeley (= le cento miliardi di galassie esistevano prima del 1917 e della loro scoperta da parte dell’uomo), valutandone subito la contraddizione insanabile e distruttiva con la teoria del “nessun oggetto senza soggetto”.
Si analizza poi l’altra possibile risposta che emerge dall’“alternativa del diavolo” a cui è posto di fronte l’idealismo soggettivo, ossia che l’oggetto X frutto della scoperta X (sempre i cento miliardi di galassie, come esempio tra i tanti) non esisteva prima del suo ritrovamento da parte dell’uomo: valutando subito la contraddizione insanabile e distruttiva tra tale tesi e la pratica scientifica, oltre che il buon senso, persino degli idealisti soggettivi.
Ultimo passo: esclusa come assurda e sbagliata la teoria ontologica dell’idealismo soggettivo, rimane in gioco solo ed esclusivamente la prospettiva generale proposta dal filone realista, rispetto all’ontologia.
Ovviamente l’algoritmo ontologico presuppone un ritrovamento indiscutibile e sicuro di un ente e processo ben distante dagli altri e ignoto in precedenza dall’intero genere umano, senza alcuna eccezione, quale ad esempio la galassia di Andromeda, sconosciuta fino al 1917 come corpo distante della nostra Via Lattea e con una struttura autonoma composta da miliardi di stelle.
L’algoritmo ontologico ha inoltre come sua seconda condizione necessaria il fatto che la nuova cosa, il nuovo oggetto e processo materiale rinvenuto per la prima volta dalla praxis collettiva umana sia stato rinvenuto in un momento e fase temporale relativamente preciso, prima della quale nessun oggetto cognitivo tanto caro a Schopenhauer non aveva alcun idea anche approssimativa sull’esistenza dell’oggetto scoperto: ad esempio prima del 1917 nessun essere aveva immaginato, né tantomeno aveva prove empiriche che Andromeda distasse milioni di anni luce dalla nostra galassia, che essa costituisse un oggetto differenziato e ben separato dalla nostra galassia, che nel nostro “gemello” prima sconosciuto trovassero miliardi e miliardi di stelle o altri corpi celesti, la cui esistenza rappresentasse in precedenza un totale mistero per l’Homo sapiens sapiens, e così via.
Inoltre l’algoritmo in via di esame presuppone l’azione concreta di strumenti di datazione affidabili, come quelli che nell’ultimo secolo hanno permesso sia di stabilire che la differenziazione degli ominidi dalle altre scimmie è avvenuto al massimo sei milioni di anni or sono che di scrutare alcune galassie lontane più di tredici miliardi di anni, al momento dell’emissione da parte loro della luce e dei fotoni che stiamo ora osservando.
Senza tali presupposti, l’algoritmo ontologico non può compiere il suo processo di verificazione scientifica rispetto alle falsità delle tesi dell’antirealismo filosofico.
Risulta subito chiaro come la quantità di volte e casi concreti nei quali si può utilizzare l’algoritmo ontologico conti e pesi in misura come minimo molto importante.

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Daniele, Massimo e Roberto
Thursday, 02 December 2021 08:44
A SEGUIRE UN BREVE ESTRATTO DELLA PREFAZIONE AL LIBRO "CENTO MILIARDI DI GALASSIE".
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Prefazione
L’eurekismo e la riproduzione creativa del reale
Il tratto distintivo dell’idealismo soggettivo risulta l’affermazione di una presunta dipendenza sia gnoseologica che ontologica dell’essere (miliardi di galassie, le stelle, ecc.) rispetto al pensiero e alle sensazioni degli uomini.
L’idealismo soggettivo, spesso conosciuto con la denomina-zione di antirealismo ontologico, ha come sua matrice principale la tesi secondo cui non esiste oggetto senza un soggetto umano che lo percepisca (Schopenhauer): quindi “esse is percepi”, ossia l’essere dei vari enti naturali consiste nell’essere percepiti dagli esseri umani (Berkeley).
In altre parole il fulcro dell’idealismo soggettivo risulta l’affermata dipendenza, sia gnoseologica che ontologica, dell’essere (le galassie, il sole, ecc.) rispetto al pensiero e alle sensazioni umane: ossia, come affermò Schopenhauer, nella «conoscenza che tutto ciò che è esteso nello spazio» (le stelle, il sole, la luna, le montagne, ecc.), «e cioè il mondo materiale, oggettivo in generale esiste come tale assolutamente nella nostra rappresentazione, e che è falso, anzi assurdo, attribuirgli, in quanto tale, una esistenza fuori da ogni rap-presentazione e indipendente dal soggetto conoscitivo, e assumere quindi una materia come semplicemente esistente e dotata di realtà propria».
Quindi le stelle, il Sole, la Luna e gli altri oggetti esistono solo se sussiste un “soggetto conoscitivo”, un “sostegno” (Schopenhauer) umano che li osserva, misura e interpreta; come affermò a sua volta il fisico – e filosofo idealista – Henry Poincaré, «tutto ciò che non è pensato è puro nulla», in quella che Lenin definì giustamente come una logica “conclusione” ed esito finale dell’antirealismo ontologico.
Se il nucleo essenziale di ogni idealismo, come sosteneva Hegel nella sua Logica, consiste nel «non ritenere vero il finito», quello soggettivo declina tale tesi generale individuando nella coscienza e nell’esistenza umana il vero “sostegno” e la “reale” (si fa per dire, certo) base degli oggetti finiti, stelle, sole e luna compresi.
Inevitabilmente l’antirealismo ontologico ritiene falsa, sbagliata e a volte addirittura “assurda”, come nel caso di Schopenhauer, la posizione generale costantemente sostenuta dal realismo ontologico: ossia che i molteplici oggetti hanno «una esistenza fuori di ogni rappresentazione e indipendente dal soggetto conoscitivo» (Schopenhauer), che la materia risulta «semplicemente esistente e dotata di realtà propria» (sempre Schopenhauer) e che quindi – per dirla questa volta con lo scrittore scozzese A. J. Cronin – le stelle stanno a guardare l’umanità, non dipendendo da quest’ultima per la loro genesi e processo di sviluppo, oltre che nella loro decadenza e trasformazione finale.
Non certo casualmente un geniale esponente della tendenza materialista del realismo ontologico, V. I. Lenin, notò a tal proposito che «il punto di vista giusto, quello del materialis-mo dialettico, deve essere formulato così: gli elettroni, l’etere e tutto il resto esistono o no al di fuori della coscienza umana, come realtà oggettiva? È a questo problema che gli studiosi devono rispondere senza esitazione ed essi rispondono sempre affermativamente, allo stesso modo che ammettono l’esistenza della natura come anteriore alla nascita dell’uomo e della materia organica. La questione è così risolta in favore del materialismo, poiché, come abbiamo già detto, la nozione della materia non significa assolutamente nient’altro dal punto di vista della teoria della conoscenza che la realtà oggettiva, la cui esistenza è indipendente dalla coscienza umana e che è riflessa da questa».
Viceversa, almeno nell’universo mentale proposto dall’idea-lismo soggettivo, gli elettroni, le galassie, le stelle, «i soli e i pianeti senza un occhio che li veda e un intelletto che li riconosca» non sono più comprensibili e «intelligibili di un sideroxylon», ossia di un ferro di legno: è sempre Schopenhauer che parla con estrema chiarezza continuando a illuminarci, a modo suo, su un’importante questione che, a partire dall’India di quattordici secoli fa, assilla e interessa carsicamente il processo di riflessione filosofico.
L’universo mentale dell’antirealismo ontologico è stato rappresentato in modo splendido dal reazionario ma geniale J. L. Borges, nel suo racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius pubblicato nel 1940 all’interno del libro Finzioni.
In tale narrazione si immagina che all’Hotel de Adrogué fosse stato a lungo ospite un ingegnere inglese, Herbert Ashe, che giocava a scacchi con il padre di Borges.
Dopo la sua morte Borges venne fortuitamente in possesso di un pacchetto sigillato, che era stato inviato all’ingegnere Ashe qualche giorno prima che egli morisse, rimanendo nel bar dell’Hotel. Con meraviglia egli trovò l’undicesimo volume della First Encyclopaedia of Tlön, nella cui prima pagina era impresso un timbro con la scritta: Orbis Tertius.
Il narratore abbandona a quel punto «le vesti dell’investi-gatore e si dedica con partecipazione al racconto del mondo di Tlön, risultante dal volume enciclopedico di cui è venuto in possesso.
Tlön è ora un pianeta, con le sue nazioni. Vi impera l’idealismo, segnatamente quello berkeleiano; la cultura classica comprende ivi una sola disciplina: la psicologia. Non vi si concepisce lo spazio ed anche la successione degli eventi è soltanto un’associazione di idee. Le scuole tlöniste negano il tempo.
Gli oggetti sono immateriali, sono percezioni della mente (Esse est percipi).
Essi vengono convocati o obliati secondo la necessità, nella letteratura secondo la necessità poetica.
La lingua è congetturale e non contempla il sostantivo, che, nell’emisfero australe, è sostituito da verbi impersonali, qualificati da suffissi con valore avverbiale; in quello boreale, da un’accumulazione di aggettivi.
La metafisica è un ramo della letteratura fantastica; la filosofia è un gioco dialettico, una filosofia del “come se”. Il materialismo è motivo di scandalo e chi lo sostiene è eretico.
Il fatto che gli oggetti – i hrönir – siano prodotti del pensiero consente di modificare anche il passato, l’archeo-logia, la storia.
Non c’è identità personale e il soggetto della conoscenza è ivi unico ed eterno.
Da ciò discende che la letteratura è opera d’un solo autore ed i libri hanno tutti lo stesso argomento, con tutte le permutazioni immaginabili.
Il problema fondamentale è: chi furono gli inventori di Tlön? Si pensa ad una società segreta sotto la direzione di un oscuro uomo di genio. Al principio Tlön apparve come un puro caos, ma ora si sa che è un cosmo, le cui leggi sono opera dell’uomo».
Borges descrive dunque un mondo alternativo dominato dall’idealismo soggettivo, nel quale non esiste causalità e dove il cosmo viene considerato come “un insieme di processi mentali”, prodotti proprio dagli abitanti di Tlön.
Borges infatti immagina un mondo nel quale «non è esagerato affermare che la cultura classica di Tlön comprende una sola discipli-na: la psicologia. Le altre, le sono subordinate. Ho già detto che gli abitanti di questo pianeta concepiscono l’universo come una serie di processi mentali, che non si svolgono nello spazio, ma successiva-mente, nel tempo. Spinoza attribuisce alla sua inesauribile divinità i modi del pensiero e dell’estensione; su Tlön, nessuno comprenderebbe la giustapposizione del secondo (che caratterizza solo alcuni stati) e del primo, che è un sinonimo perfetto del cosmo. In altre parole: non concepiscono che lo spaziale perduri nel tempo. La percezione di una fumata all’orizzonte, e poi della campagna incendiata, e poi della sigaretta mal spenta che provocò l’incendio, è considerata un esempio di associazione di idee.
Questo monismo o idealismo totale invalida la scienza. Spiegare (o giudicare) un fatto, è unirlo a un altro fatto; ma quest’unione, su Tlön, corrisponde a uno stato posteriore del soggetto, e non s’applica allo stato anteriore, dunque non lo illumina. Ogni stato mentale è irreducibile: il solo fatto di nominarlo – id est, di classificarlo – comporta una falsificazione. Da ciò, sembrerebbe potersi dedurre che su Tlön non si dànno scienze, né ragionamenti di sorta. La verità, paradossale, è che le scienze colà esistono, e in numero quasi sterminato. Delle filosofie, nell’emisfero boreale, accade ciò che nell’emisfero australe accade dei sostantivi: il fatto che ogni filosofia non possa essere, in partenza, che un gioco dialettico, una Philosophie des Als Ob, ha contribuito a moltiplicarle. Abbondano i sistemi incredibili, ma di architettura gradevole o di carattere sensazionale. I metafisici di Tlön non cercano la verità e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica».
In questo mondo “idealista totale”, paradossalmente risulta quasi incomprensibile proprio il realismo/materialismo, con la sua tesi sull’esistenza degli oggetti (le “nove monete di rame”) indipendente-mente dall’uomo e dalla sua coscienza.
«Tra le dottrine di Tlön, nessuna ha sollevato tanto scalpore come il materialismo. Alcuni pensatori ne hanno dato una formulazione, ma in termini più fervidi che chiari, come chi sa di proporre un paradosso. Per facilitare l’intendimento di una tesi così inconcepibile, un eresiarca del secolo XI escogitò il sofisma delle nove monete di rame, la cui scandalosa rinomanza equivale, su Tlön, a quella delle aporie eleatiche. Di questo “ragionamento specioso” si hanno molte versioni, che differiscono quanto al numero delle monete o a quello dei ritrovamenti; ecco la più comune:
Il martedì, X, tornando a casa per un sentiero deserto, perde nove monete di rame. Il giovedì, Y trova sul sentiero quattro monete, un poco arrugginite per la pioggia del mercoledì. Il venerdì, Z scopre tre monete sullo stesso sentiero e lo stesso venerdì, di mattina, X ne ritrova due sulla soglia di casa sua.
Da questa storia l’eresiarca pretendeva dedurre la realtà – cioè la continuità – delle nove monete recuperate.
È assurdo (affermava) immaginare che quattro delle monete non siano esistite dal martedì al giovedì, tre dal martedì al venerdì pomeriggio, e due dal martedì al venerdì mattina. È logico pensare che esse siano esistite – anche se in un certo modo segreto, di comprensione vietata agli uomini – in tutti i momenti di questi tre periodi.
Il linguaggio di Tlön si prestava male alla formulazione di questo paradosso; i più non lo compresero. I difensori del senso comune si limitarono, al principio, a negare la veracità della storia. Ripeterono che si trattava di un inganno verbale, fondato sull’impiego temerario di due voci neologiche, non consacrate dall’uso ed estranee ad ogni pensare severo: i verbi trovare e perdere, che comportavano, qui, una petizione di principio, poiché supponevano l’identità delle prime nove monete e delle seconde. Denunciarono la perfidia circostanza di quell’“un poco arrugginite per la pioggia del mercoledì”, che presuppone ciò che si tratta di dimostrare: la persistenza delle quattro monete tra il martedì e il giovedì. Osservarono che altro è uguaglianza, altro identità; e prospettarono, in guisa di redutio ad absurdum, il caso ipotetico di nove uomini che in nove notti successive provano un vivo dolore. Non sarebbe assurdo – chiesero – pretendere che questo dolore sia lo stesso? Aggiunsero che l’eresiarca era stato mosso unicamente dal proposito blasfemo di attribuire la divina categoria dell’essere ad alcune semplici monete; e rilevarono che colui a volte negava la pluralità, altre no. Se l’uguaglianza comporta identità – argomentarono – bisognerebbe anche ammettere che le nove monete sono una moneta sola».
Dopo che anche Borges ha levato il velo sull’universo mentale, profondamente malato, dell’idealismo soggettivo, per concludere il processo di definizione dell’antirealismo/realismo ontologico serve solo precisare che tale questione teorica deve essere distinta da quella del realismo scientifico, relativa alle verità delle teorie scientifiche.
A tal proposito G. Fornero e S. Tassinari hanno notato correttamente, nel loro interessante libro Le filosofie del Novecento, che «vanno tuttavia compiute in via preliminare almeno due distinzioni. Innanzitutto fra un realismo ontologico e uno scientifico: il primo si pone la questione di che cosa esista realmente e riguarda dunque le nostre teorie sul mondo esterno (la cui esistenza non era stata negata neppure da idealisti come Berkeley): in genere esso crede all’esistenza effettiva e concreta delle entità inosservabili di cui ci serviamo per spiegare quelle osservabili. Il secondo, invece, si pone la questione del valore conoscitivo delle teorie scientifiche e del loro rapporto con la realtà esterna, l’oggetto delle teorie stesse; in linea di massima esso crede che esista una corrispondenza fra quanto asserito dalle teorie e l’effettivo stato di fatto della realtà e sottintende tacitamente l’esistenza del mondo esterno. Un’altra distinzione è quella fra un realismo sulle teorie e uno sulle verità; per il primo le teorie sono vere e dunque parlano del mondo così com’è, cioè descrivendolo, mentre il secondo (che pertanto si impegna meno da un punto di vista ontologico) si limita ad asserire che le entità di cui le teorie parlano esistono davvero».
Ma a questo punto bisogna affrontare il toro (ontologico) per le corna: ha ragione Schopenhauer a definire sbagliata e “assurda” la teoria realista, o viceversa risultano errate e assurde le tesi dell’idealismo soggettivo relative al “nessun oggetto senza soggetto”?

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Daniele
Friday, 08 October 2021 19:09
Fermate il soldato Rampini

di mondorosso.wordpress.com

Nel suo nuovo libro, intitolato in modo allarmistico e significativo Fermate Pechino, il giornalista F. Rampini ha attribuito alla Cina Popolare il ruolo nefasto e satanico di aspirante dittatore sull’intero mondo, seguendo fedelmente l’isterica sinofobia innescata nel mondo occidentale dalla nuova guerra fredda scatenata, senza soluzione di continuità dal 2011 a oggi, da parte di Washington contro il gigante asiatico.

Non a caso Rampini dimentica che è l’imperialismo USA, e non certo la Cina, ad avere avviato dopo il 1945 un processo continuo di costruzione di centinaia di basi militari ed aver spedito consiglieri militari statunitensi in quasi 150 paesi del pianeta, dal Giappone all’Honduras, dalla Penisola arabica alla Groenlandia, dal Perù alla nostra Italia: ossia basi e consiglieri collocati in tre quarti delle nazioni del globo, nel’anno di grazia 2021.

Sono inoltre gli Stati Uniti, e non certo la Cina, ad avere a mano a mano bombardato e/o invaso dal 1981 ad oggi Libia, Grenada, Panama, Iraq, Haiti, Somalia e Afghanistan.

Sono sempre gli USA con il loro complesso militar-industriale (categoria politica creata nel 1961 dall’insospettabile e anticomunista presidente americano Eisenhower), e non certo la Cina, a occupare illegalmente e da alcuni anni ampie zone della Siria, senza alcun mandato dell’ONU.

È sempre Washington, e non certo Pechino, a contare e pesare per quasi il 40% sulle spese militari dell’intero pianeta: fra l’altro quasi quattro volte più della seconda nazione all’interno di questa classifica bellica, secondo i dati forniti dall’insospettabile SIPRI.

Sono gli USA, e non certo la Cina, ad aver scatenato dal 1960 ad oggi e senza sosta tutta una serie di embarghi economico-tecnologici pluridecennali contro Cuba (dal 1960), contro la stessa Cina (dal 1989), contro Russia, Venezuela, Siria e Bielorussia.

Sono sempre gli Stati Uniti, in modo unilaterale, ad avere iniziato a scatenare una feroce guerra economica con pesantissimi dati commerciali contro la Cina, sia attraverso l’amministrazione Trump del 2018–2020 che con quella di Biden nell’anno in corso.

È sempre Washington, e non certo Pechino, ad avere organizzato a partire dal 2002 una serie di falliti colpi di stato contro i governi bolivariani del Venezuela, per fare un solo esempio.

È sempre l’imperialismo americano, e non certo la Cina, ad avere creato da alcuni decenni il gigantesco complesso di spionaggio planetario denominato Echelon.

A tal proposito e su questa materia Rampini avrebbe almeno potuto leggere alcuni brani del quotidiano su cui lui stesso scrive: ad esempio un articolo intitolato “Echelon, alla ricerca del grande fratello”, oppure quello intitolato “Echelon controlla l’Europa. Ecco tutti i segreti” , o infine “Echelon, parla un pentito: non fantascienza ma realtà”.

Proprio Rampini dovrebbe finalmente passare dalla sua allucinante fantascienza/fantapolitica alla viceversa concretissima realtà dell’imperialismo americano, con il suo recentissimo patto anticinese dell’Aukus stipulato con Gran Bretagna e Australia.

Rispetto a questo nodo rivelatore del processo di sviluppo della politica mondiale, Rampini potrebbe forse informarsi attraverso i suoi amici francesi o almeno mettersi a leggere l’articolo del Fatto Quotidiano intitolato “Aukus, lo sgarbo USA agli alleati in nome della guerra anticinese”.

In altri termini, almeno per una volta Rampini potrebbe svolgere il ruolo di vero giornalista e analista ricercando fatti concreti; come fece quel Julian Assange che, non certo casualmente, nel 2017 un particolare e potente servizio segreto voleva rapire e uccidere.

Un servizio segreto non certo asiatico, non certo cinese.

Un servizio segreto con sede a Langley, negli Stati Uniti, conosciuto in tutto il globo come CIA.

Sempre il quotidiano Repubblica, in data 26 ottobre 2013, aveva del resto informato i suoi lettori che la CIA (la CIA, signor Rampini, non la Cina…) aveva spiato a partire dal 2002 l’allora cancelliera tedesca Angela Merkel, notando altresì che nel 2010 l’NSA e la CIA possedevano 80 centri di spionaggio nel mondo e 19 in Europa, di cui uno a Roma (vedi “Datagate, Spiegel: a Roma centro NSA-CIA. Merkel spiata dal 2002”).

Come ha lucidamente sintetizzato il giornalista e storico Davide Rossi, le pagine del libro in via d’esame purtroppo costituiscono “l’ennesima cartaccia messa sul fuoco dell’odio e dell’incomprensione, pagine violente, tragica e pericolosa propaganda di guerra”: propaganda di guerra all’interno del mondo occidentale che si combina dialetticamente, come ha sottolineato Rossi, con l’invenzione malevola e razzista su una “cultura etnocentrica e razzista degli Han”, la quale assisterebbe le presunte “mire aggressive” e il presunto militarismo della Cina.

Un paese tanto “militarista” che medici, medicinali e attrezzature sanitarie arrivarono in modo “aggressivo” dalla Cina il 13 marzo del 2020, mentre invece solo tre giorni dopo proprio gli USA, tanto amati da Rampini, prelevarono “pacificamente” nella nostra nazione, allora in piena emergenza sanitaria, “mezzo milioni di tamponi da un’azienda di Brescia…

Prodotti nell’area focolaio dell’epidemia in Italia, sarebbero bastati per le esigenze di tutto il Nord. I kit diagnostici sono invece stati venduti agli USA e trasferiti con un aereo militare”.

Si tratta forse di propaganda cinese?

No.

È viceversa un concretissimo articolo del Repubblica del 19 marzo 2020, intitolato per l’appunto “Coronavirus, mezzo milione di tamponi da un’azienda di Brescia agli Stati Uniti”.

Se vuole, rampini può leggere l’articolo e finalmente imparare qualcosa rispetto alla politica mondiale contemporanea: quella vera, certo, non la fantapolitica costruita a tavolino dal soldato della guerra fredda autore del libro che siamo costretti ad analizzare.
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a guest
Monday, 05 April 2021 03:23
Manca un punto nell'analisi.
Il successo della Cina e' dovuto all'occidente, o meglio al sistema finanziario occidentale, che si e' voluto suicidare regalando tecnologia know-how e infrastrutture a un sistema in apparente competizione.
Lo stesso sistema che impediva agli africani di fare progressi. Gli stessi che hanno fatto fuori Mattei, per intenderci.
Ha senso? no.
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Daniele
Thursday, 18 March 2021 08:02
Produrre in Cina non conviene più: lo stipendio degli operai di Pechino triplicato in 10 anni. Costano meno brasiliani e messicani
www.laconceria.it

Lo stipendio medio degli operai cinesi nel 2016 era di 3,60 dollari l’ora: il triplo rispetto al valore del 2005. Il salario delle tute blu di Pechino è ormai più alto di quello dei colleghi in Brasile e Messico (dove la paga nel decennio è invece calata) e quasi al livello di quelli di Grecia e Portogallo. Lo sostiene il centro studi Euromonitor International (su dati Eurostat, ufficio statistico cinese e International Labour Organisation) in un report ripreso da Financial Times. Secondo lo studio, l’aumento dei salari è legato anche alla progressiva crescita della produttività: lo stipendio nel manifatturiero è cresciuto di più di quello di altri settori, come agricoltura ed edilizia. L’odierno livello dei salari, conclude lo studio, ha ripercussioni sugli equilibri internazionali (e questo è sotto gli occhi di tutti): chi continua a cercare produzioni a basso costo trasferisce le linee a seconda delle convenienze nel Sud Est asiatico, in Europa o in America Latina. Il governo cinese, intanto, lavora alla migrazione dal modello economico “Fabbrica del Mondo” alla nuova identità di Paese manifatturiero che non fa dell’economicità la propria leva competitiva.
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Daniele
Wednesday, 17 March 2021 07:48
I salari cinesi stanno superando quelli europei
lo stipendio degli operai di Pechino triplicato in 10 anni. Costano meno brasiliani e messicani.
da laconceria.it

Lo stipendio medio degli operai cinesi nel 2016 era di 3,60 dollari l’ora: il triplo rispetto al valore del 2005. Il salario delle tute blu di Pechino è ormai più alto di quello dei colleghi in Brasile e Messico (dove la paga nel decennio è invece calata) e quasi al livello di quelli di Grecia e Portogallo. Lo sostiene il centro studi Euromonitor International (su dati Eurostat, ufficio statistico cinese e International Labour Organisation) in un report ripreso da Financial Times. Secondo lo studio, l’aumento dei salari è legato anche alla progressiva crescita della produttività: lo stipendio nel manifatturiero è cresciuto di più di quello di altri settori, come agricoltura ed edilizia.

L’odierno livello dei salari, conclude lo studio, ha ripercussioni sugli equilibri internazionali (e questo è sotto gli occhi di tutti): chi continua a cercare produzioni a basso costo trasferisce le linee a seconda delle convenienze nel Sud Est asiatico, in Europa o in America Latina. Il governo cinese, intanto, lavora alla migrazione dal modello economico “Fabbrica del Mondo” alla nuova identità di Paese manifatturiero che non fa dell’economicità la propria leva competitiva.

Incredibile! I salari cinesi stanno superando quelli europei
da analysisrubrica.weebly.com

E’ questa la notizia a dir poco sensazionale che arriva dall’ estremo oriente, che ci fa conoscere Forbes, rivista statunitense di economia e finanza. Ovviamente questo dato sorprendente non è esteso all’ intero mondo del lavoro cinese, ma circoscritto ad alcuni settori dei distretti produttivi cinesi di maggior rilievo. Il raffronto con l’Europa si riferisce sopratutto alle nazioni dell’Est, ma non solo, certamente il dato è estremamente significativo, poiché avvalora la tendenza che in Cina vi è un progressivo e generalizzato incremento dei salari.

Per fare degli esempi, le retribuzioni mensili medie cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte della Croazia, ma potremmo aggiungere anche dell’Italia, pensiamo a chi percepisce da noi un salario di 700-800,00 euro al mese, che in dollari sono circa 850 - 970; inoltre, sempre quelle di Shanghai, sono maggiori su base mensile anche della Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Sempre secondo l’articolo di Forbes la crescita dei salari in Cina è impressionante. Questo è un ottimo risultato per i cinesi. Certamente risulta indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina, come centro manifatturiero, ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.

L’articolo però non ci dice il motivo per cui è avvenuta questa progressiva tendenza all’aumento degli stipendi in Cina, la risposta la possiamo trovare nel ragionamento dell’economista Antonino Galloni, che spiega come la Cina stia puntando ad incrementare la domanda interna di consumi e a diminuire le esportazioni. “Fino al 2012 infatti la priorità era esportare limitando la domanda interna, riducendo i salari, poi la Cina ha pensato di aumentare i salari dei lavoratori, ha iniziato a fare investimenti in infrastrutture, ospedali ecc..” ecco perché vi è stato un generale aumento dei salari. Non solo, ma secondo l’economista, lo stesso indirizzo lo troviamo in altri paesi come l’India, la Russia e gli stessi Usa. Mentre in Europa è ancora ben saldo il paradigma economico dell’export che, in nome della competitività, prevede salari bassi per i lavoratori. E’ proprio questo paradigma, afferma Galloni, che è necessario ribaltare, per consentire salari più alti per chi lavora in Europa e soprattutto in Italia, ciò consentirebbe una ripresa dei consumi e quindi un incremento della domanda interna, con ricadute positive sull’occupazione.

Cambiare si può, basta che chi governa il nostro Paese lo voglia, intanto i lavoratori attendono.

Cina, i salari degli operai dei cantieri crescono troppo in fretta
da themeditelegraph.com

Genova - Un operaio guadagna quasi mille dollari al mese, più del doppio di 10 anni fa. E gli investitori stranieri si spaventano.

Genova - La crescita economica in Cina rischia di compromettere tutto il vantaggio accumulato dall’industria navalmeccanica nei confronti dei competitor asiatici. Dieci anni fa gli investitori stranieri erano stati attratti da Pechino grazie ai costi bassi dei salari e alla grande disponibilità di manodopera a basso costo. Ma quelle condizioni oggi sembrano essere terminate: «In dieci anni la paga di un operaio cinese è più che raddoppiata ed è arrivata a 945 dollari al mese» spiegano gli analisti.

Per ora rimane un buon salario per le aziende, anche comparato con gli altri mestieri cinesi che stanno progressivamente conoscendo un aumento, ma il trend verso l’alto spaventa i calcoli degli investitori stranieri, sempre a caccia di tagli ai costi in un mercato difficile come quello dei cantieri navali.

Cina, il lavoro costa. E Samsung chiude la fabbrica
da ilgiornale.it

Nelle metropoli salari al livello dell'Europa dell'est, i vicini asiatici sono sempre più appetibili

La notizia non è ancora ufficiale, ma Samsung ammette che ci sta pensando su: il colosso sudcoreano dell'elettronica valuta di sospendere la produzione di smartphone in uno dei suoi due stabilimenti cinesi, quello che si trova a Tianjin (nel nord del Paese).

Il motivo? Innanzitutto la concorrenza, perché i marchi locali Huawei e Xiaomi negli ultimi cinque anni si sono mangiati tutto il mercato: basti pensare che nel 2013 la quota detenuta da Samsung era del 20% mentre quest'anno è scesa sotto l'1%. E poi c'è il problema legato al costo del lavoro che in Cina cresce ormai da una quindicina d'anni e rende sempre meno vantaggioso produrre nella terra del Dragone.

Pechino non è più la capitale della manodopera a basso costo. Nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale entrando a far parte dell'Organizzazione mondiale del Commercio, e da allora il progressivo aumento della produttività ha spinto in alto i redditi. Inoltre ormai tutte le grandi metropoli hanno stabilito uno stipendio minimo: l'ultima a farlo è stata Shangai dove gli operai dovranno essere pagati almeno 2300 yuan al mese, vale a dire 333 dollari americani; il che significa +5% rispetto a un anno fa.

Naturalmente c'è ancora un forte disequilibrio tra le aree rurali e le grandi città, dove si sta facendo largo una manodopera qualificata i cui standard si avvicinano a quelli occidentali. Parlando di salari medi Shangai è la città cinese dove si guadagna meglio, circa 1.200 dollari al mese. A Pechino e a Shenzen si viaggia intorno ai 1000, ma sono comunque livelli retributivi ormai paragonabili a quelli dei Paesi dell'Europa dell'est: non come in Polonia o della Repubblica Ceca, però sullo stesso piano della Lituania, della Lettonia o dell'Estonia e addirittura più alti della Croazia. E se in Cina tra il 2005 e il 2016 le paghe medie orarie del settore manifatturiero sono triplicate, nello stesso periodo in altre zone del mondo - come ad esempio in America Latina - la tendenza è stata alla diminuzione. Questo fa si che da qualche anno le multinazionali preferiscano delocalizzare altrove.

La concorrenza globale e in particolare quella di Paesi vicini come Taiwan, ma anche Malesia, Thailandia, Vietnam e India, insomma, è sempre più forte. Da un paio d'anni sembra essersene reso conto anche il governo cinese: da un lato il vice ministro del Lavoro Xin Changxing ha sottolineato come la Cina debba restare competitiva con i concorrenti asiatici, dall'altro le autorità stanno cercando di trovare un equilibrio tra datori di lavoro e impiegati che garantisca la stabilità sociale senza arrivare agli eccessi del capitalismo di casa nostra.

Se fino al 2016 la crescita dei salari è stata a due cifre ora ha un po' rallentato, ma i tempi in cui produrre in Cina costava pochissimo sono ormai lontani e non torneranno più. Altri potrebbero seguire l'esempio di Samsung: gli equilibri mondiali stanno già cambiando.

La Cina aggancia l’Europa dell’Est, ecco la svolta sui salari
da lamescolanza.com

I salari cinesi non sono più così a buon mercato come in passato e l’Europa dell’Est potrebbe approfittarne.

I testi di economia del lavoro spiegano ormai dall’inizio del Millennio che “i salari si fissano a Pechino”, un’espressione che punta a rimarcare come sia l’economia asiatica ormai a influenzare i meccanismi di formazione dei prezzi, inclusi gli stipendi. La Cina è la seconda potenza economica al mondo dopo gli USA ed entro il prossimo decennio potrebbe diventare la prima. Quel che accade al suo interno non può mai passare inosservato, perché rischia di avere prima o poi ripercussioni sulle nostre vite, anche perché qui vi abita quasi un abitante su cinque della Terra.

E proprio dalla Cina arriva una notizia, destinata ad avere conseguenze a medio-lungo termine anche sulle economie avanzate. Secondo Forbes, lo stipendio mensile medio di città come Shanghai ($1.135), Pechino ($983) e Shenzen ($938) avrebbe raggiunto e superato quello di alcune economie dell’Europa dell’Est. Un esempio? Lo stipendio medio mensile di un lavoratore croato è di appena 887 dollari, quello di lituano di 956, di un lettone di 1.005, mentre in Estonia si arriva a 1.256 dollari e in Ungheria a 1.139 dollari.

Nel giro di qualche anno, poi, sembra alla portata per i cinesi raggiungere i livelli salariali dei colleghi polacchi ($1.569) e cechi ($1.400), dati gli elevati ritmi di crescita dei primi, rispetto a quelli pur soddisfacenti degli europei orientali.

Salari cinesi sempre meno allettanti per il capitale

Aver colmato il gap salariale con parte dell’Europa rappresenta una svolta per la società cinese e, soprattutto, per quella delle economie più ricche del pianeta. Il costo del lavoro è notoriamente una delle principali variabili, che determina lo spostamento dei capitali da un’economia a un’altra. Se un lavoratore italiano costa 1.000 e uno cinese costa 100, esiste un impulso per le aziende a spostarsi dall’Italia alla Cina.

Se ciò è vero, il raggiungimento dei salari est-europei farebbe ipotizzare un minore incentivo da parte delle multinazionali a delocalizzare la produzione in Cina, disponendo di manodopera qualificata e dai costi simili nel Vecchio Continente. Certo, il costo del lavoro non è l’unica variabile ad essere tenuta in considerazione in fase di investimento. Anche la burocrazia, le norme ambientali, i diritti sindacali e la tassazione incidono moltissimo.

In ogni caso, possiamo affermare che esisterebbero già alcune condizioni minime per prevedere una minore fuga delle aziende verso la Cina, specie quando nei prossimi anni verranno agganciati i livelli salariali di un numero crescente di paesi dell’Est. A quel punto, per un’impresa tedesca risulterebbe sempre meno appetibile aprire battenti in Cina, piuttosto che nella vicina Polonia, così come per una italiana sarà relativamente più conveniente puntare sulla Croazia.

Lavoratori cinesi fanno meno paura?

Non è ancora la fine di un’era, ma l’inizio di una svolta sì. Non è nemmeno detto che non verranno trovate nuove realtà simili alla Cina. In quei paraggi in Asia esiste un altro gigante da 1,3 miliardi di abitanti – l’India – che potrebbe sostituire progressivamente Pechino nell’attrazione degli investimenti internazionali. Ad oggi, molte delle condizioni favorevoli esibite dall’economia cinese qui non hanno trovato terreno fertile, come suggerisce la carenza di infrastrutture.

Non si può nemmeno, però, sminuire il significato del cambiamento in atto. La Cina è sempre meno un’economia emergente e sempre più una potenza di rilievo internazionale. I salari continueranno ad essere fissati a Pechino, ma nei prossimi anni fungeranno sempre meno da tetto per quelli di numerose altre economie. I lavoratori dell’Est Europa dovranno forse iniziare a temere più i venti contrari di Bruxelles che non l’aria inquinata nella capitale cinese.

Salari cinesi pari o superiori ad alcuni salari europei
da vocidallestero.it

Tra gli effetti più deleteri della globalizzazione e della libera circolazione dei capitali in tutto il mondo vi è l’abbattimento del costo del lavoro dovuto alla disponibilità di enormi sacche di manodopera a basso costo. In questo articolo di Forbes si mostra come l’ingresso della Cina nel WTO e l’integrazione ad est dell’Unione europea abbiano più che raddoppiato, in poco più di un decennio, la forza lavoro dell’Europa occidentale, comportando una potente pressione al ribasso sul livello dei salari. Tra alcune zone dell’Europa e la Cina non c’è più differenza, o se c’è, è a favore della Cina. L’articolo, che ha una prima occhiata sembra la solita constatazione che “oggi c’è la Cina”, contiene invece due ammissioni rilevanti: la prima, che i salari cinesi stanno crescendo a gran ritmo; la seconda, che la nuova “Cina” del lavoro a basso costo sono i paesi dell’Europa dell’est, quelli che non a caso l’Unione europea sta puntando a inglobare.

Potremmo vederlo come un bicchiere mezzo pieno. O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. In realtà, si tratta di entrambe le cose.

Le retribuzioni mensili mediane cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione europea. Lo stipendio medio netto in Croazia è di $ 887 al mese. Ha aderito all’UE nel 2013.

Le retribuzioni mediane di Shanghai, in particolare, sono anche maggiori di due dei paesi baltici recentemente diventato membri dell’eurozona : Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Negli ultimi 10 anni, l’Europa ha cercato di integrare dentro l’Unione europea la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est. Nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale entrando a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’entrata di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo.

In gergo economico, questo è descritto come “appiattimento della curva di Phillips“, dice l’economista di VTB Capital Neil MacKinnon.

“L’impatto della globalizzazione e l’ingresso della Cina nell’OMC nel 2002 ha aumentato notevolmente l’offerta di manodopera globale“, afferma MacKinnon. L’eccesso di offerta di manodopera cinese e il flusso di merci cinesi a basso costo nell’economia mondiale ha creato un vantaggio per i consumatori globali, ma ha significato anche che determinati prodotti e posti di lavoro dell’Europa orientale hanno dovuto competere con la Cina, che ha prezzi più bassi. Catene di approvvigionamento e mercati a parte, il costo maggiore per un’azienda è la sua forza lavoro. La forza lavoro cinese viene finalmente retribuita. Le retribuzioni dell’Europa orientale, simili a quelle cinesi, fanno parte di un mondo il cui motto è diventato: qualsiasi cosa tu possa fare, la Cina può farla a minor costo.

La Cina stabilisce il prezzo per la manodopera manifatturiera e, in futuro, per la logistica relativa all’e-commerce. Alcuni europei dovrebbero sperare nei continui aumenti salariali della Cina se vogliono aumentare le loro stesse retribuzioni lorde.

La quota della Cina nel commercio mondiale (una media di esportazioni più importazioni) è aumentata da poco meno del 2% nel 1990 a quasi il 15% di oggi, secondo la Bank for International Settlements. Da allora, l’economia di mercato cinese si è integrata all’economia globale, guidata principalmente dalla sua forza lavoro, con un rapporto capitale-lavoro inferiore agli standard globali. La Cina sta iniziando solo ora ad automatizzare.

L’integrazione dell’Europa orientale in Occidente è spesso trascurata.

In un arco di tempo simile, dagli anni ’90 ad oggi, i paesi dell’Europa orientale sono usciti dall’orbita della Russia e si sono spostati verso ovest. Prima della caduta del comunismo, questi paesi erano rimasti più o meno isolati. La forza lavoro era abbondante e ben istruita, ma il capitale e il management erano limitati. Ne è seguita una combinazione fruttuosa: l’Europa occidentale ha fornito i soldi e il management, l’Europa dell’Est ha fornito la manodopera a basso costo.

I dati relativi all’integrazione della Cina e dell’Est Europa sono impressionanti. Contando solo la forza lavoro potenziale, la popolazione attiva in Cina e nell’Europa orientale tra i 20 e i 64 anni era di 820 milioni di persone nel 1990 e ha raggiunto 1,2 miliardi nel 2015. La popolazione attiva disponibile nei paesi europei industrializzati era di 685 milioni prima della crisi dell’Unione Sovietica nel 1990 e raggiungeva i 763 milioni nel 2014. Parliamo quindi di un aumento una tantum del 120% della forza lavoro, che ha schiacciato i salari per i lavoratori meno qualificati, secondo la BRI.

Usando come indicatore queste tre città cinesi, gli stipendi mediani dei lavoratori dipendenti sono più alti dei salari della parte più povera d’Europa: i vecchi Balcani dell’area comunista.

Proprio sul Mar Adriatico, di fronte alla ricca frontiera italiana, si trova una manodopera di tipo cinese. Anzi ancora più economica, in realtà. I lavoratori cinesi a Shanghai, Shenzhen e Pechino, in media, guadagnano più dei lavoratori in Albania, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Montenegro, nuovo paese membro della NATO, che ha un reddito medio di appena $ 896 al mese.

I salari medi di Shanghai non sono molto diversi da quelli della Polonia, a $ 1,569. Lo stesso vale per la Repubblica Ceca, dove lo stipendio medio a Praga, la sua città più ricca, si aggira intorno a $ 1400. Il salario medio lordo dell’Ungheria sta proprio al livello di Shanghai, a $ 1139 al mese.

La crescita dei salari in Cina è impressionante. Ottimo per i cinesi. Ma ha lasciato indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina come centro manifatturiero ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.
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Daniele
Tuesday, 16 March 2021 07:55
In 10 anni i salari cinesi sono triplicati. Ora la Cina è paragonabile al Portogallo!
da sinistra.ch

“Salari (ti)cinesi” è lo slogan coniato dal sindacato UNIA per lamentarsi dei bassi salari nel Canton Ticino. Uno slogan dal carattere poco internazionalista, lo aveva giudicato in passato il Partito Comunista. E ora uno slogan semplicemente scorretto poiché il salario medio dei lavoratori del settore manifatturiero in Cina, infatti, ha definitivamente superato quello dei loro colleghi brasiliani e messicani e si sta avvicinando rapidamente a quello dei greci e dei portoghesi.

Insomma il paese asiatico, considerato uno dei luoghi di maggiore sfruttamento del pianeta secondo alcuni sindacalisti occidentali, è quello che più di tutti registra continui aumenti salariali. A dirlo è una ricerca di Euromonitor International che dimostra come la retribuzione per un’ora di lavoro in Cina è superiore a quella di tutti i paesi dell’America latina (tranne il Cile) ed è pari al 70% di quella dei paesi più deboli dell’area Euro (quali Portogallo e Grecia). Tra il 2005 e il 2016 il salario orario medio in Cina è inoltre triplicato. Si tratte di ricerche che tengono in considerazione i dati ufficiali dell’Organizzazione internazionale per il lavoro (ILO) e tengono conto dell’inflazione, ma non prendono in considerazione le diversità del costo della vita nei vari paesi esaminati.

Mentre in Cina il progresso degli standard di vita del popolo è in crescita notevole, in Grecia, ad esempio, le disastrose politiche della Troika (Banca centrale europea, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) hanno causato il dimezzamento dei salari rispetto al 2009.
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Daniele
Monday, 15 March 2021 08:23
La CIA e il primato economico cinese


Si è ormai affermato un nuovo “numero uno economico”, in campo mondiale.
Persino la statunitense Central Intelligence Agency, non sospettabile sicuramente di simpatie per la Cina contemporanea, ha ormai ammesso che il prodotto interno lordo cinese ha superato quello statunitense a partire dal 2015, usando (a modo suo, certo, ossia in modo parziale) il criterio della parità del potere d’acquisto: tale dato di fatto esplosivo emerge con chiarezza dalle interessanti pubblicazioni annuali della CIA, ossia il CIA World Factbook del 2015 e del 2016, con le loro informazioni che riguardano il confronto tra l’economia cinese e quella statunitense, non utilizzando il prodotto interno lordo nominale e puramente monetario ma invece uno strumento analitico più raffinato e soprattutto corrispondente alla realtà contemporanea.
Il criterio della parità del potere d’acquisto (PPA) è stato introdotto dopo il 1945 dagli economisti sotto l’egida delle organizzazioni internazionali, al fine di calcolare e confrontare il prodotto interno lordo delle diverse formazioni statali, tenendo conto della differenza esistente tra il potere d’acquisto reale nelle diverse nazioni e astraendo invece dalle eventuali fluttuazioni nel tasso di cambio.
Quindi il prodotto interno lordo di un paese, attraverso l’utilizzo del PPA, viene di regola convertito in dollari internazionali tenendo conto della diversità nei poteri d’acquisto nazionali, differenziandosi a volte – come nel caso cinese e indiano – in modo molto sensibile dal prodotto interno nominale invece espresso da determinati paesi.
Ora, se si prende in esame il World Factbook della CIA per il 2016, alla voce “country comparison-GDP (purchasing power parity)” emerge con chiarezza come la centrale di spionaggio di Langley abbia calcolato, utilizzando a modo suo il criterio della parità del potere d’acquisto, che:

- la Cina nel 2016 risultava indiscutibilmente prima in tale graduatoria mondiale, con un prodotto interno lordo (non nominale, ma acquisito mediante l’uso del PPA) equivalente a 21.290 miliardi di dollari;
- sempre nel 2016 gli Stati Uniti esprimevano invece un prodotto interno lordo (PPA) pari a 18.570 miliardi di dollari.

Prodotto interno lordo della Cina nel 2016 uguale a 21.290 miliardi di dollari, impiegando il metodo PPA usato dalla CIA.
Prodotto interno lordo degli Stati Uniti nel 2016 uguale a 18.570 miliardi di dollari, sempre con il metodo PPA utilizzato dalla CIA.
Siamo quindi in presenza indiscutibile di un prodotto interno lordo cinese che già nel 2016 superava di più del 10 percento, di più di un decimo quello statunitense: del 15 percento e di quasi un sesto, per essere più precisi, mentre un gap quasi analogo tra Pechino e Washington emerge anche prendendo in esame i dati forniti dalla CIA sulla stessa questione per l’anno 2015.
Il sensibile differenziale di potenza tra i rispettivi prodotti interni lordi (PIL) di Pechino e di Washington sta inoltre aumentando a vista d’occhio a favore della Cina, vista l’asimmetria nel tasso annuale di crescita del PIL delle due nazioni in via d’esame, in tutti gli anni compresi tra il 2016 e il 2020.
Se infatti nel 2017 il PIL cinese è cresciuto del 6,9 percento rispetto all’anno precedente, l’economia statunitense l’anno scorso ha visto invece un tasso di crescita pari solo al 3 percento: facciamo ora qualche facile calcolo, non tenendo conto delle fluttuazioni (del resto molto modeste) nel tasso di cambio tra yuan e dollari.
Il PIL cinese nel 2017, sempre utilizzando il criterio della parità del potere d’acquisto proposto dalla CIA, è aumentato dai 21.290 miliardi di dollari del 2016 fino ai 22.752 miliardi di dollari del 2017 (21.290 + 6,9% di 21.290).
Invece il PIL statunitense è passato dai sopracitati 18,570 miliardi di dollari del 2016 ai 19.127 miliardi di dollari (18.570 + 3% di 18.570).
In estrema sintesi:
PIL cinese del 2017 = 22.752 miliardi di dollari.
PIL degli USA nel 2017 = 19.127 miliardi di dollari.
Il differenziale, e la distanza tra i prodotti interni lordi di Pechino e Washington, sta via via crescendo in modo più che evidente, come si può notare con facilità dal semplice e banale calcolo proposto poco sopra.
Non vogliamo annoiare i lettori con altri aridi conti rispetto al periodo 2018-2020, ma possiamo subito sottolineare che la potenza economica reale cinese supererà di circa il 50 percento, ossia sorpasserà di circa la metà quella invece espressa dagli Stati Uniti già alla fine del 2021, sempre usando i dati della CIA e la sua applicazione del criterio della parità del potere d’acquisto.
Si tratta di calcoli effettuati esclusivamente dalla CIA di Langley, si potrebbe obiettare: quindi forse di operazioni mentali arbitrarie e scorrette.
Errore, grave sbaglio, notevole abbaglio teorico-concreto.
Fin dal 2014 un’altra struttura di intelligence a egemonia occidentale, ossia la Banca Mondiale in una delle sue sezioni di ricerca, aveva infatti rilasciato uno studio nel quale si riconosceva che la Cina sarebbe diventata la prima economia al mondo già nell’anno ancora in corso. Alla fine di aprile del 2014 proprio l’autorevole – nei circoli occidentali, certo – quotidiano britannico Financial Times aveva pubblicato un rapporto dell’International Comparison Program della Banca Mondiale, nel quale si evidenziava come il sorpasso economico di Pechino sugli Stati Uniti, previsto in precedenza per il 2019, sarebbe invece avvenuto con cinque anni di anticipo.
Banca Mondiale e 2014, CIA e 2015: persino due dei più saldi strumenti operativi e delle migliori menti collettive dell’imperialismo occidentale hanno quindi ammesso e dunque riconosciuto, tra l’altro prima di gran parte della sinistra occidentale, un fenomeno economico-sociale certo di non poco conto.
A questo punto entriamo più nel concreto, ossia nell’analisi dei settori produttivi nei quali si sostanzia e si cristallizza la nuova superiorità cinese su scala mondiale in campo produttivo e logistico.
Si può prendere il via dal settore automobilistico nel quale inaspettatamente il gigante asiatico ha superato da tempo come produttore/consumatore il vecchio e stanco ex-numero uno statunitense.
La ragione del sorpasso cinese sugli USA in questo campo risulta subito chiara e comprensibile: se nel 2005 nel mercato cinese erano state vendute meno di cinque milioni di autovetture, il loro numero era salito in soli undici anni alla quota di 23,6 milioni di veicoli nel 2016 e a quella di 30 milioni nel 2020, pari al doppio del mercato statunitense, mentre il numero di veicoli commerciali venduti all’interno del gigante asiatico risultava ormai equivalente a quattro milioni e mezzo di unità.
Tali risultati non cadono certo dal cielo, avrebbe potuto notare Mao Zedong, ma derivano invece da precise scelte di politica economica: non è un caso che all’inizio del 2017 il governo cinese abbia fissato delle scadenze molto precise al fine di incentivare e stimolare il processo di crescita anche della produzione e vendita delle auto ibride ed elettriche, la cui quota sul giro di affari globale dovrà arrivare almeno all’8% nel 2018 per passare poi al 12% del 2020 e al 20% del 2025.
La Cina vanta ormai da molto tempo un primato indiscutibile su scala mondiale anche nel processo di produzione di altri importanti beni di consumo, a partire dai settori dei computer e dei cellulari ormai monopolizzati da tempo da parte del gigante asiatico.
Secondo uno studio accurato dell’insospettabile – di simpatie per Pechino, ovviamente – Commissione Europea relativa all’anno 2016, la Cina produceva infatti nell’anno preso in esame:
Il 28% delle automobili del mondo, ossia quasi un veicolo su tre;

- Il 90% di tutti i cellulari;
- L’80% di tutti i computer, e cioè quattro su cinque;
- L’80% di tutti i condizionatori del pianeta;
- Il 60% di tutti i televisori assemblati sul nostro pianeta, ovvero più della metà totale;
- Il 50% dei frigoriferi fabbricati su scala globale;
- Più del 40% delle navi costruite nel 2016 sulla terra.

Anche senza tenere conto degli ulteriori progressi realizzati dalla Cina negli ultimi quattro anni, siamo di fronte a dati impressionanti che attestano l’egemonia indiscutibile di Pechino all’interno del processo mondiale di produzione dei mezzi di consumo, che trova come unica pietra di paragone moderna solo quello goduto dagli Stati Uniti tra il 1944 e il 1960: ma anche rispetto al marxiano settore A, ossia al segmento della produzione di mezzi di produzione, la supremazia di Pechino si rivela molto solida e multilaterale.
La Cina da un paio di decenni si è ormai realmente trasformata nella “fabbrica del mondo”; e sempre lo studio sopracitato della Commissione Europea ha stabilito con estrema chiarezza come quasi la metà, quasi il 50% dell’acciaio prodotto su scala planetaria sia stato prodotto in Cina durante l’anno 2016, testimoniando il semi-monopolio di quest’ultima anche all’interno di questo settore economico ancora dotato di un certo peso specifico, seppur declinante.
Per quanto riguarda invece la massa globale di energia consumata all’interno della dinamica produttiva, la Cina è diventata fin dal 2012 il principale consumatore di energia, come venne rilevato anche da Francesco Tamburini nel febbraio del 2013 in un suo interessante articolo su Il Fatto Quotidiano, su cui torneremo tra poco.
Non sorprende, viste queste premesse, come ormai da alcuni anni la Cina sia diventata il principale produttore ed esportatore di pannelli solari su scala planetaria, raggiungendo un semi-monopolio anche in questo particolare anello del processo produttivo globale.
La superiorità cinese risulta altresì indiscutibile anche nel complesso “cemento/case”, ossia nella produzione di materie prime a scopo abitativo e nel correlato processo di urbanizzazione: dando per assodato da molto tempo il primato di Pechino anche nella produzione di cemento e degli articoli legati al settore abitativo (rubinetterie, bagni, ecc.), vogliamo focalizzare l’attenzione invece sul secondo lato della connessione dialettica sopracitata.
Come ha notato giustamente il ricercatore Giuliano Marrucci, nel suo eccellente libro intitolato “Cemento Rosso”, uno dei fenomeni socioproduttivi più rilevanti su scala planetaria durante gli ultimi quattro decenni è stato il rapido ma pianificato e controllato spostamento di oltre 500 milioni di esseri umani dalle campagne alle città, verificatosi in Cina a partire dal 1978 e creando via via il più ampio e veloce processo di urbanizzazione della storia umana.
Ancora nel 1978 e all’inizio della lunga stagione di riforme economiche introdotte da Deng Xiaoping e dal partito comunista cinese, la Cina si trovava nella situazione sgradevole di paese agricolo: circa l’80% della popolazione e quattro cinesi su cinque risultavano infatti in quell’anno ancora insediati nelle aree rurali, mentre i cinesi che invece vivevano a quel tempo in città erano appena 172 milioni e solo il 20% della popolazione totale.
Meno di quarant’anni dopo e nel 2016, il numero di cinesi residenti nelle città era invece salito a 770 milioni di persone, circa il 56% della popolazione del gigante asiatico in meno di quattro decenni più di 500 milioni di cinesi si sono dunque spostati dalle campagne creando un processo di urbanizzazione senza precedenti: per dare un termine di confronto stiamo parlando di una massa di esseri umani pari a circa nove volte all’attuale popolazione italiana, tanto che il risultato finale è che oggi delle dieci città al mondo con maggior numero di abitanti ben cinque sono cinesi, e in tutto il paese asiatico ormai si trovano cento città con oltre un milione di abitanti, ossia come o più di Milano.
Giuliano Marrucci ha sottolineato, in modo lucido e corrispondente alla verità storica, che se la Cina in termini di reddito pro-capite ha raggiunto il livello delle egemonie di medio-basso livello solo attorno al 2005, «in termini di infrastrutture urbane questo livello era già stato raggiunto dieci anni prima. A partire dalla rete di metropolitane, che entro il 2020 sarà presente in 40 città, e che con i suoi 7000 chilometri di estensione sarà 5 volte più grande di quella statunitense. Una straordinaria capacità di investimento resa possibile dal fatto che in Cina non esiste proprietà privata dei terreni. Tutti i terreni sono di proprietà pubblica e vengono dati in concessione per periodi limitati ai costruttori, che se li aggiudicano nell’ambito di agguerritissime aste pubbliche. Sono proprio gli introiti di queste aste che finanziano ormai l’80% delle attività delle amministrazioni locali, e che permettono di alzare continuamente il livello delle infrastrutture.
E grazie all’impetuoso boom economico, nonostante la gigantesca pressione demografica che ha riguardato in particolar modo le città principali, lo spazio residenziale a disposizione di ogni cittadino urbano è passato da meno di 4 metri quadrati negli anni ’80 ai 35 metri quadrati attuali.
Ecco come si spiega il fatto che nel solo biennio che va dal 2011 al 2013 la Cina ha consumato una volta e mezzo il cemento che gli Stati Uniti hanno impiegato durante tutto il Ventesimo secolo».
In estrema sintesi la Cina è diventata il più grande costruttore-architetto del pianeta, e non solo la “fabbrica del mondo”.
Anche nelle principali aree produttive nelle quali Pechino è rimasta indietro rispetto ai paesi capitalistici più avanzati, a partire ovvia-mente dagli Stati Uniti, si sta assistendo da alcuni anni a una formidabile e ben pianificata rincorsa della Cina (prevalentemente) socialista rispetto ad alcuni settori dell’hi-tech.
Tralasciando per il momento il settore dell’automazione e della robotica, che analizzeremo a fondo in un prossimo capitolo, primo esempio concreto della particolare “rincorsa” produttiva attuata dal gigante asiatico nell’ultimo quinquennio è quello della produzione degli strategici chip, di semiconduttori.
Come ha notato Manolo De Agostini nel novembre del 2015, Pechino in quell’anno aveva programmato di investire nel medio termine una pioggia di miliardi per diventare una superpotenza nel chip. «La Cina cerca di entrare con forza nel settore tecnologico con ingenti investimenti nel settore di semiconduttori.»
È perciò molto interessante che Tsinghua Unigroup, un conglomerato tecnologico statale che fa capo alla Tsinghua University, voglia investire qualcosa come 47 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni per «costruire il terzo più grande produttore di chip al mondo dopo Intel e Samsung. A dirlo Zhao Weiguo, presidente dell’azienda, in un’intervista con l’agenzia Reuters.»
Un’altra rincorsa della Cina in campo economico ha per oggetto invece il settore aeronautico civile, in precedenza appaltato alle principali imprese aeree statunitensi ed europee: e non è un caso che nel maggio del 2017 sia diventato operativo, dopo lunghi anni di progettazione e ricerca, l’aereo C 919, ossia il primo aereo commerciale prodotto autonomamente nel gigantesco paese asiatico.
L’avanzato velivolo C 919, dal costo più basso rispetto a quelli venduti da Boeing e Airbus, viene spinto da due motori del tipo CFM Leap 1C e può ospitare da 158 a 168 passeggeri in una configurazione standard da due classi, essendo in grado di percorre-re distanze comprese tra i 4 mila e i 5.600 chilometri: fino ad oggi ha ricevuto 570 ordini da 23 compagnie, quasi tutte asiatiche e cinesi in particolare.
Il particolare processo di inseguimento cinese può essere altresì analizzato anche attraverso la gigantesca espansione da parte di Pechino nel settore delle batterie per auto elettriche, nel quale fino a pochi anni fa erano completamente egemoni gli americani e la Tesla di Elon Musk. Il giornale Il Fatto Quotidiano, collocato saldamente su posizioni anticomuniste, a tal proposito ha notato come la Cina stia convogliando iniziative «per costituire un autentico impero di accumulatori di ultima e prossima generazione. Un vero e proprio maremoto di energia “in scatola”, pronta effettiva-mente a travolgere la concorrenza. Quantomeno sulla carta.
Alla fine di giugno del 2017 le aziende cinesi avevano i piani per ulteriori fabbriche di accumulatori di ultima tecnologia, per una capacità produttiva complessiva superiore ai 120 gigawattora l’anno entro il 2021, secondo un rapporto da fonte interna dell’agenzia (Bloomberg Intelligence) pubblicato questa settimana.
Una quantità enorme, sufficiente ad esempio a equipaggiare di batterie, ogni anno, addirittura 1,5 milioni di veicoli Tesla Model S (che impiegano quelle più grandi) o ben 13,7 milioni di veicoli ibridi Toyota Prius Plug-In. Al confronto, quando sarà completato nel 2018, la famosa Gigafactory di Tesla riuscirà a produrre celle accumulatrici per una capacità massima entro i 35 gigawattora ogni anno».
A questo punto possiamo quasi sentire già le voci dei soliti avvocati del diavolo, più o meno in buona fede: “D’accordo, state citando fatti reali, ma tutti questi miracoli produttivi si basano sui salari da fame delle tute blu cinesi”.
Si tratta di una volgare menzogna, che è stata smentita per l’enne-sima volta e in modo inconfutabile da un istituto di ricerca come l’Euromonitor International, non certo accusabili per simpatie comuniste e/o filocinesi.
Cosa contiene tale ricerca, rispetto alla sorte degli operai cinesi del Ventunesimo secolo?
Il dato eclatante della triplicazione del salario degli operai cinesi dal 2005 al 2016, l’aumento di tre volte degli stipendi nominali percepiti dalle tute blu cinesi negli undici anni compresi tra il 2005 e il 2016.
Nel 2016 il salario medio orario degli operai manifatturieri in Cina risultava infatti pari a euro 3,60, con un incremento enorme rispetto all’1,20 euro all’ora del 2005, superando tra l’altro quello dei loro colleghi brasiliani e messicani e avvicinandosi rapidamente a quello delle tute blu greche e portoghesi.
Se si vuole una controprova, un’indagine condotta dall’insospettabile banca svizzera Credit Suisse e pubblicata nel gennaio del 2013 ha rivelato come il salario medio mensile dei trentenni cinesi, a parità di potere d’acquisto, fosse superiore di quello dei loro coetanei italiani.
Passiamo ora al processo di analisi di altri importanti segmenti produttivi nei quali la Cina Popolare ha acquisito un ruolo egemonico, nel corso degli ultimi anni.
Va innanzitutto evidenziato come, contrariamente al senso comune che vede i cinesi come semplici imitatori delle conquiste del libero mondo occidentale, il gigante asiatico sia invece di gran lunga il primo innovatore e il “genio creativo” tra i paesi del mondo, specialmente in settori come le telecomunicazioni, l’informatica e la tecnologia medica, raggiungendo da solo la quota di un terzo delle richieste di nuovi brevetti su scala mondiale nel corso del 2015.
Tale fenomeno sorprendente ma indiscutibile viene certificato tra gli altri dal “World Intellectual Property Indicators – 2016”, l’annuale rapporto dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (WIPO), che assegna alla Cina il ruolo di paese all’avanguardia con la bellezza di 1.010.406 richieste di nuovi brevetti, nel 2015: in pratica un terzo di tutte le richieste mondiali. «Questi numeri sono davvero straordinari per la Cina – ha dichiarato il direttore generale della WIPO, Francis Gurry – È la prima volta in assoluto al mondo che un ufficio brevetti riceve più di un milione di richieste. In tutti i paesi, si riscontra un crescente interesse a proteggere la proprietà intellettuale che riflette la sua importanza in un’economia della conoscenza propria della globalizzazione.
L’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della protezione dei diritti di proprietà intellettuale ha registrato 2,9 milioni domande di nuovi brevetti, con un incremento del 7,8 per cento rispetto al 2014, e la Cina, sotto l’impulso degli incentivi governativi, è nettamente in testa, seguita da Stati Uniti (526.296) e Giappone (454.285).
Per quanto riguarda i settori innovativi a maggior tasso di sviluppo, in evidenza ci sono tecnologia informatica (7,9% del totale), macchine elettriche (7,3%) e comunicazione digitale (4,9%): e anche nelle domande per nuovi marchi si è assistito a un significativo balzo in avanti della Cina che primeggia anche in questa classifica, con 2,83 milioni domande di registrazione sui 6 milioni e poco oltre di richieste in tutto il mondo.»
Anche rispetto ai rapporti di forza planetari creatasi all’interno del campo del commercio internazionale la Cina ha ormai accumulato, a partire dal 2013, una superiorità abbastanza sensibile rispetto al numero due e al concorrente statunitense.
Nell’articolo sopracitato del febbraio 2013, Francesco Tamburini ha ammesso che nel 2012 la Cina aveva superato gli Stati Uniti, diventando la prima potenza commerciale del mondo.
«Mentre Washington perde un primato che deteneva dalla fine della Seconda guerra mondiale, Pechino diventa il primo partner commerciale di molti Paesi europei, tra cui la Germania. Entro il 2020, secondo l’analista Jim O’Neill di Goldman Sachs Group, le esportazioni tedesche in Cina saranno il doppio rispetto a quelle dirette in Francia.
Il totale delle importazioni ed esportazioni americane nel 2012, secondo i dati pubblicati dal dipartimento del Commercio, ammonta a 3.820 miliardi di dollari, contro i 3.870 miliardi riportati da Pechino. Gli Stati Uniti perdono così un primato che detenevano dalla fine della Seconda guerra mondiale.
La battaglia tra le due superpotenze mondiali, come sempre, porta a chiare conseguenze anche in Europa. Pechino sta infatti diventando il primo partner commerciale di molti Paesi europei, tra cui la Germania. Entro il 2020, secondo l’analista Jim O’Neill di Goldman Sachs Group, le esportazioni tedesche in Cina saranno il doppio rispetto a quelle dirette in Francia. “Per molti Paesi in tutto il mondo la Cina sta diventando rapidamente il partner commerciale più importante”, ha spiegato O’Neill a Bloomberg, sottolineando che andando avanti di questo passo sempre più paesi europei privilegeranno una partnership con Pechino, snobbando le nazioni più vicine.»
E la correlazione di potenza su scala mondiale in campo bancario? Almeno in questo settore gli Stati Uniti hanno forse mantenuto il loro precedente primato su scala planetaria?
No, non esattamente.
Stando infatti a un rapporto dell’insospettabile istituto Mediobanca, elaborato alla metà del 2017, nel 2016 si ormai assistito al sorpasso cinese anche nel campo bancario come ha dovuto riconoscere con tristezza persino Il Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria.
Infatti al primo posto della classifica mondiale delle banche, in termini di redditività, si è ormai installata la statale e cinese ICBC (Industrial and Commercial Bank of China), scalzando bruscamente dal primato la statunitense JP Morgan; al terzo posto della classifica di Mediobanca si trova un altro istituto finanziario pubblico di Pechino, ossia la China Construction Bank, seguita da un'altra banca di Pechino, l’Agricultural Bank of China; se al quinto posto della classifica in esame risulta ancora occupato dalla statunitense BOFA, al sesto spunta invece la cinesissima e statale Bank of China.
In questo campo di analisi spicca inoltre un altro dato illuminante, fornito dall’insospettabile società Brand Finance all’inizio del 2017: sempre nel 2016 i marchi delle banche statali cinesi avevano superato per la prima volta in valore e reputazione quelli americani, ancora di proprietà privata anche se salvati nel 2008/2009 dai soldi pubblici e della regola del capitalismo di stato, per cui vige “la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite”.
Secondo l’analisi di Brand Finance, «principale società mondiale di valutazione del marchio (maggiore cespite intangibile delle imprese), la banca col brand più ricco è l’Industrial and Commercial Bank of China: 47,8 miliardi di dollari (Icbc, +32% su 2016, il 20% della capitalizzazione complessiva) che supera l’americana Wells Fargo (41,6 miliardi, -6%) marcata stretta da China Construction Bank (41,3 miliardi, +17%). Usa e Cina si alternano fino all’ottavo posto: JP Morgan Chase, Bank of China, Bank of America, Agricultural Bank of China, Citi. Se 20 anni fa sui primi 100 marchi la Cina era lo 0,2% del valore complessivo, oggi batte gli States 24% a 23%. La Gran Bretagna valeva il 16%, oggi il 6, la Francia il 5% oggi il 4, l’Italia l’1%.
Brand Finance valuta su tre criteri: investimenti diretti o indiretti sul marchio (pubblicità, personale, ricerca e sviluppo); ritorno di immagine presso clienti e stakeholder in genere (tramite sondaggio); volume d’affari. Le banche cinesi hanno una reputazione che quelle occidentali «possono solo sognare». Questi istituti hanno vissuto marginalmente la bufera finanziaria del 2008, hanno una platea di (fiduciosi) clienti e potenziali tali proporzionale alla crescita del benessere nel Paese, su impulso del governo sono al centro di grandi investimenti, domestici e non.»
Cina: il primato “della crescita del benessere del paese”, per l’appunto, e non dell’1% della popolazione.
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Daniele
Wednesday, 10 March 2021 08:49
Tratto da sinistrainrete.info
di F. Galofaro

[...]
6. Come i cinesi lavorano sull'economia e sulla politica

Leggendo i documenti in cui i marxisti cinesi riflettono sulle linee di fondo delle proprie riforme economiche, è soprattutto una nozione cardine marxiana ad apparire centrale: quella di fattore della produzione: capitale, lavoro, tecnologia, management, materie prime. In quest'ottica, le riforme e l'apertura del 18o congresso del Partito comunista cinese sono così interpretate: «abbiamo affermato che la distribuzione secondo il lavoro è il principio fondamentale di distribuzione del socialismo, e portato avanti una politica che permette ad alcune persone e aree di prosperare prima di altre, permettendo e incoraggiando il capitale, la tecnologia, il management e altri fattori della produzione a partecipare alla distribuzione; infine, formando il sistema economico socialista fondamentale in cui la proprietà pubblica resta dominante e diversi settori economici si sviluppano fianco a fianco; il sistema di distribuzione, in cui la distribuzione secondo il lavoro rimane dominante e coesistono una varietà di modi di distribuzione[6]». Ironicamente, dunque, alla base della supposta economia “turbocapitalista” cinese vi è un principio socialista, almeno nelle intenzioni.

La stessa impostazione, un'analisi dei fattori della produzione, permette ai cinesi di individuare le proprie carenze e gli obiettivi mancati. Ad esempio, «la nostra crescita economica è ancora in gran parte basata su risorse, capitale, lavoro e altri fattori, rimanendo nel settore medio-basso della catena industriale dell'economia internazionale, soggetti ad altri Paesi per quanto riguarda molte tecnologie-chiave, materiali, pezzi di ricambio ed equipaggiamento[7]».

A partire da categorie marxiane, dunque, si costruiscono strumenti innovativi e analisi economiche attuali, per comprendere, ad esempio, l'ultima crisi del capitalismo mondiale e trarne utili conseguenze sul piano politico[8]. Si formano i futuri dirigenti del Partito nelle scuole di Marxismo[9].

Soprattutto, il marxismo è il fondamento su cui si basano le argomentazioni politiche dietro alle scelte economiche, individuandone gli obiettivi. Ad esempio, quando il XIX Congresso Nazionale del Partito comunista cinese individua lacontraddizione principale della società cinese in quella tra lo sviluppo squilibrato e l'aspirazione crescente del popolo a una vita più felice[10], non fa che riprendere la distinzione di Mao Zedong tra l'aspetto generale delle contraddizioni (tra struttura e sovrastruttura; tra le classi) e quello particolare, storicamente dato, che a sua volta porta, in ciascun periodo storico, a un insieme di micro-contraddizioni: proprio tra queste la politica deve saper cogliere, appunto, la contraddizione principale[11].



7. La Cina è capitalista o comunista a seconda delle convenienze della propaganda occidentale

Nell'ultimo decennio la Cina ha provato di essere superiore all'Occidente in almeno due ambiti distinti. In primo luogo, ha resistito molto meglio alla grande crisi economica mondiale innescata dagli Stati uniti nel 2007. Lo stretto controllo politico sulla finanza descritto dagli autori del volume ha permesso alla Cina di reagire alla crisi sistemica in atto nel capitalismo globale, dominato dall'alta finanza (p. 61). In secondo luogo, ed è sotto gli occhi di tutti, la Cina ha sconfitto la pandemia; mentre noi fronteggiamo la seconda ondata di contagi e ne temiamo una terza, ha nuovamente un'economia in forte crescita; prima degli altri Paesi si è dotata di un vaccino con l'86% di tasso di successo, sviluppato da un'azienda statale[12].

Lasciamo da parte i filosofi marxisti e postmarxisti convinti che la Cina sia il paese del turbocapitalismo: per loro attaccare la Cina è un modo di sviare il discorso dal fallimento dalle proprie teorie rivoluzionarie mai aggiornate, dal proprio essere disconnessi dal mondo del lavoro e dalla propria sostanziale inutilità politica. E' però notevole come la propaganda occidentale torni a considerare la Cina un Paese comunista, quando deve giustificare i propri fallimenti. Ad esempio, per certi giornalisti il virus sarebbe stato sconfitto grazie ai metodi autoritari del governo; non a causa degli investimenti di lungo periodo nella modernizzazione del sistema sanitario, che hanno portato quel Paese ad avere il doppio dei posti-letto per 1000 abitanti disponibili in Paesi come l'Italia o gli USA[13]. Allora ci si dimentica di aver sostenuto che la Cina non è una valida alternativa al nostro sistema di governo perché un'economia capitalista proprio come la nostra, e si sostiene che la Cina non è una valida alternativa al nostro sistema di governo perché è una dittatura comunista. Ultimamente si è diffuso perfino il luogo comune per cui la Cina non sarebbe una valida alternativa al nostro sistema di governo perché i cinesi sono confuciani (e quindi irriducibilmente diversi da noi). Immagino che chi sostiene questo sia un profondo conoscitore degli Analecta di Confucio, abbia studiato il parallelo con filosofi coevi come Socrate, Platone, Buddha, sia in grado di spiegare analogie e differenze con altre filosofie imperiali come lo stoicismo e conosca a memoria l'opera omnia di François Jullien. Tutti gli altri avrebbero per lo meno il dovere di spiegare come mai l'opera di un filosofo morale vissuto cinque secoli prima di Cristo dovrebbe aiutare a prendere decisioni economiche vincenti e a sintetizzare vaccini efficaci. Se fosse così, varrebbe a maggior ragione la pena di studiarlo.
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Alfonso
Wednesday, 10 March 2021 08:28
Decisamente, l'automatismo della risposta funziona, ragazzuoli. Dovrebbe essere attivato dal riconoscimento automatico di alcune parole-chiave, come in ogni motore di ricerca data-centered che si rispetti, e che ignora il modello di partenza. Vediamo con questa cosa ne vien fuori. "Come si sa, le possibilità della tirannide sono ben più ampie. Le risorse di cui dispone sono infinite, dall’amore al denaro, dalla tortura alla fame, dal silenzio alla retorica. Essa può annientare nell’animo tiranneggiato lo stesso potere di essere ostacolato […]. La vera eteronomia comincia quando l’obbedienza smette di essere obbedienza cosciente e diventa inclinazione spontanea. La violenzasuprema sta in questa suprema dolcezza. Avere un animo da schiavo significa non poter essere ostacolato, non poter essere comandato. L’amore del padrone riempie l’animo al punto che esso non prende più le distanze." Levinas. Grazie
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Daniele
Tuesday, 09 March 2021 08:23
[...] tratto da sinistrainrete,info
di F. Galofaro

3. Proprietà pubblica, pianificazione e controllo dell'economia

Veniamo ora ai caratteri che permettono di distinguere l'economia cinese da quella capitalistica. Secondo gli autori, nell'economia capitalistica contemporanea il profitto di impresa ha assunto la forma del valore azionario a causa della netta separazione tra lavoro e proprietà. Il plusvalore prodotto dalle aziende viene convertito in dividendi. In Cina, al contrario, la differenza tra proprietà e lavoro è meno netta: vi si trovano infatti svariate forme di “economia collettiva”, in cui i lavoratori partecipano a vario titolo alla proprietà del capitale oppure la detengono integralmente, nel caso delle cooperative e delle comuni. Per quanto riguarda le aziende pubbliche, dove la distinzione capitale/lavoro è più chiara, allo Stato non spetta che un dividendo molto basso, una sorta di “tassa” sul capitale (p. 49).

Secondo gli autori, i 10 pilastri che fanno della Cina attuale un'economia distinta dal modello capitalista sono:

1) Pianificazione flessibile e decentrata, dotata di strumenti moderni e mobili;

2) Democrazia economica che stabilisce gli obiettivi in funzione degli interessi collettivi;

3) Servizi pubblici molto estesi sottratti del tutto o in parte al mercato;

4) Proprietà collettiva della terra e delle risorse naturali;

5) Diversificazione delle forme di proprietà;

6) Priorità politica dell'aumento del reddito;

7) Promozione della giustizia sociale e tentativo di ridurre la diseguaglianza comportata dallo sviluppo, vissuta come un rischio di destabilizzazione politica;

8) Priorità alla protezione della natura;

9) Adozione del principio win-win nelle relazioni economiche con gli altri stati;

10) Ricerca della pace e dell'equilibrio nei rapporti tra i popoli;

Il settore statale dell'economia è tutt'ora superiore al 50% (p. 64). In questo contesto, le grandi aziende pubbliche cinesi svolgono la funzione che in Occidente è assegnata alle multinazionali, senza però avere la priorità del profitto: dunque, non entrano in conflitto nel mercato cinese con le piccole e medie imprese, e non sono obbligate ad adottare comportamenti rapaci nei mercati esteri (p. 52). Anche il sistema bancario e i mercati finanziari sono posti sotto il controllo pubblico; l'offerta di credito degli istituti bancari “liberalizzati” rimane sotto il controllo della Banca Centrale (p. 62). L'accesso al mercato azionario è limitato a pochi operatori internazionali “qualificati”, per evitare le speculazioni, la sottomissione della Cina agli oligopoli finanziari, specie statunitensi (pp. 63-64). Riforme del mercato finanziario nel nome dell'efficienza vengono spesso auspicate dagli economisti liberali, i quali tuttavia non hanno strumenti scientifici che spieghino il paradosso di un'economia vincente e contemporaneamente “arretrata” sul piano finanziario.



4. La Cina sfrutta i lavoratori?

Un altro luogo comune da sfatare è quello dello sfruttamento della manodopera per sostenere le esportazioni dei prodotti cinesi. In realtà, secondo gli autori, non è possibile spiegare in questo modo il successo della Cina per tre motivi: in primo luogo, i salari industriali hanno in realtà conosciuto aumenti molto sostenuti senza danno per la competitività delle imprese nazionali, a causa di un'accelerazione della crescita della produttività del lavoro dal 4,31% degli anni Ottanta fino al 14,12% degli anni Novanta. In secondo luogo, i salari cinesi, per quanto inferiori a quelli dei Paesi capitalisti avanzati, sono molto superiori a quelli, miserabili, di economie saccheggiate dalla globalizzazione e da politiche neocoloniali. Infine, i salari cinesi rappresentano una percentuale molto piccola del prezzo di vendita di un prodotto cinese. A costare poco sono soprattutto i vari fattori produttivi che le grandi imprese statali forniscono al resto dell'economia, e i cui prezzi sono sotto controllo pubblico (pp. 66 - 67).



4a. Discussione. La continuità col maoismo

Dopo aver esposto, in una sintesi non esaustiva, gli argomenti principali del volume, mi permetto di discuterli. Per quanto ardita, la tesi più problematica proposta dagli autori, ovvero la relazione tra l'attuale primato economico cinese e il suo passato maoista, è convincente anche su un piano politico e culturale. Si tratta di una relazione di presupposizione: il secondo non si spiega senza il primo. La necessità di fuoriuscire da uno schema rigido di pianificazione di tipo sovietico, infatti, caratterizzava già il dibattito nella seconda metà degli anni '50: «La pratica dimostrò che [il sistema sovietico] era in grado di pianificare per le grandi dimensioni, ma non per le piccole, che esso poteva mettere in piedi grandi unità produttive, ma non quelle piccole e decentrate[2]». Era altrettanto chiaro il fatto che l'esigenza di aumentare la quantità della produzione, tipica del modello che la Cina intendeva superare, portava a disinteressarsi agli aspetti qualitativi della produzione. Un altro obiettivo, enunciato da Mao fin dal 1956 nel discorso Le dieci grandi contraddizioni, è assicurare il miglioramento continuo del livello di vita delle masse, in piena continuità con la Cina attuale. Chi ha visitato la Cina contemporanea sa bene che il socialismo cinese non è in nessun modo riducibile agli stereotipi sulla “condivisione della miseria”. Come scrive Xi Jinping, «Dobbiamo rispondere all'aspirazione del popolo a una vita felice [...]. Dobbiamo aumentare gli sforzi di redistribuzione del reddito per vincere la battaglia contro la povertà, garantire al popolo pari diritti di partecipazione e sviluppo, far sì che i risultati della riforma e dello sviluppo rechino beneficio a tutto il popolo in modo più equo. In tal modo si procederà a passo sicuro verso il raggiungimento dell'obiettivo di una prosperità condivisa per l'intero popolo[3]».



5. I comunisti cinesi sono davvero marxisti?

Se posso avanzare una piccola critica, il metodo di indagine adottato nel volume lascia inevasa una questione importante. L'approccio storico economico degli autori, infatti, è volto a dimostrare che l'economia cinese è oggettivamente una nuova forma di produzione rispetto al capitalismo. Non si chiedono se la cultura cinese è ancora permeata dal marxismo, se costituisce un terreno fertile per l'innovazione teorica e concettuale e la costruzione di nuovi strumenti di interpretazione del reale. Infatti, gli autori lasciano aperta la questione se, in futuro, la Cina realizzerà il socialismo o se rientrerà nell'alveo del capitalismo finanziario occidentale. Per azzardare una risposta, sarebbe fondamentale chiedersi quali strumenti concettuali adoperino i cinesi nella progettazione politica della propria economia. Come pensanol'economia? La pensano come un'economia socialista? Per citare Deng Xiaoping, infatti, il solo rapporto tra economia pianificata e di mercato non è sufficiente a caratterizzare un'economia socialista: «'Economia pianificata' non equivale a 'economia socialista', perché c'è pianificazione anche sotto il capitalismo; un'economia di mercato non è capitalismo, perché ci sono mercati anche sotto il socialismo. Pianificazione e mercato sono solo modi di controllare l'attività economica[4]».

Allora, con quali categorie pensano i cinesi? Quando pianificano l'economia, impiegano gli strumenti dell'economia liberista? Si sono dotati di strumenti originali? Hanno sviluppato una scienza economica marxista? E quando discutono gli obiettivi politici del prossimo piano quinquennale, argomentano sulla base del marxismo?

L'idea che mi sono fatto è la seguente: esiste in Cina una scienza politica ed economica marxista che in Occidente è per lo più sconosciuta anche ai marxisti. Il marxismo in Occidente si è isterilito fino a produrre solo caricature di intellettuali, la cui funzione precipua si riduce a intervenire nei talk show e produrre documentari per le content platform. In Oriente, al contrario, il marxismo ha proseguito il proprio sviluppo[5] con esiti che qui da noi sono per lo più ignoti, vuoi per difficoltà di ordine linguistico, vuoi perché non superano l'asfissiante censura delle pubblicazioni scientifiche occidentali, i cui criteri di giudizio sono basati su un canone rigidamente prestabilito di metodi in voga e di autori classici – prevalentemente anglosassoni - e su un anti-canone di autori e metodi screditati a priori e a prescindere. E' forse anche questo un motivo per cui il successo cinese ci appare come un “mistero” (p. 31): chi sono i massimi intellettuali cinesi? Che analisi propongono Cheng Enfu e Feng Yuzhang? Di cosa dibattono Lu Pinyue e Zhang Boying? Ne sappiamo poco o nulla.

[segue]
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Alfonso
Monday, 08 March 2021 18:56
Ottimo balzo all'indietro. Identificando mezzi di produzione con accumulazione di capitale, vi posizionate prima di Adam Smith. In fondo, fate che ripartire da Galiani, si perde meno tempo. Grazie per l'automatismo
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Daniele
Monday, 08 March 2021 16:35
Tratto da www.sinistrainrete.info
di F. Galofaro

Sorpresa! I comunisti cinesi sono marxisti


1. Caratteri generali dell'economia cinese

Non è possibile comprendere la Cina contemporanea se non si tengono ferme due caratteristiche della sua economia:

1) Si tratta di un contro-modello (p. 82). Non è possibile ridurlo all'economia capitalista occidentale, subordinata alla supposta razionalità dell'alta finanza, e nemmeno all'economia sovietica, in cui lo Stato si appropria di ogni cosa; l'economia cinese si è sviluppata anzi in opposizione all'una e all'altra;

2) E' un'economia con una dimensione progettuale, che aspira, con Marx, a un nuovo modo di produzione; perciò appare in ogni momento all'osservatore come un modello in transizione;

Gli autori provano inoltre a confutare un cliché molto radicato. Secondo alcuni, infatti, la crescita della Cina sarebbe dovuta esclusivamente alle aperture al mercato volute da Deng Xiaoping. Il volume porta una vera e propria marea di dati, grafici, documenti storici che pongono la crescita cinese degli anni '80 in rapporto con l'ultima parte della presidenza di Mao Zedong (pp. 22 e ssg.). Se consideriamo, dunque, la storia della sua economia, non è possibile attribuire i successi che la Cina ha inanellato negli scorsi quarant'anni solo all'abbandono di un modello di industrializzazione accelerata e di pianificazione centralizzata; in realtà, già prima della morte di Mao la Cina era il secondo Paese socialista per tasso di crescita del settore industriale (+ 7,9), dietro alla Jugoslavia ma davanti all'Unione Sovietica (+ 6,2). Guardando alla storia economica del Paese, si nota per il periodo tra il 1952 e il 1978 un tasso di crescita del 6,3% (p. 35). In continuità sono anche dati demografici e relativi alla speranza di vita. Inoltre, non si deve credere che la Cina abbia abolito di colpo tutte le istituzioni dell'epoca maoista: negli anni '80, quando furono intraprese le riforme strutturali, esse erano ancora in gran parte attive. Insomma, la Cina non è diventata “per magia” una superpotenza economica nel biennio '76 – '78. Questa caricatura dei fatti è puramente ideologica: è funzionale ad assimilare i successi cinesi al capitalismo.



2. Il mistero della crescita cinese si comprende meglio con categorie economiche marxiste

Il “segreto” della crescita cinese è tale solo per gli economisti liberali, privi come sono di strumenti atti a comprenderlo. Il mistero svanisce considerando l'accumulazione di capitale in Cina sul piano storico. Si tratta di un capitale sociale:attrezzature, macchinari, strumenti, impianti industriali, inventari, al netto di edifici residenziali e valore dei terreni. Serve a calcolare la velocità di rotazione del capitale circolante nell'economia marxista. Se abbandoniamo le fette di prosciutto di Milton Friedman e inforchiamo gli occhiali di Marx[1], scopriamo che, nel periodo '52 – '78, il capitale produttivo era addirittura superiore a quello della Cina delle riforme (p. 37). La Cina di oggi costruisce su fondamenta rappresentate dai grandi sforzi di accumulazione del capitale compiuti nel primo periodo della sua storia di repubblica popolare. In sostanziale continuità si pongono anche i grandi investimenti per l'istruzione e per la ricerca. Lo studio dei due autori, di una completezza encomiabile, si sofferma anche sui quattro “shock” subiti dall'economia cinese, in corrispondenza con la crisi dei rapporti con l'URSS ('60-'62); la rivoluzione culturale ('67-'68); la morte di Mao ('76); i fatti di Tienanmen (1989).

[segue]
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Alfonso
Monday, 08 March 2021 15:21
Ottima conduzione di un dibattito, complimenti ai tre autori. Sempre avere l'ultima parola. Primo passaggio, arrendersi alla evidenza: la schiavitù salariata è la più alta forma di libertà ottenibile....nelle società dove domina il modo capitalistico di produzione. Per chiudere, gli autori indicano linea e direzione, il modello emiliano di Zangheri e Bersani spalmato sulla Cina. Tornare indietro di settanta anni, ripartire con la lega delle cooperative, applicare il modello emiliano all'intera nazione. Ragazzuoli, questo film lo abbiam visto. Se mandate il copione ai vostri committenti, ve lo cassano. Spero abbiate un'altra occasione. Grazie
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Daniele
Monday, 08 March 2021 10:10
[...]
Anche secondo le nuove leggi, entrate in vigore dal primo ottobre 2007, la proprietà della terra in Cina si divide in due tipi fondamentali: quella statale per le aree urbane, e quella invece posseduta collettivamente dai singoli villaggi rurali nelle campagne del gigantesco paese asiatico, agglomerati riconosciuti come Organizzazioni Economiche Collettive (OEC), che distribuiscono l’usufrutto della terra alle famiglie contadine e/o alle cooperative di produzione agricola operanti nei loro villaggi. Per meglio tutelare gli interessi dei contadini, nell’ottobre del 2008 le autorità centrali hanno presentato un progetto di legge che tutelerà le OEC dall’espropriazione di terre per i bisogni produttivi delle imprese, per nuove strade, ferrovie, ecc., consentendo allo stesso tempo alle famiglie contadine già usufruttuarie della terra un maggiore livello di protezione socioproduttiva e politica.
Oltre al suolo, anche le risorse idriche della Cina rimangono saldamente in mano pubblica: un dato di fatto non certo scontato, invece, nell’occidente capitalistico dove l’utilizzo “sdoppiato” del bene comune-acqua, a scopi di profitto, è emerso attraverso i processi di privatizzazione delle risorse idriche che,dal 2009, interessano ormai anche l’Italia.
Il terzo segmento socioproduttivo che costituisce il complesso mosaico della “linea rossa” in Cina è costituito dal settore cooperativo, in particolar modo dalle imprese cooperative (industriali e artigianali) di villaggio, di proprietà di tutti gli abitanti dei villaggi o municipi interessati, secondo una pratica produttiva regolarizzata da una legge del 1990.
Il Fondo Monetario Internazionale (2004) ha stimato che se già nel 1980 le cooperative non agricole di villaggio impiegavano circa 30 milioni di lavoratori, nel 2003 la cifra era salita a più di 130 milioni di unità lavorative, rimanendo quasi invariata negli ultimi anni e coprendo circa il 20% dell’attuale forza lavorativa cinese, anche se alcune di queste cooperative hanno perso via via il loro carattere originario ed hanno subito un processo mascherato di privatizzazione.
Come ha notato G. Arrighi, il momento fondamentale per il processo di sviluppo delle cooperative rurali non agricole è stato paradossalmente «l’introduzione, nel 1978/1983, del sistema di responsabilizzazione familiare, che faceva tornare il potere decisionale e il controllo sul sovrappiù agricolo alle famiglie, togliendoli alle comuni. Inoltre nel 1979, e poi ancora nel 1983, i prezzi pagati per gli approvvigionamenti di prodotti agricoli sono stati aumentati in misura significativa. Il risultato è stato un aumento importante della produttività delle fattorie e dei redditi agricoli, che a sua volta ha ringiovanito “l’antica” propensione delle comunità e delle brigate agricole a cimentarsi anche nella produzione non agricola. Tramite una serie di barriere istituzionali alla mobilità personale, il governo incoraggiava il lavoratore agricolo a “lasciare la terra senza abbandonare il villaggio”. Nel 1983, tuttavia, venne permesso ai residenti nelle aree rurali di intraprendere attività di trasporto e di commercio anche a grande distanza, allo scopo di trovare sbocchi di mercato ai loro prodotti. Era la prima volta nel corso di quella generazione che ai contadini cinesi veniva consentito di condurre affari fuori dai confini del proprio villaggio. Nel 1984 i regolamenti vennero ulteriormente addolciti, consentendo ai contadini di andare a lavorare nelle città vicine per presentare la loro opera in organismi collettivi noti come “imprese di municipalità e villaggio”.
Il risultato fu la crescita esplosiva della massa di forza-lavoro rurale impiegata in attività non agricole, dai 28 milioni del 1978 ai 136 milioni del 2003, con gran parte dell’aumento localizzato nelle imprese di municipalità e villaggio. Fra il 1980 e il 2004 le imprese di municipalità e villaggio hanno creato un numero di posti di lavoro quadruplo di quelli persi nello stesso periodo nelle città delle imprese statali o collettive. Nonostante fra il 1995 e il 2004 il tasso di crescita dell’occupazione nelle imprese di municipalità e villaggio sia stato inferiore al tasso di disoccupazione degli impieghi urbani statali e collettivi, il bilancio dell’intero periodo mostra che alla fine le imprese di municipalità e villaggio occupano ancora più del doppio dei lavoratori impiegati complessivamente nelle imprese urbane a proprietà straniera, a proprietà privata e a proprietà mista.
Il dinamismo delle imprese rurali ha colto di sorpresa i dirigenti cinesi. Come riconobbe Deng Xiaoping nel 1993, lo sviluppo delle imprese di municipalità e villaggio “fu del tutto inatteso”. Da allora il governo è intervenuto per regolare e dare una normativa alle imprese rurali e nel 1990 la proprietà delle imprese di municipalità e villaggio è stata conferita collettivamente a tutti gli abitanti del municipio o del villaggio interessato. Il potere di assumere o licenziare i direttori delle imprese fu però conferito alle autorità locali, con la possibilità di demandare tale scelta a una struttura governativa. Anche la distribuzione dei profitti è stata sottoposta a normativa, introducendo l’obbligo del reinvestimento nell’impresa di più del 50% dei profitti per modernizzare e ingrandire gli impianti e per finanziare servizi e grafiche per i lavoratori, mentre la quasi totalità di quel che resta deve essere impiegata per infrastrutture agricole, miglioramenti tecnologici, servizi pubblici e investimenti di nuove imprese».
A fianco delle cooperative rurali (non agricole) di villaggio, tuttora esiste una grande e variegata rete di cooperative agricole ed edilizie, di consumo industriali, che fanno parte della Federazione delle Cooperative cinesi interessando in forme diverse buona parte della popolazione cinese, a partire dei 10 milioni di persone che lavoravano direttamente al loro interno nel 2003.
Nel 2002 ammontavano invece a circa 100 milioni gli associati delle cooperative cinesi facenti parte dell’Alleanza Internazionale delle Cooperative, mentre nel 2003 le 94.711 cooperative cinesi (di tutti i generi e tipologie) contavano al loro interno diverse centinaia di milioni di uomini e donne, associati a vario titolo.
Secondo una tesi assai diffusa nella sinistra occidentale, non sono esistite quasi più delle cooperative rurali di produzione in Cina dopo la morte di Mao, ma si tratta solo di una leggenda metropolitana.
Il Quotidiano del Popolo del 21 agosto 2010 (“China rural cooperatives help boost farmers’income”) ha riportato invece che, a marzo del 2010, esistevano ormai più di 270000 cooperative agricole in Cina, quasi il triplo di quelle operanti alla fine del 2008, coinvolgendo già ora decine di milioni di contadini e godendo di un forte sostegno politico-economico da parte dello stato cinese.
Nel completo silenzio dei mass media occidentali, dal 2007 nelle campagne cinesi sta ormai crescendo una gigantesca ondata cooperativa, assolutamente volontaria, la quale ha fatto in modo che all’inizio del 2010 più di un villaggio cinese su tre abbia al suo interno una cooperativa di produzione agricola: non a caso il Global Times (28 giugno 2010, “Small farrners are harvesting the big market”) ha sottolineato come sia la seconda volta, dopo il 1953/58, che i contadini cinesi su larga scala si stiano “organizzando per lavorare assieme” e per produrre in modo cooperativo, creando un fenomeno assai importante sia su scala cinese che mondiale.
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AlsOb
Sunday, 07 March 2021 18:06
Eli Friedman notoriamente esprime una ideologistica posizione contro la Cina, sulla base della legittima assunzione che sia uno stato capitalistico. Non è ben chiaro se gli dispiaccia il suo successo economico. Invero se sivolesse criticare la Cina si potrebbe fare meglio.
Siccome ha una mera infarinatura di economia e finanza, le sue critiche sollevano soprattutto confusione e equivoci. Tendono a scadere nel moralismo, pur avendo la pretesa di partire da una opposizione alla classe dominante capitalistica, che sia americana o cinese non importa, in difesa dei lavoratori.

Vale invece la pena di leggere il giornalista brasiliano losangelino Pepe Escobar, che esprime maggiore equilibrio e conoscenza.


New Five-Year Plan aims for ‘high-quality’ economic reform, a tech leap forward and new era of common prosperity

Pepe Escobar

It’s Lianghui (“Two Sessions”) time – the annual ritual of the Beijing leadership. The stars of the show are the top political advisory body, the Chinese People’s Political Consultative Conference; and the traditional delivery of a work report by the Prime Minister to the top legislature, the National People’s Congress (NPC).

The review of the draft outline of China’s 14th Five-Year Plan will proceed all the way to March 15. But in the current juncture, this is not only about 2025 (remember Made in China 2025, which remains in effect). The planning goes long-range towards targets in the Vision 2035 project (achieving “basic socialist modernization”) and even beyond to 2049, the 100th anniversary of the People’s Republic of China.



Premier Li Keqiang, delivering the government work report for 2021, stressed that the target for GDP growth is “above 6%” (the IMF had previously projected 8.1%). That includes the creation of at least 11 million new urban jobs.

On foreign policy, Li could not draw a sharper contrast with the Hegemon: “China will pursue an independent foreign policy of peace” and will “promote the building of a new type of international relations”.

That’s code for Beijing eventually working with Washington on specific dossiers, but most of all focusing on strengthening trade/investment/finance relations with the EU, ASEAN, Japan and the Global South.

The outline of the 14th Five-Year Plan (2021-2025) for the Chinese economy had already been designed last October, at the CCP plenum. The NPC will now approve it. The key focus is the “dual circulation” policy, whose best definition, translated from Mandarin, is “double development dynamics”.

That means a concerted drive to consolidate and expand the domestic market while continuing to push foreign trade/investment – as in the myriad Belt and Road Initiative (BRI) projects. Conceptually, this amounts to a quite sophisticated, very Daoist, yin and yang balancing.

In early 2021, President Xi Jinping, while extolling Chinese “conviction and resilience, as well as our determination and confidence”, was keen to stress the nation faces “unprecedented challenges and opportunities”. He told the Politburo “favorable social conditions” must be created by all means available all the way to 2025, 2035 and 2049.

Which brings us to this new stage of Chinese development.

The key target to watch is “common prosperity” (or, better yet, “shared prosperity”), to be implemented alongside technological innovations, respect for the environment, and fully addressing the “rural question”.

Xi has been adamant: there’s too much inequality in China – regional, urban-rural, income disparities.

It’s as if in a cool reading of the dialectical drive of historical materialism in China, we would arrive at the following model. Thesis: imperial dynasties. Antithesis: Mao Zedong. Synthesis: Deng Xiaoping, followed by a few derivations (especially Jiang Zemin) all the way to the real synthesis: Xi.

On the Chinese “threat”

Li stressed China’s success in containing Covid-19 domestically; the nation spent at least $62 billion on it. This should be read as a subtle message, addressed especially to the Global South, about the efficacy of China’s governance system to design and execute not only complex development plans but also cope with serious emergencies.

What’s ultimately at stake in this competition between wobbly Western (neo)liberal democracies and “socialism with Chinese characteristics” (copyright Deng Xiaoping) is the capacity to manage and improve people’s lives. Chinese scholars are very proud of their national development plan ethos, defined as SMART (specific, measurable, achievable, relevant and time-bound).

A very good example is how China, in less than two decades, managed to extricate 800 million people out of poverty: an absolute first in History.

All of the above is rarely evoked as Atlanticist circles drown in virtually 24/7 China demonization hysteria. Wang Huiyao, the director of the Beijing-based Center for China and Globalization, at least had the merit to bring into the discussion Sinologist Kerry Brown of King’s College, London.

Drawing from comparisons between Leibniz – close to Jesuit scholars, interested in Confucianism – and Montesquieu – who only saw a despotic, autocratic, imperial system – Brown re-examines 250 years of entrenched Western positions on China and remarks how is “more difficult than ever” to engage in a reasonable debate.

He identifies three major problems.

1. Throughout modern history, there’s no Western appreciation of China as a strong and powerful nation, and its restored historical importance. Western mindsets are not ready to deal with it.

2. The modern West never really thought of China as a global power; at best as a land power. China was never seen as a naval power, or capable of exercising power way beyond its borders.

3. Propelled by the iron certainty over its values – enter the very much debased concept of “true democracy” – the Atlanticist West has no idea what to make of Chinese values. Ultimately the West is not interested in understanding China. Confirmation bias reigns; the result is China as a “threat to the West”.

Brown points to the key predicament afflicting any scholar or analyst trying to explain China: how to convey China’s extremely complex worldview, how to capture the China story in a few words. Soundbites do not apply.

Examples: explaining how a whopping 1.3 billion people in China have some sort of health security, and how 1 billion enjoy some kind of social security. Or explaining the intricate details of China’s ethnic policies.

Premier Li, delivering his report, vowed to “forge a strong sense of community among the Chinese people and encourage all of China’s ethnic groups to work in concert for common prosperity and development”. He did not specifically mention Xinjiang or Tibet. It’s an uphill task to explain the trials and tribulations of integrating ethnic minorities into a national project amid non-stop hysteria on Xinjiang, Taiwan, South China Sea and Hong Kong.

Come and join the party

Whatever the Atlanticist West’s whims, what matters for the Chinese masses is how the new Five-Year Plan will deliver, practically, what Xi has previously described as “high-quality” economic reform.

Things look good for powerhouses Shanghai and Guangdong – they were already aiming at 6% growth. Hubei – where Covid-19 cases first appeared – is actually targeting 10%.

Based on frenetic social media activity, public opinion confidence in the Beijing leadership remains solid, considering a series of factors. China won the “health war” against Covid-19 in record time; economic growth is back; absolute poverty has been eradicated, according to the original timetable; the civilization-state is firmly established as a “moderately prosperous society” 100 years after the founding of the Communist Party.

Since the start of the millennium, China’s GDP grew no less than 11-fold. Over the past 10 years, GDP more than doubled, from $6 trillion to $15 trillion. No less than 99 million rural people, 832 counties and 128,000 rural villages were the last ones to be extricated from absolute poverty.

This complex hybrid economy is now even engaged in setting up an elaborate, “sweet” trap for Western firms. Sanctions? Don’t be fools; come here and enjoy doing business in a market of at least 700 million consumers.

As I’ve noted last year, the systemic process in play is like a sophisticated mix of internationalist Marxism with Confucianism (privileging harmony, abhorring conflict): the framework for “community with a shared future for mankind”. One country – actually a civilization-state, focused on its renewed historical mission as re-emerging superpower. Two sessions. And so many targets – and all of them achievable.
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Roberto
Sunday, 07 March 2021 16:54
[...] L’egemonia contrastata della “linea rossa”, all’interno della proteiforme formazione economico-sociale cinese del 2000-2010, si compone e viene costituita innanzitutto da quattro “grandi anelli” materiali, strettamente interconnessi tra loro.
Il primo tassello socioproduttivo della “linea rossa”, nella Cina contemporanea, viene rappresentato dall’enorme ruolo e peso specifico mantenuto tutt’oggi dalle grandi imprese statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica, che operano nel settore industriale e bancario, estrattivo e commerciale della grande nazione asiatica.
Il 3 settembre del 2007 il Quotidiano del Popolo di Pechino, l’organo di stampa più prestigioso del partito comunista cinese (PCC), ha riportato che nel 2006 le 500 principali imprese della Cina (ivi comprese banche, settore petrolifero, ecc.) controllavano e possedevano l’83,3% del PNL cinese, in netto aumento rispetto al 78% del 2005 e al solo 55,3% del 2001: tra questi 500 grandi colossi, 349 e quasi il 70% del totale erano di proprietà statale, in modo completo o con una quota di maggioranza appartenente alla sfera pubblica.
Il trend generale è continuato anche nel 2009. Secondo i dati forniti il 4 settembre del 2010, l’anno precedente le prime 500 imprese cinesi avevano raggiunto un reddito operativo pari a più di quattromila miliardi di dollari, quasi il doppio del PNL italiano: di questi 4.005 miliardi di dollari, meno di un sesto era stato prodotto dalle imprese private, dimostrando ancora una volta l’egemonia (contrastata) del settore statale all’interno del processo globale di riproduzione dell’economia cinese.
Sempre nel 2006 il giro di affari e le vendite delle imprese statali (completamente o in maggioranza statali) risultò pari a 14,9 migliaia di miliardi di yuan, su un totale di 17,5 migliaia di miliardi di yuan di vendita globale collezionati dalle prime 500 imprese, pari a circa l’85% dell’insieme del giro d’affari della ricchezza prodotta da queste ultime; visto che la quota dei “500 big”sul prodotto nazionale lordo cinese era a sua volta pari al sopraccitato 83,3%, la quota percentuale delle 349 imprese statali sul PNL cinese ufficiale risultava pari al 70% e a quasi tre quarti della ricchezza globale cinese.
Nel 2008 il giro d’affari delle SOE (imprese statali cinesi, in tutto o a maggioranza di proprietà pubblica) era ancora aumentato, fin quasi a raggiungere i 18 migliaia di miliardi di yuan e una quota sempre pari a circa il 70% del PNL interno, equivalente invece a 24,66 migliaia di miliardi di yuan nell’anno preso in esame, mentre il numero di impiegati in esse risultava pari a circa 35 milioni di unità.
La dinamica continuava anche l’anno seguente, visto che nel 2009 la massa d’affari della SOE superava a sua volta i 20 migliaia di miliardi di yuan, con un ulteriore incremento in termini assoluti.
Anche se una parte nettamente minoritaria delle imprese statali risulta in mano ai privati, autoctoni o stranieri, come soci di minoranza, mentre una quota “sommersa” del PNL cinese non emerge dalle statistiche ufficiali, si tratta chiara-mente di dati assolutamente sconosciuti al reale capitalismo monopolistico di stato, egemone nell’area occidentale, segnata tra il 1979 e il 2005 da processi giganteschi di privatizzazione delle imprese produttive statali che hanno invece solo sfiorato in misura modesta l’economia cinese, a partire dal decisivo sistema bancario.
La principale debolezza del settore statale cinese consiste nel suo minor tasso medio di profitto rispetto alla sfera privata, autoctona o straniera. La massa di profitto ottenuta dalla SOE è passata dai 90 miliardi di yuan del 1995 fino ai 221 del 2002, balzando poi nel 2007 alla cifra di 1.620 miliardi di yuan (221,9 miliardi di dollari): un incremento eccezionale, dovuto anche al doloroso processo di ristrutturazione delle imprese statali sviluppatosi tra il 1998 e il 2006, ma che non è ancora sufficiente a far raggiungere alle SOE i margini di redditività ottenuti negli stessi anni dal settore privato, che tra il gennaio e il novembre del 2007 avevano raggiunto una massa di profitto di 400 miliardi di yuan solo nel segmento delle grandi imprese private, trascurando le medie, piccole e piccolissime imprese.
Il secondo anello principale, che garantisce tuttora l’egemonia contrastata della “linea rossa” all’interno della variegata formazione economico–sociale cinese, viene rappresentato dalla proprietà pubblica del suolo cinese, che può essere concesso legalmente in usufrutto a privati solo in determinate condizioni e con l’approvazione preventiva dello stato. Ancora recentemente l’assemblea legislativa cinese ha rifiutato qualunque proposta di privatizzazione della terra in Cina: il 30 gennaio del 2007 Chen Xiwen, direttore dell’ufficio agricolo del governo centrale, dopo aver ribadito un secco diniego alle ipotesi di privatizzazione ha notato che la terra veniva data in usufrutto ai contadini per trent’anni, e che ogni ipotesi di subaffitto del suolo da parte dei contadini alle imprese industriali era pertanto da considerarsi come assolutamente illegale.
[...]
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Massimo
Saturday, 06 March 2021 12:39
E proprio dai “fatti testardi” (Lenin) sorge subito una sorpresa clamorosa: contrariamente alle tesi diffuse in alcuni settori del movimento anticapitalistico occidentale, secondo i quali dopo la svolta del 1976/78 si sarebbe attuata una sorta di restaurazione borghese nel gigantesco paese asiatico, la “linea rossa” e le relazioni sociali di produzione/distribuzione collettivistiche risultano ancora oggi egemoni e centrali all’interno della variegata, composita e “sdoppiata” formazione economico-sociale cinese del 2000-2011. Come punto di partenza riprendiamo alcuni recenti articoli sulla Cina, di orientamento apertamente anticomunista, che possono servire a provocare uno shock salutare in alcuni lettori e compagni.

Il 16 novembre del 2010 J. Dean scriveva sul Wall Street Journal, la “bibbia” dei capitalisti di tutto il mondo, rilevando con preoccupazione come il governo e lo stato cinese possiedano “tutte le maggiori banche in Cina, le tre maggiori compagnie del settore petrolifero e delle telecomunicazioni, le più grandi aziende nei mass media”. Sempre il Wall Street Journal ha notato che i beni di proprietà delle imprese statali nel 2008 equivalevano a ben 6.000 miliardi di dollari, il 133% del prodotto nazionale lordo cinese di quello stesso anno, e in percentuale più di cinque volte del valore accumulato dalle imprese pubbliche (ferrovie, ecc.) francesi, il paese a sua volta più “dirigista” del mondo occidentale.

Una seconda sorpresa è arrivata il 7 luglio del 2010. Un professore dell’università di Yale, Chen Zhiwu, ha rilevato sull’International Herald Tribune (pag. 18) che “lo stato cinese controlla tre quarti della ricchezza in Cina…”: il 75%, quindi, non lo 0,1% del processo produttivo del gigantesco paese asiatico.

A sua volta il giornalista Isaac Stone Fish, sulla rivista statunitense Newsweek del 12 luglio 2010, ha attirato l’attenzione sulle “imprese di proprietà statale, che dominano in modo crescente l’economia cinese…”: pertanto negli ultimi anni si assiste a un processo di incremento del peso specifico del settore pubblico all’interno della Cina, non certo alla sua riduzione. [3]

Altro microshock. Il 28 settembre del 2009 il sito China Stakes rilevava che, tra l’aprile e il settembre di quell’anno, il governo e le autorità locali della provincia dello Shanxi, (la “capitale del carbone” della Cina) avevano nazionalizzato ben 2840 miniere appartenenti in precedenza a investitori privati, autoctoni o stranieri, con indennizzi di regola ritenuti da questi ultimi “insoddisfacenti”.

Tang Xiangyang, sulla rivista Economic Observer News del settembre 2009, ha preso in esame dal canto suo l’elenco che viene diffuso ogni anno in Cina sulle 500 principali aziende del paese, edito tra l’altro a partire dal 2002 da un organismo che comprende al suo interno anche tutte le principali imprese private, autoctone o multinazionali, che operano in esso.

Con tono sconsolato, Tang Xiangyang ha dovuto intitolare il suo articolo “I monopoli di stato dominano la top 500 della Cina”, notando subito che durante il 2008 tutte le prime 43 posizioni nell’elenco in oggetto erano occupate… da aziende, industrie e banche statali, completamente o a maggioranza in mano al settore pubblico. Le imprese private e i monopoli capitalistici, tanto decantati in occidente, svolgevano il ruolo di “cenerentola” nel processo produttivo cinese, tanto che Tang Xiangyang è stato costretto a rilevare con una certa angoscia come la più grande azienda privata cinese, la Huawei Tecnologies con base a Shenzen, occupasse solo il 44° posto nella lista; dato ancora peggiore per il povero Tang, solo un quinto e solo cento delle “top 500” in Cina erano aziende capitalistiche, la cui percentuale sull’importo globale delle vendite ottenute nel 2008 dalle prime cinquecento imprese risultava pari circa a un deludente … 10%, a un modesto decimo del reddito globale espresso da queste ultime nella Cina del 2008.[4]

Nella classifica relativa alle 500 imprese più grandi al mondo, pubblicata dalla rivista Fortune nel luglio del 2010, risultano a loro volta presenti 42 imprese della Cina continentale (con esclusione di Taiwan, Hong Kong e Macao). E su queste 42 (a partire dalla statale Sinopec, numero sette su scala planetaria), gigantesche aziende cinesi, risultano essere di proprietà pubblica, in tutto o in larga parte, addirittura quarantuno società su quarantadue, banche e istituti finanziari compresi.

A sua volta Dick Morris, giornalista di sicura fede anticomunista, nel luglio del 2009 intitolava un suo articolo “Il socialismo non funziona nemmeno in Cina” lamentandosi (dal suo punto di vista) che in Cina ben l’80% di tutte le attività di investimento venisse finanziato da banche statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica, e che (orrore ancora maggiore) le imprese di stato cinesi esprimessero ben il 70% dell’insieme degli investimenti di capitali in Cina.

Percentuale tra l’altro in crescita progressiva, protestava con vigore l’indignato Dick Morris, e che ingiustamente favoriva la “triste storia del settore socialista in Cina”, sempre a giudizio del pubblicista occidentale.[5]

Quarantatré società statali ai primi quarantatré posti nella “top 500” del 2008, il 70% degli investimenti produttivi cinesi da imprese pubbliche: anche a prima vista, non si tratta certo di “residui” socioproduttivi di marca socialista dei (presunti) “bei tempi passati”.

Servono altri dati? Se ne trovano facilmente.

Secondo l’autorevole economista statunitense Christopher Mcnally, nel 2009 le imprese statali (in tutto, oppure in larga parte di proprietà pubblica) producevano circa il 60% del prodotto nazionale lordo (PNL) cinese e senza tener conto del settore cooperativo, in una nazione spesso definita a torto come capitalista.[6]

Sul New York Times del 29 agosto 2010, Michael Wines notava con preoccupazione come la Cina negli ultimi anni avesse rafforzato il settore statale, tanto che delle 100 più grandi imprese cinesi quotate in borsa, affermava sconsolato il giornalista statunitense, ben 99 erano in maggioranza (quasi totale/egemone) di proprietà statale, e una sola invece privata e capitalista.[7]

In un rapporto della Banca Mondiale del giugno 2010 si ammetteva che “è una politica esplicita” (del governo cinese) “di mantenere un ruolo chiave per le imprese di stato in molti settori denominati come strategici o fondamentali”. Gary Epstein, proprio su questa falsariga e in un articolo apparso sulla rivista Forbes del 31 agosto 2010, si lamentava del fatto che nella Cina contemporanea il ”miglior modo di sopravvivere” per un imprenditore privato, per un capitalista “in un settore industriale che lo stato domina – e ce ne sono molti – è quello di rimanere piccoli”: non esattamente “il credo capitalistico che tu potresti ottenere in una business school”, ha notato con amarezza l’infelice giornalista statunitense.
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Daniele
Friday, 05 March 2021 21:39
Nel 2020 ben ventidue (22!) delle venticinque più grandi imprese cinesi risultavano principalmente di proprietà pubblica, statale o municipalizzata.
1) Gruppo Sinopec Pechino 407.009 6.793,2 317.515,7 582.648 Petrolio Di proprietà statale
2) State Grid Corporation of China Pechino 383.906 7.970.0 596.616,3 907.677 Utilità elettrica Di proprietà statale
3) China National Petroleum Pechino 379.130 4.443.2 608.085,6 1.344.410 Petrolio Di proprietà statale
4) China State Construction Engineering Pechino 205.839 3.333.0 294.070,0 335.038 Costruzione Di proprietà statale
5) Ping An Insurance Shenzhen 184.280 21.626,7 1.180.488,5 372.194 Assicurazione Pubblico
6) Banca Industriale e Commerciale Cinese Pechino 177.069 45.194,5 4.322.528,4 445.106 Banca commerciale Di proprietà statale
7) China Construction Bank Pechino 158.884 38.609,7 3.651.644,6 370.169 Banca commerciale Di proprietà statale
8) Banca Agricola della Cina Pechino 147.313 30.701,2 3.571.541,7 467.631 Banca commerciale Di proprietà statale
9) Banca di Cina Pechino 135.091 27.126,9 3.268.837,9 309.384 Banca commerciale Di proprietà statale
10) China Life Insurance Pechino 131.244 4.660,3 648.393,2 180.401 Assicurazione Di proprietà statale
11) Huawei Shenzhen 124.316 9.062.1 123.269.9 194.000 Apparecchiature per le telecomunicazioni Limitato (privato)
12) China Railway Engineering Corporation Pechino 123.324 1.535,3 152.982,5 302.394 Costruzione Di proprietà statale
13) Motore SAIC Shanghai 122.071 3.706,1 121.930,8 151.785 Settore automobilistico Di proprietà statale
14) China Railway Construction Pechino 120.302 1.359,2 155.597,9 364.907 Costruzione Di proprietà statale
15) China National Offshore Oil Pechino 108.687 6.957,2 184.922,2 92.080 Petrolio Di proprietà statale
16) compagnia telefonica cinese Pechino 108.527 12.145,1 266.190,3 457.565 Telecomunicazioni Di proprietà statale
17) Pacific Construction Group Ürümqi 97.536 3.455 63.694.6 453.635 Costruzione Privato
18) China Communications Construction Pechino 95.096 1.332,6 232.053,4 197.309 Costruzione Di proprietà statale
19) China Resources Hong Kong 94.758 3.571,6 232,277,1 396.456 Farmaceutico Di proprietà statale
20) FAW Group Changchun 89.417 2.847,8 70.353,7 129.580 Settore automobilistico Di proprietà statale
21) China Post Pechino 89.347 4.440,9 1.518.542,8 927.171 Corriere Di proprietà statale
22) Gruppo Amer International Shenzhen 88.862 1.807,3 23.170,8 18.103 Metallo Privato
23) China Minmetals Pechino 88.357 230.1 133.441,7 199.486 Metallo Di proprietà statale
24) Dongfeng Motor Wuhan 84.049 1.328,4 71.423,3 154.641 Settore automobilistico Di proprietà statale
25) JD.com Pechino 83.505 1.763,7 37.286,1 227.730 E-commerce Pubblico.
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Fabio
Saturday, 06 March 2021 01:23
Tutte le imprese statali cinesi (comprese quelle 22):
a) sono complessivamente responsabili del 24% del PIL cinese ; il resto 76% è fatto dal privato.
b) seguono le regole del WTO e del mercato.
c) presentano al loro interno enormi dislivelli di reddito: un funzionario/manager guadagna 11 volte lo stipendio di un impiegato
d) servono le imprese private (per lo più straniere) che sfruttano la manodopera nelle "zone economiche speciali"
c) servono le imprese cinesi nei paesi vicini o in Africa dove la manodopera costa il 40% in meno di quella cinese; e dove fanno "land grabbing" e depredano delle preziose materie prime.
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Eli Friedman
Friday, 05 March 2021 21:24
Da McDonald’s a Ferrari a Gucci, tutte le grandi multinazionali sono ben in vista in tutti i principali nuclei urbani cinesi. La Cina aderisce alla WTO; il governo cinese dichiara ad ogni occasione che quella cinese è un’economia di mercato. Il consumismo sfacciato o l’adulazione per i “geniali capitani d’impresa”, da Steve Jobs a Jack Ma, sono espressioni culturali ormai conclamate in Cina.
Lo sfruttamento dei lavoratori cinesi in fabbriche che producono di tutto, dai telefoni cellulari e dalle automobili fino alle attrezzature mediche, agli indumenti e ai mobili, ha arricchito le aziende sia nazionali che estere, determinando un boom delle esportazioni che non ha precedenti. Giganti della tecnologia cinese come Tencent, Alibaba, Baidu e ByteDance mercificano le informazioni come Facebook o Twitter. Le ricorrenti bolle immobiliari e gli straordinari profitti realizzati dalle società di costruzione sono un segno del fatto che l’edilizia abitativa viene prodotta in funzione del mercato. In tutta una serie di settori risulta evidente che la produzione è orientata in primo luogo a generare profitti piuttosto che a soddisfare i bisogni umani. La categoria del lavoratore migrante è composta in Cina da quasi trecento milioni di persone che vivono al di fuori del luogo di registrazione ufficiale della propria residenza (hukou); rappresenta una forza lavoro gigantesca ed è la spina dorsale della trasformazione industriale della Cina. Una volta che un lavoratore migrante lascia il luogo di registrazione della propria residenza rinuncia a qualsiasi diritto di riproduzione sovvenzionato dallo Stato, diventando di fatto un cittadino di seconda classe all’interno del proprio paese. È evidente che l’unica ragione per cui centinaia di milioni di persone fanno questa scelta è che non sono in grado di sopravvivere nelle aree rurali impoverite da cui provengono, e per questo vengono spinte dalle forze di mercato a cercare lavoro nei centri urbani. I lavoratori senza contratto non godono di tutele legali e ciò rende estremamente difficile contrastare le violazioni dei diritti dei lavoratori. Inoltre, la previdenza sociale, che comprende l’assicurazione sanitaria, le pensioni, l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, la disoccupazione e l’”assegno di nascita “, dipende dal datore di lavoro. Essere relegati al lavoro informale produce altre forme di esclusione e di dipendenza dal mercato per le persone che vivono al di fuori della loro area di registrazione hukou. La situazione per i proletari urbani che lavorano nello stesso luogo della loro registrazione hukou è un po’ diversa, e certamente migliore dal punto di vista materiale. Riusciranno a ottenere l’accesso alla scuola pubblica, forse anche a qualche sussidio per l’alloggio, ed è molto più probabile che ottengano un contratto di lavoro vincolante dal punto di vista legale. Le prestazioni sociali in Cina non sono generose, e la spesa sociale come quota del PIL è molto al di sotto della media dell’OCSE, ma i residenti urbani hanno maggiori possibilità di accedervi. Il sistema è caratterizzato da profonde disuguaglianze di classe e regionali, nonché da problemi fiscali. Di conseguenza, non vi è dubbio che anche questi gruppi relativamente privilegiati debbano rendersi utili al capitale per garantirsi un’adeguata assistenza sanitaria, un alloggio decente o una pensione sicura. Il programma di sussistenza denominato Dibao non è sufficiente, né mira a sostenere la riproduzione a un livello socialmente accettabile.

Nel 1982, proprio mentre la Repubblica Popolare Cinese stava avviando la propria transizione capitalistica, Deng Xiaoping ha deciso di eliminare il diritto di sciopero dalla costituzione. A questa restrizione dei diritti dei lavoratori si è aggiunto per loro il divieto permanente di auto-organizzarsi. L’unico sindacato legale è la Federazione dei Sindacati di tutta la Cina, un’organizzazione esplicitamente subordinata al PCC e implicitamente subordinata al capitale. Sono innumerevoli i casi in cui la polizia o bande di gangster patrocinate dallo stato hanno usato metodi violenti per reprimere gli scioperi. Ma un esempio particolarmente eloquente è stato quello della repressione con la violenza, da parte della polizia, dello sciopero di 40.000 lavoratori nella fabbrica di scarpe di Yue Yuen, di proprietà taiwanese: la portata storica del fatto che le forze antisommossa della Repubblica Popolare Cinese siano intervenute a sostegno dei padroni taiwanesi non è sfuggita ai lavoratori. Se uno sciopero pone con eleganza la domanda: “Da che parte stai?”, lo Stato cinese ha fornito con sufficiente chiarezza la propria risposta. La violenza di stato è stata impiegata anche per la sorveglianza e la repressione dei lavoratori informali nello spazio pubblico urbano. L’odiata “chengguan” – una forza di polizia paramilitare creata nel 1997 con lo scopo di far rispettare norme di natura non penale – ha applicato in moltissime occasioni metodi brutalmente coercitivi per allontanare dalla strada i venditori ambulanti e gli altri lavoratori informali. La brutalità sistematica della polizia ha generato una profonda e diffusa ostilità tra i lavoratori informali del paese, e le sommosse anti-chengguan sono molto diffuse. L’esempio forse più spettacolare e violento è stato quello dei lavoratori migranti di Zengcheng, Guangdong, scesi in strada in massa nel 2011 quando si è diffusa la voce che una donna incinta aveva avuto un aborto spontaneo dopo essere stata aggredita durante un’operazione della chengguan. Dopo giorni di disordini generalizzati, l’esercito ha represso l’insurrezione con la violenza.

La stupefacente concentrazione di multimiliardari nel Congresso Nazionale del Popolo e nel Congresso Consultivo Politico del Popolo Cinese è indicativa di come il potere politico del capitale sia stato formalizzato: nel 2018, i 153 membri più ricchi di questi due organi del governo centrale avevano una ricchezza complessiva stimata pari a 650 miliardi di dollari. Gli organi legislativi hanno puntato a integrare nelle loro fila persone che hanno accumulato miliardi nel settore privato, come Pony Ma, che guida Tencent, il gigante di internet. Ma l’intercambiabilità tra potere economico e politico funziona anche nell’altra direzione: la famiglia di Wen Jiabao (l’ex premier) ha fatto leva sui propri agganci politici per accumulare una ricchezza personale stimata in 2,7 miliardi di dollari. Nella Repubblica Popolare Cinese del 21° secolo il capitale genera potere politico così come il potere politico genera capitale.

Le imprese statali cinesi sono responsabili del 23-28% del PIL, un contributo che per il mondo di oggi è sicuramente elevato. Ma il dirigismo non è affatto una novità per il capitalismo, essendosi manifestato non solo nella sua nativa Francia, ma anche in una nutrita serie di paesi fascisti, nell’India post-indipendenza e persino a Taiwan, controllata dal KMT (Guomindang), dove già negli anni ‘80 le imprese statali generavano quasi un quarto del PIL del paese. Gli interventi statali orientati a migliorare l’efficienza, la redditività e il grado di affidabilità non sono antitetici al capitalismo, bensì una sua componente necessaria.

Chi detiene un hukou rurale ha diritto a un appezzamento di terreno, anche se, come dimostra la migrazione in massa da campagna alle città, raramente è di quantità o di qualità sufficiente per sostenere la riproduzione sociale. L’espansione delle aree urbane ha portato a una massiccia espropriazione dei contadini. Così come i lavoratori delle aziende di Stato, anche i contadini hanno scarse possibilità di esercitare un controllo sulle terre di loro spettanza che sono (nominalmente) di proprietà collettiva, e sono i capi dei villaggi i soli ad avere diritto di parola. La conseguenza è stata quella di cicli interminabili di espropriazione della terra in cui i contadini ricevono generalmente una frazione del suo valore di mercato, mentre i dirigenti e gli imprenditori immobiliari incassano profitti. Infine, per quanto riguarda coloro che ancora hanno terreni rurali, l’agricoltura in Cina ha subito una profonda trasformazione capitalistica in seguito al consolidamento dei diritti d’uso della terra da parte delle grandi aziende agricole e alla mercificazione di vari fattori di produzione. Il fatto che la terra sia formalmente gestita collettivamente ha fatto ben poco per ostacolare tali processi.

Non mi dilungo sul neocolonialismo cinese nei paesi limitrofi e in Africa, perchè dovrei scrivere troppo, ma chiunque può informarsi (soprattutto sui giornali e siti di sinistra e comunisti indipendenti di tutto il mondo)

La tesi del partito al potere secondo cui la Cina sarebbe socialista è semplicemente confutata dalla realtà.

Le parole scritte da Marx nell’”Ideologia tedesca” suonano ancora oggi attuali: “Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Per quanto l’idea che una superpotenza emergente costruirà il mondo che vogliamo possa sembrare ad alcuni confortante, si tratta solo di un’illusione. Dovremo costruirlo noi stessi per conto nostro.
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Daniele
Thursday, 04 March 2021 21:39
L'annuncio di Xi: "Eliminata la povertà estrema, è un miracolo umano"
Il presidente cinese: "Nessun altro Paese è in grado di sollevare centinaia di milioni di persone dalla povertà in così poco tempo"


Xi Jinping
AGI - Il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che la Cina è riuscita nel "miracolo umano" di eliminare la povertà estrema. Durante una sontuosa cerimonia a Pechino, Xi ha consegnato medaglie a funzionari delle comunità rurali, alcuni dei quali negli abiti tradizionali delle minoranze etniche, e ha promesso di condividere "l'esempio cinese" con altre nazioni in via di sviluppo.


"Nessun altro Paese è in grado di sollevare centinaia di milioni di persone dalla povertà in così poco tempo", ha detto Xi, "è stato fatto un miracolo umano che passerà alla storia". Xi nel 2015 aveva promesso di sradicare la povertà estrema entro il 2020, con l'obiettivo di costruire una società "moderatamente prospera". Un obiettivo, secondo Pechino, raggiunto lo scorso anno, quando tutta la popolazione cinese avrebbe superato la soglia di povertà di 2,30 dollari al giorno. Xi ha investito miliardi di yuan in progetti infrastrutturali e offerto incentivi fiscali e sussidi per risollevare le comunità rurali.

Dalle aperture all'economia di mercato degli anni '70, secondo la Banca Mondiale, oltre 800 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà estrema, dopo decenni nei quali l'economia era stata devastata dalla pianificazione centrale e dalle politiche maoiste. Da allora lo standard di vita cinese ha avuto enormi miglioramenti, con la formazione di una classe media di consumatori composta da centinaia di migliaia di persone.
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AlsOb
Friday, 05 March 2021 10:48
"dopo decenni nei quali l'economia era stata devastata dalla pianificazione centrale e dalle politiche maoiste."
Solo nella superstizione e pregiudizio di amatori della domenica vi sarebbero stati decenni di devastazione a causa di Mao Zedong e pianificazione.
Al contrario proprio per la pianificazione e successo delle politiche di Mao hanno potuto incrementare l'accumulazione, che non spunta dal nulla o da una fantomatica e ideologica economia di mercato. (Si veda adesso come accade l'azione per produrre semiconduttori).
Quanto alle valutazioni della Banca Mondiale
sulla riduzione della fame nel mondo, (e è già un poco sospetto che tale ente abbia acquisito il monopolio istituzionale e politico in tale ambito e materia), appaionoo un poco curiose le sue declamazioni, sia per il fatto che le politiche seguite dalla Cina sono diametralmente opposte a quelle neoliberali e imperialistiche da lei proposte e attuate- e perciò ogni diminuzione della fame è avvenuta nonostante la banca, e sia per avere aggiustato in modo conveniente la soglia della povertà inizialmente definita, altrimenti probabilmente i progressi nel resto del mondo non sarebbero molto visibili e scarsi o nulli i motivi di autoincensamento
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Anna
Wednesday, 03 March 2021 16:37
Al di là della veridicità o meno delle informazioni fornite, la questione che mi sembra più preoccupante è il pensiero che questo articolo supporta. Chiunque abbia solo un’infarinatura teoretica capisce che qui siamo agli antipodi, non solo del pensiero di Marx, ma di qualsivoglia variante di materialismo storico. Vi è la negazione che la “società civile”, ovvero le classi sociali e la loro lotta, siano il motore principale dell’evoluzione storica; e al posto della lotta di classe viene innalzata la statolatria, il mito del ruolo demiurgico dello Stato. E’ questo che succede quando Marx viene sostituito con Carl Schmitt o Halford Mackinder. In vece della lotta di classe, vi è la lotta tra Stati. E così, in nome (o con la scusa?) dell’anti occidentalismo, sostituendo (nel ruolo di motore della storia) la lotta di classe con la dottrina della Geopolitica, si avalla la totale negazione dei diritti sociali e civili notoriamente perseguita dalla Cina. E non si comprende che i profitti della Apple o di un altro marchio occidentale e l’accessibilità del costo di un portatile, di un telefonino o di un indumento, tutto ciò è intrecciato con, e permesso da, quella stessa politica di negazione dei diritti sociali e civili. Essendo tutto ciò lapalissiano, viene da pensare che il vero bersaglio di certa propaganda siano i secondi, i diritti civili. Ma il pensiero reazionario è intrinsecamente mistificatorio: lo sfruttamento sociale ha sempre fatto leva sulle discriminazioni civili; le conquiste civili sono anche e sempre conquiste sociali.
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Mario Galati
Friday, 05 March 2021 15:59
Secondo l'"infarinatura teoretica" del marxismo e del materialismo storico à la carte che emerge dal commento, la classe lavoratrice, per prendere o detenere il potere politico, deve aspettare di essere già divenuta la classe dominante nella società civile, ossia, che esistano già, perché maturati chissà come, rapporti di produzione socialisti. Campa cavallo. Marx e il marxismo, la teoria della rivoluzione, sono in buone mani. Che quel piccolo e insignificante partito comunista di cento milioni di iscritti, che ha fatto la rivoluzione anticoloniale e socialista e guida il più popoloso paese della terra prenda appunti.
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Alessandro
Thursday, 04 March 2021 19:35
Giusto per capire. Quali sarebbero per te oggi i veri interpreti del marxismo?
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Daniele
Wednesday, 03 March 2021 18:10
Spostamento del centro di gravità mondiale
Karl Marx (1850)
Pubblicato nella Neue Rheinische Zeitung, Politisch-Ökonomische Revue, il 2 Febbraio 1850
Trascritto per il MIA da Stella Rossa, Dicembre 2007

Andiamo ora ad occuparci dell'America, dov'è accaduto qualcosa di più importante della rivoluzione di Febbraio (1848): la scoperta delle miniere d'oro in California. Sebbene siano passati appena diciotto mesi, è già possibile prevedere che tale avvenimento avrà effetti più sconvolgenti della scoperta stessa dell'America.
Per trecentotrenta anni tutto il commercio diretto nel Pacifico era stato condotto con commovente e sofferta pazienza, attorno a Capo di Buona Speranza o da Capo Horn. Tutti i progetti di praticare un'apertura nell'istmo di Panama erano falliti a causa delle rivalità e delle invidie meschine tra le Nazioni commercianti. Diciotto mesi dopo la scoperta delle miniere d'oro in California, gli yankies avevano già cominciato a costruire una ferrovia, una grande strada e un canale sul Golfo del Messico. E già esiste una linea regolare di battelli a vapore da New York a Chagres, da Panama a San Francisco, mentre il commercio con il Pacifico si sta concentrando su Panama, rendendo obsoleta la rotta di capo Horn. Il vasto litorale della California, a 30 gradi di latitudine, uno dei più belli e più fertili del mondo, quasi disabitato, si sta rapidamente per trasformare in un ricco Paese civilizzato, densamente popolato da uomini di tutte le razze, yankies e cinesi, negri, indio e mulatti, creoli e meticci, europei. L'oro californiano scorre abbondante per l'America e lungo la costa asiatica del Pacifico, e sta spingendo i riluttanti barbari al commercio mondiale e alla civilizzazione.
Per la seconda volta il commercio mondiale cambia direzione. Quello che erano nell'antichità Cartagine, Tiro, Alessandria, nel Medio Evo Genova e Venezia, e attualmente Londra e Liverpool, cioè gli empori del commercio mondiale, saranno nel futuro New York e San Francisco, San Giovanni del Nicaragua, e Leon, Chagres e Panamà. Il centro di gravità del mercato mondiale era l'Italia nel medioevo, l'Inghilterra nell'era moderna, ed è la parte meridionale della penisola Nord-Americana oggi.

L'industria e il commercio della vecchia Europa dovranno fare sforzi terribili per non cadere in decadenza, come accadde con l'industria e il commercio dell'Italia nel sedicesimo secolo - questo se l'Inghilterra e la Francia non vogliono trasformarsi in quelle che oggi sono Venezia, Genova e l'Olanda. Tra qualche anno avremo una regolare linea di trasporto a vapore dall'Inghilterra a Chagres, da Chagres e San Francisco a Sidney, Canton e Singapore.

Grazie all'oro californiano e all'inesauribile energia degli Yankies, i due lati del Pacifico saranno in breve tempo tanto popolati e tanto attivi nel commercio e nell'industria quanto la costa da Boston a New Orleans. L'oceano Pacifico svolgerà nel futuro lo stesso ruolo che ha svolto l'Atlantico nella nostra era, e che era del Mediterraneo nell'antichità: una grande via marittima del commercio mondiale, e l'Atlantico sarà al livello di un mare interno, come oggi è il caso del mediterraneo.

L'unica probabilità che hanno i Paesi civilizzati dell'Europa di non cadere nella stessa dipendenza industriale commerciale e politica di Italia, Spagna e Portogallo è di iniziare una rivoluzione sociale che, finchè è in tempo, riesca ad adeguare l'economia alla distribuzione secondo le esigenze della produzione e delle capacità produttive moderne, e permetta lo sviluppo di nuove forze produttive che assicurino la superiorità dell'industria europea, compensando così gli inconvenienti della sua localizzazione geografica.

Infine, una curiosità caratteristica della Cina, raccontata dal noto missionario tedesco Gutzlaff. Una eccessiva popolazione e una crescita lenta ma regolare, avevano provocato, già alcuni anni fa, una violenta tensione delle relazioni sociali della maggior parte della nazione. In seguito arrivarono gli inglesi, per forzare l'apertura di cinque porti al libero commercio. Migliaia di navi inglesi e americane virarono per la Cina, che in poco tempo fu inondata da prodotti inglesi e americani a basso costo. L'industria cinese, essenzialmente la manifattura, soccombeva alla concorrenza della meccanizzazione. L'imperturbabile impero soffriva una crisi sociale. Le imposte smisero di entrare, e lo stato si trovò sull'orlo del fallimento, la grande massa della popolazione conobbe la povertà completa e si ribellò. Posta una fine alla venerazione dei mandarini dell'imperatore e dei bonzi, ora li perseguitava e li uccideva. Oggi il paese sta sull'orlo dell'abisso e forse sotto la minaccia di una rivoluzione violenta.

Ma ancora. Nel seno della plebe insorta, alcuni denunciavano la miseria degli uni e la ricchezza degli altri, esigendo una nuova ripartizione dei beni e contemporaneamente la soppressione totale della proprietà privata- e tutt'oggi continuano a formulare tali rivendicazioni. Quando, dopo venti anni di assenza, il signor Gutzlaff tornò a contatto con i civilizzati e gli europei, e sentì parlare di socialismo, esclamò terrorizzato: “Dunque non avrò scampo in nessun posto da questa pericolosa dottrina? Da qualche anno è esattamente questo, ciò che predica la plebaglia cinese!".

Può darsi che il socialismo cinese assomigli a quello europeo come la filosofia cinese all'hegelismo. Ma qualunque sia la sua forma, possiamo rallegrarci del fatto che l'impero più antico e solido del mondo in otto anni sia stato condotto dalle balle di cotone della borghesia inglese ad una imminente convulsione sociale che in qualsiasi caso, dovrà avere enormi conseguenze per la civilizzazione. E, quando i reazionari europei, nella loro imminente fuga verso l'Asia, giungeranno dinnanzi alla Grande muraglia cinese, alle porte della roccaforte della reazione e del conservatorismo, chissà che lì non si trovino a leggere:

Repubblica Cinese
Libertà, Uguaglianza, Fraternità
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Anna
Wednesday, 03 March 2021 22:14
Si, infatti. I principi del 1789, libertà, uguaglianza e fraternità come è noto sono negati da Pechino (negati anche formalmente, a differenza dell’Occidente). Sono sostituiti con un ibrido di “legismo”, Schmitt, nazionalismo etnicista, liberismo autoritario con tanto di “zone economiche speciali”, neocolonialismo etc. E’ il costo della riproduzione capitalistica che permette non solo l’arricchimento della borghesia cinese (burocratica o privata non importa), in connubio con quelle occidentali, ma permette anche lo “sviluppo” della Cina e permette infine l’accessibilità del costo del portatile che sto usando in questi istanti. Ma, per ogni frase che ho scritto in questi istanti e con questi tasti, un Mingong o un Uiguro ha perso 5 anni di vita; un omosessuale cinese è stato “rieducato”; uno scioperante cinese è stato incarcerato; e un bambino congolese per tutta la sua infanzia estrarrà coltan, per conto dei sui datori di lavoro cinesi, al posto di studiare e giocare.
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Mario Galati
Friday, 05 March 2021 15:45
Vogliamo pure aggiungere che i comunisti cinesi, dopo averli sfruttati con il lavoro, i bambini se li mangiano?
E perché non pubblicare anche la foto circolata su internet di quello stadio opportunamente coperto e convertito a campo di concentramento per gli uiguri?
Non l'hanno capito i civili occidentali che con i cinesi bisogna andare giù duro e non farsi i riguardi che invece permeano tutto il commento che precede? Con i musi gialli è inutile parlare fraternamente, liberamente e su di un piano paritario. Tutta la nostra fraternità, libertà e uguaglianza con loro è sprecata. Invece, con gli indonesiani, per es., negli anni '60 è andata a buon fine. In Vietnam ci siamo sforzati fino in fondo, ma anche i vietnamiti... popolo di dura cervice.
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AlsOb
Tuesday, 02 March 2021 23:36
Nap da fuoco al napalm contro la Cina, accusandola di sventrare l'Africa e praticare un tasso d'interesse troppo basso. Le pseudo argomentazioni portate, prive di logica finanziaria e economica, rappresentano solo malintesi sentimentalismi e infantili pregiudizi, che riflettono prevalentemente le narrazioni imperialistiche. E tra parentesi non esiste uno stato che sia andato in default per debito verso la Cina.

Paolo Selmi, citando un passo del mio post, svolge una animata critica contro l'imperialismo, su cui in generale non si può che concordare. Tuttavia, non percebendo il senso differenziale della mia osservazione, rischia di creare equivoci, per cadere nella superflua generalizzazione della tipica situazione in cui al buio tutte le vacche sono grigie.
Pur senza introdurre dettagli tecnici, si dovrebbe tenere conto che l'imperialismo dominante, da molto tempo, è di carattere finanziario e monetario, e la Cina stessa deve affrontarlo e a esso deve adattarsi, pertanto la sua azione a livello internazionale, quando anche solo interpretata per promuovere i propri interessi, sopporta delle limitazioni.
Dal 2018 si è poi scatenata una faziosa campagna contro la Cina per il fatto di avere raggiunto uno sviluppo economico e tecnologico non auspicato né desiderato dalle tradizionali potenze imperialistiche. Non a caso ha subito una guerra economica giustificata soprattutto da pretesti, con gravi conseguenze finanziarie su alcune delle sue maggiori imprese.

Daniele giustamente rileva il notevole successo delle politiche economiche cinesi nel far crescere il reddito e sconfiggere la povertà.
Ma la principale caratteristica della politica cinese e la sua unicità nel panorama internazionale, dominato, specie a partire da metà anni settanta, dall'imperialismo del dogma neoliberale e dalla pseudometafisica economica antiscientifica neoclassica, è da rilevarsi nel suo rifiuto di quelle pseudometafisiche, per rimanere a suo modo fedele a Mao e al gradualismo, così da impostare una accumulazione in cui irrevocabili elementi di pianificazione e progressismo fungono da stabilizzatori e garanzia della realizzazione dei programmi e obiettivi.
Il neoliberismo e pseudometafisica fondati sull'ideologismo e praticati dal resto del mondo occidentale [code type="xml"]hanno invece portato al capitalismo predatorio del capitale e moneta fittizi, non poco squilibrato.
Il modello di accumulazione cinese appare superiore, per avere raggiunto un notevole livello e successo produttivo e competitivo; ciò è pure un fattore da indurre i paesi capitalistici, affidatisi all'ideologismo e pseudometafisica del mercato per troppo tempo, a recuperare scientificamente il concetto di accumulazione capitalistica e elementi di pianificazione, sebbene in un contesto di corporativismo fascista e di più accentuato imperialismo guerrafondaio
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daniele
Tuesday, 02 March 2021 07:42
【In altre parole】 Prosegue l’impegno cinese contro la povertà ed il sottosviluppo
Che la lotta alla povertà fosse una priorità del governo cinese, lo si è capito dagli sforzi messi in campo per rendere la Cina una società moderatamente prospera ed eradicare le ultime sacche di indigenza anche dalle province più remote e meno sviluppate.

A dire il vero è un obbiettivo di lungo corso che generazioni di leader si sono passati come un testimone, segnando le tappe fondamentali di questa lunga marcia contro la povertà ed il sottosviluppo. In Cina, ricordava il filosofo Domenico Losurdo, siamo in presenza di due treni che si muovono dalla stazione chiamata “sottosviluppo” verso quella chiamata “sviluppo”. I treni hanno diversa velocità, metafora per raffigurare il diverso progresso delle zone costiere e delle aree interne. Però a differenza dell’Occidente, chiosava lo studioso, entrambe avanzano verso lo stesso obiettivo e gli sforzi messi in campo per accrescere la velocità del treno più lento, aiutano a ridurre la distanza relativa tra i due convogli.

È questa metafora, ascoltata durante un viaggio in Cina diversi anni fa, che mi è venuta in mente quando ho letto dell’ispezione compiuta ad inizio mese dai massimi vertici del governo cinese a Guizhou, provincia sud-occidentale caratterizzata da una bellezza paesaggistica unica, ma ancora relativamente povera se paragonata alle rampanti province della costa. Sebbene nel 2020 la Cina abbia raggiunto l’obbiettivo dell’eliminazione della povertà estrema, contribuendo in maniera significativa al raggiungimento degli obbiettivi Onu nella lotta alla povertà mondiale, il gruppo dirigente del Partito Comunista è tornato a visitare le zone più remote e dove vive una nutrita rappresentanza di minoranze etniche, per approfondire il processo di sviluppo e ridurre per questa via i divari regionali, urbano-rurali, di reddito e di accesso ai servizi.

È la strategia del “people first”, l’essere umano al primo posto, ed uno sviluppo incentrato sui bisogni delle persone, pivot delle decisioni assunte al 19° Congresso e leva per la modernizzazione socialista. Ed è lo spirito ribadito nel corso della Conferenza nazionale di sintesi e di encomio sull’alleviamento della povertà, tenuto a Pechino gli scorsi giorni e nel corso del quale sono stati premiati uomini e donne che più di tutti si sono spesi in prima linea nella battaglia contro la povertà. Il presidente cinese, nel ricordare il grande numero dei quadri di partito che hanno dedicato disinteressatamente i loro anni più belli alla causa della riduzione della povertà, ha messo in luce come sia proprio la temperie della storia a forgiare gli eroi e che la grandezza umana viene alla luce nell’adempimento dei propri compiti quotidiani. In questo lavoro i quadri del Pcc hanno vivificato gli ideali e messo in luce la missione originale dei comunisti.

La povertà non si vince, questo è il messaggio del governo cinese, solo con gli investimenti ed i sussidi, ma ha bisogno di una politica coordinata che consolidi risultati e trasferisca sviluppo a tutti gli angoli del paese. Facendo questo, si rafforzano le opportunità di cooperazione multilaterale che permettono anche ad altre aree del mondo di vincere la propria sfida contro povertà e sottosviluppo. Una Cina prospera è condizione fondamentale per un maggiore ruolo proattivo nella “cooperazione Sud-Sud” e per una collaborazione politica e tecnologica con l’Occidente, capace di garantire per questa via una governance globale atta ad affrontare le sfide attuali, a partire dalla lotta alla pandemia.

A maggio 2018 ho avuto la fortuna di partecipare alle celebrazioni per il quarantesimo anniversario del varo della politica di riforme ed apertura. Viaggiando da Shenzhen fino al villaggio di Xiaogang ho potuto constatare come le politiche avviate nel 1979 abbiano accelerato il processo di eradicazione della povertà, disegnando non solo lo skyline di nuove attraenti moderne città, ma la fisionomia di una straordinaria lotta emancipatrice contro il sottosviluppo e la miseria. Shenzhen, con la sua posizione immediatamente a nord di Hong Kong, è diventata la città dove per eccellenza si è sperimentata la politica di apertura e, da villaggio di pescatori, si è trasformata nell’incubatrice della silicon valley cinese, diventando oggi uno dei poli mondiali dell’innovazione tecnologica. Xiaogang è rimasto invece un villaggio, ma la sua fisionomia si è completamente trasformata e, con essa, la vita dei suoi abitanti. È in questo borgo della provincia dell’Anhui che vanno invece rintracciate le radici della politica di riforma cinese, diventando il luogo di nascita (ed assieme) il simbolo della riforma rurale.

Questo dimostra come il piano di fuoriuscita dalla povertà sia plasmato a partire da misure mirate che tengono conto delle diverse realtà locali ed il conseguimento di questo obbiettivo storico rappresenta un bel modo per celebrare il centesimo anniversario di fondazione del PCC. E questo è un punto centrale di tutta la vicenda: il successo nella lotta alla povertà non va inquadrato solo da un punto di vista ammnistrativo e di capacità di governo (pur importante), ma è un punto politico strategico. Come è stato ribadito nel corso della Conferenza sulla lotta alla povertà, questo traguardo “non è il punto di arrivo ma il punto di partenza per una nuova vita ed una nuova lotta”.

Ho iniziato questo articolo ricordando la metafora dei due treni, diretti verso lo sviluppo, che viaggiano a diversa velocità. Una caratteristica fondamentale di questo viaggio che coinvolge la popolazione cinese è che il treno più lento salta alcune stazioni proprio per poter accelerare la sua corsa. Un cittadino che vive in una zona rurale, da cui ci si è appena affrancati dalla povertà estrema, non dovrà attendere lo stesso numero di anni degli abitanti della costa per eguagliarne il loro tenore di vita. Nel frattempo infatti l’innovazione tecnologica viene impiegata per accrescere la corsa del treno più lento verso lo sviluppo. È il caso, per fare un esempio, dell’estensione della banda larga ad oltre il 98% dei villaggi cinesi, un tempo poveri: dal 2015 il governo centrale e gli operatori di telecomunicazioni hanno investito oltre 60 miliardi di yuan (9,28 miliardi di dollari) nella costruzione della rete in fibra ottica in 43.000 villaggi che erano afflitti dalla povertà e per la costruzione di stazioni 4G in più di 9.200 villaggi un tempo poveri. Questo non solo ha permesso la nascita di vere e proprie star del web, come è il caso dei contadini che vendono i propri prodotti direttamente facendo le live-streaming, ma di costruire vie nuove per accelerare la corsa allo sviluppo.

Anche così si vince la battaglia contro la povertà e si lancia il treno e tutta velocità verso lo sviluppo ed il benessere.
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Alessandro
Monday, 01 March 2021 18:15
Curioso che quelli che a sinistra criticano e accusano la Cina di non aver realizzato ancora il programma massimo del comunismo, non spendano mai una parola per criticare, allo stesso modo, le fallimentari esperienze di governo della sinistra in Occidente che, a differenza dei comunisti cinesi, la rivoluzione non l'ha mai fatta e nemmeno ci è arrivata vicino.
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Daniele
Monday, 01 March 2021 14:24
MEGLIO MENO MA MEGLIO.
Vladimir Lenin (1923)

[…] Ci troviamo così, nel momento attuale, davanti alla domanda: saremo noi in grado di resistere con la nostra piccola e piccolissima produzione contadina, nelle nostre condizioni disastrose, fino a che i paesi capitalistici dell'Europa occidentale non avranno compiuto il loro sviluppo verso il socialismo? Ed essi tuttavia non lo compiono come ci attendevamo. Essi lo compiono non attraverso una "maturazione" uniforme del socialismo, ma attraverso lo sfruttamento di alcuni Stati da parte di altri, attraverso lo sfruttamento del primo Stato vinto nella guerra imperialistica, unito allo sfruttamento di tutto l'Oriente. L'Oriente d'altra parte, è entrato definitivamente nel movimento rivoluzionario appunto in seguito a questa prima guerra imperialistica, ed è stato trascinato definitivamente nel turbine generale del movimento rivoluzionario mondiale.

Quale tattica prescrive dunque tale situazione per il nostro paese? Evidentemente la seguente: dobbiamo essere estremamente cauti per poter conservare il nostro potere operaio, per poter mantenere sotto la sua autorità e sotto la sua guida i nostri piccoli e piccolissimi contadini. Dalla nostra parte c'è il vantaggio che tutto il mondo sta già passando a un movimento da cui dovrà nascere la rivoluzione socialista mondiale. Ma vi è anche lo svantaggio che gli imperialisti sono riusciti a scindere tutto il mondo in due campi, e che inoltre questa scissione si complica per il fatto che la Germania, paese capitalistico effettivamente sviluppato e colto, incontra estreme difficoltà per rimettersi in piedi. Tutte le potenze capitalistiche del cosiddetto Occidente la beccano e non le permettono di rialzarsi. E d'altra parte tutto l'Oriente, con le sue centinaia di milioni di lavoratori sfruttati e ridotti all'estremo limite della sopportazione, è messo in condizioni tali che le sue forze fisiche e materiali non possono essere messe a confronto con le forze fisiche materiali e militari di uno qualsiasi degli Stati più piccoli dell'Europa occidentale.

Possiamo noi salvarci dall'incombente conflitto con questi Stati imperialistici? Possiamo noi sperare che gli antagonismi e i conflitti interni fra i floridi Stati imperialistici dell'Occidente e i floridi Stati imperialistici dell'Oriente ci diano un periodo di tregua per la seconda volta come ce l'hanno dato la prima volta, allorché la campagna della controrivoluzione dell'Europa occidentale, volta ad appoggiare la controrivoluzione russa, fallì a causa delle contraddizioni esistenti nel campo dei controrivoluzionari d'Occidente e d'Oriente, nel campo degli sfruttatori orientali e degli sfruttatori occidentali, nel campo del Giappone e dell'America?

A questa domanda, io penso, dobbiamo rispondere che la soluzione dipende qui da troppe circostanze, e che l'esito di tutta la lotta in generale può essere previsto solo considerando che, in fin dei conti, il capitalismo stesso educa e addestra alla lotta l'enorme maggioranza della popolazione del globo.

L'esito della lotta dipende, in ultima analisi, dal fatto che la Russia, l'India, la Cina, ecc. costituiscono l'enorme maggioranza della popolazione. Ed è appunto questa maggioranza che negli ultimi anni, con una rapidità mai vista, è entrata in lotta per la propria liberazione, sicché in questo senso non può sorgere ombra di dubbio sul risultato finale della lotta mondiale. In questo senso la vittoria definitiva del socialismo è senza dubbio pienamente assicurata.

Ma quel che c'interessa non è l'ineluttabilità della vittoria finale del socialismo. Ci interessa la tattica alla quale dobbiamo attenerci noi, Partito comunista russo, noi, potere sovietico della Russia, per impedire agli Stati controrivoluzionari dell'Europa occidentale di schiacciarci. Affinché ci sia possibile resistere sino al prossimo conflitto armato tra l'Occidente controrivoluzionario imperialistico e l'Oriente rivoluzionario e nazionalista, tra gli Stati più civili del mondo e gli Stati arretrati come quelli dell'Oriente, che peraltro costituiscono la maggioranza, è necessario che questa maggioranza faccia in tempo a diventare civile. Anche noi non abbiamo un grado sufficiente di civiltà per passare direttamente al socialismo, pur essendoci da noi le premesse politiche.

Dobbiamo attenerci a questa tattica oppure attuare per la nostra salvezza la politica seguente.

Ci dobbiamo sforzare di costruire uno Stato in cui gli operai mantengano la loro direzione sui contadini, godano della fiducia dei contadini e con la più grande economia eliminino dai rapporti sociali ogni traccia di sperpero.

Dobbiamo ridurre il nostro apparato statale in modo da fare la massima economia. Dobbiamo eliminare ogni traccia di quello che la Russia zarista ed il suo apparato burocratico e capitalistico ha lasciato in così larga misura in eredità al nostro apparato.

Non sarà questo il regno della grettezza contadina?

No. Se la classe operaia continuerà a dirigere i contadini, avremo la possibilità, gestendo il nostro Stato con la massima economia, di far sì che ogni più piccolo risparmio serva a sviluppare la nostra industria meccanica, a sviluppare l'elettrificazione, l'estrazione idraulica della torba, a condurre a termine la centrale elettrica del Volkhov, ecc.

Questa e solo questa è la nostra speranza. Solo allora, per dirla con una metafora, saremo in grado di passare da un cavallo all'altro, e precisamente dalla povera rozza contadina del mugik, dal ronzino dell'economia, adatto a un paese contadino rovinato, al cavallo che il proletariato cerca e non può non cercare per sé, al cavallo della grande industria meccanica, dell'elettrificazione, della centrale elettrica del Volkhov, ecc.

Ecco come nella mia mente lego il piano generale del nostro lavoro, della nostra politica, della nostra tattica, della nostra strategia con i compiti dell'ispezione operaia e contadina riorganizzata. Ecco che cosa, secondo me, giustifica le cure eccezionali, l'attenzione eccezionale che noi dobbiamo dedicare all'Ispezione operaia e contadina, ponendola su un piano eccezionalmente elevato, dandole un gruppo dirigente che abbia gli stessi diritti del Comitato centrale, ecc.

Ci giustifica il fatto che soltanto epurando al massimo il nostro apparato, riducendolo al massimo - il che è assolutamente necessario - saremo veramente in grado di resistere. Inoltre, saremo in grado di resistere non già restando al livello di un paese a piccola economia contadina, al livello di questa ristrettezza generale, ma a un livello che immancabilmente si eleverà fino alla grande industria meccanica.

Ecco quali sono gli altri compiti che vorrei affidare alla nostra Ispezione operaia e contadina. Ecco perché progetto la fusione di un autorevolissimo organismo dirigente del partito con un "semplice" Commissariato del popolo.

Lenin

2 marzo 1923
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Nap
Monday, 01 March 2021 20:57
Capisco che non si possa conoscere tutta la letteratura marxista e marxiana, ma almeno leggete quella che pubblicate. Perché altrimenti l'effetto diventa comico. Lenin, in "Meglio meno ma Meglio", sta dando bastonate una dietro l'altra alla Cina attuale :

"Essi [i paesi capitalistici] lo compiono [il loro sviluppo verso il socialismo] non attraverso una "maturazione" uniforme del socialismo, ma attraverso lo sfruttamento di alcuni Stati da parte di altri" .

"dobbiamo conservare il nostro potere operaio" etc.etc.etc.

Non è perché in quel testo Lenin auspica l'industrializzazione, che allora la Cina attuale diventa un paese socialista. Ripeto, se è questo il metro, anche l'Inghilterra vittoriana o gli Stati Uniti sono stati paesi altamente industrializzati.

Siete fantastici.. con il vostro metodo, si potrebbe far passare Hitler come un figlio dei fiori... d'altronde anche Hitler avrà detto o scritto da qualche parte "peace" e da qualche altra parte "love".
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Mario Galati
Tuesday, 02 March 2021 15:59
Aristotele acutamente aveva detto che la tirannia in Atene era la forma attraverso cui i poveri facevano valere le loro esigenze, a differenza della democrazia che era la forma del potere dell'oligarchia ricca. Il partito comunista cinese e il suo potere all'interno di quel sistema statale sono la forma attraverso cui i lavoratori fanno valere i loro interessi; ma non solo quelli immediati (salario, uscita dalla povertà, ecc.), ma anche quelli mediati, del mantenimento del loro potere politico e della costruzione, in prospettiva, del socialismo. Gramsci faceva notare che la classe operaia esce dalla fase economico-corporativa e diviene classe per se quando capisce la sua funzione storica ed è capace di sacrificare i suoi interessi immediati a favore della prospettiva della costruzione della sua società. Nella Russia post rivoluzionaria, notava Gramsci, l'operaio, pur avendo il potere politico, sta in condizioni economiche di ristrettezza ed è costretto a sopportare il nepman impellicciato; eppure sa che questa fase transitoria è necessaria. Questa era la prova della sua maturità politica.
La Cina sta attraversando e determinando una fase storica che non ha soltanto un valore interno ad essa, ma ha un valore anche per la causa del socialismo nel mondo capitalistico occidentale. Infatti, realizzando la cosiddetta Grande Convergenza, ossia, annullando lo scarto tecnologico e produttivo con l'occidente e chiudendo l'era colombiana (un fatto epocale) e colonialistica, pone le basi (produttive e anche, conseguentemente, politiche e sociali), non solo per la realizzazione del socialismo in Cina, ma anche in occidente. Privando, infatti l'occidente del monopolio e della rendita derivanti dalla sua superiorità scientifica, tecnologica, produttiva e, in definitiva, coloniale o neocoloniale, la Cina sta privando delle sue basi economiche anche l'opportunismo dei lavoratori occidentali (riformisti, socialdemocratici), in tutte le sue forme, collaborazionista col capitale. Dunque è un aiuto alla causa del socialismo anche per noi.
Se non si guarda alla processualità ed ai tempi storici e si ragiona con l'immediatezza, ci sembrerà di usare categorie marxiane o marxiste mentre le calpestiamo. Lo scritto di Lenin tiene conto della processualitá, della necessità di creare le basi produttive per il socialismo, del rapporto con il resto del mondo più sviluppato e potente, ecc. Seppure in condizioni diverse, mi sembra molto poco comica l'analogia con ciò che è in atto in Cina.
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Mario Galati
Tuesday, 02 March 2021 16:20
E poi, farsi andare a paragoni, seppure sotto forma di battuta, tra Hitler e il partito comunista cinese è poco nobile, se vogliamo usare un'espressione litotica; è ignobile, se vogliamo esprimerci senza veli.
Significa mettere nello stesso sacco la belva imperialistica capitalistica e i suoi più strenui nemici e avversari. Ma si vede che la propaganda anticomunista ha lavorato bene.
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Mario Galati
Tuesday, 02 March 2021 16:08
E poi, farsi andare a paragoni, seppure sotto forma di battuta, tra Hitler e il partito comunista cinese è poco nobile, se vogliamo usare un'espressione litotica; è ignobile, se vogliamo esprimerci senza veli.
Significa mettere nello stesso sacco la belva imperialistica capitalistica e i suoi più strenui nemici e avversari. Ma si vede che la propaganda anticomunista ha lavorato bene.
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Mario Galati
Monday, 01 March 2021 15:47
Ma chi è questo Lenin? Un antimarxista, anzi un antileninista? Ma qui, invece di parlare di abolizione della dannazione del salario, di comuni produttive, ecc., si parla di grande industria meccanica, elettrificazione, di elevare la produzione e la sua organizzazione, di ispezione operaia (è forse una forma di ciò che fa il rinnegato partito comunista cinese in ogni fabbrica capitalistica?), di inesistenza, altrimenti, delle condizioni per costruire una società socialista (ma non è qualcosa di simile a quella affermata dai rinnegati cinesi?), di spostamento dell'asse mondiale ad est ma a condizione che le masse orientali sappiano elevarsi produttivamente e rompere la dipendenza.
Ma io non li capisco Burgio, Sidoli e Leoni: prima esaltano il partito comunista e poi pubblicano gli scritti di questo rinnegato, Lenin (ma chi è?).
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Nap
Monday, 01 March 2021 13:17
La Cina sta occupando l’intero continente africano con una politica fatta di prestiti a tassi bassissimi con il fine di conquistare tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali. L’Africa è stata sventrata per l’estrazione di diamanti e oro e gigantesche miniere cinesi pullulano di nuovi schiavi, con centinaia di migliaia di minorenni a partire dai sette anni, che lavorano per 12 ore al giorno a 2 dollari e che estraggono minerali preziosi in condizioni disperate per datori di lavoro cinesi. Pechino negli ultimi anni ha superato Washington quale principale partner commerciale in Africa: il commercio della Cina ha raddoppiato quello degli USA, che sono così stati relegati al terzo posto, dopo la Cina e l’Unione europea. Come afferma lo scrittore congolese Mbuyi Kabunda, “l’Africa è diventata il nuovo oro per la Cina.” i cinesi detengono ormai più del 65% dei contratti di infrastrutture e amministrano le grandi imprese minerarie, petrolifere, di telecomunicazioni ed energetiche in gran parte dei paesi africani. Nel solo 2016 gli investimenti diretti non finanziari delle imprese cinesi in Africa sono cresciuti a un ritmo del 31%. Lamido Lanusi, il governatore della Banca Centrale della Nigeria, in un’intervista al Financial Times ha dichiarato: “La Cina si impadronisce delle nostre materie prime e ci vende prodotti finiti (…) Questa è proprio l’essenza del colonialismo. L’Africa sta spalancando le sue porte a nuove forme di imperialismo (…) La Cina, per esempio, ormai non è più una economia sorella del mondo sottosviluppato ma è la seconda economia più forte del mondo, un gigante capace di esprimere le stesse forme di sfruttamento che ha adottato l’Occidente nel passato… servono scelte coraggiose, dobbiamo produrre in Africa e allo stesso tempo respingere importazioni cinesi frutto di politiche predatorie” (fonte : “I coloni dell'austerity: Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”)
Ma, per carità, tutto ciò nel nome di Marx, ci mancherebbe..
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Nap
Monday, 01 March 2021 14:24
Un altro indice del chiarissimo comunismo cinese (chi lo mette in dubbio è perchè è pagato dalla Spectre) sono i redditi pro capite dei cinesi (esiste anche l'indice Gini per la CIna, nonostante la nota trasparenza cinese): da una parte i miliardari cinesi e le loro multinazionali - in mezzo una classe media in formazione - e dall'altra parte un enorme esercito di schiavi che lavora, praticamente senza diritti, a 2/3 dollari l'ora. Se non è comunismo questo...
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Mario Galati
Monday, 01 March 2021 15:29
Se non sapessi che Nap è un compagno, penserei che lavora per la Cia e gli imperialisti nostrani (quelli genuini): sulle questioni della presenza cinese in Africa sono apparsi articoli, anche su Sinistra in rete, uno scritto da un altro africano, se ben ricordo, un tantino più complessi, meno unilaterali e con punti di vista diversi. Ma i "compagni" che accusano la Cina di imperalismo e di ogni nefandezza ad ogni pie' sospinto sono molto esigenti e selettivi nella scelta delle fonti di informazione.
Quanto alle condizioni di lavoro dei lavoratori cinesi, potrei suggerire di leggere un recente articolo di Pasquale Cicalese: "Lavoratori in Cina, visti da imprenditori occidentali". Non è un trattato, ma può essere di qualche utilità.
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Nap
Monday, 01 March 2021 15:41
Mi hai scoperto, sono un agente della Cia pagato dalla Spectre.
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Roberto
Monday, 01 March 2021 10:52
Lotta alla povertà, cosa può imparare il mondo dall’esperienza cinese
Giovedì 25 febbraio la Cina ha dichiarato di aver sradicato la povertà assoluta e di aver realizzato con 10 anni di anticipo l’obiettivo dell’alleviamento della povertà stabilito nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’Onu. Negli ultimi 8 anni, circa 100 milioni di cinesi sono stati portati fuori dalla povertà: detto in altri termini, è come se la popolazione di un Paese di fascia media venisse sollevato ogni anno da questa condizione.

Un Paese con una popolazione di 1,4 miliardi di persone ha superato molte difficoltà per riuscire a sradicare nei tempi previsti la povertà assoluta, dando un enorme contributo alla lotta contro la povertà nel mondo. Secondo le statistiche rese note dalla Banca Mondiale, per ogni 100 persone che si sono affrancate dalla povertà, più di 70 provengono dalla Cina. Ancora più importante è il fatto che, attraverso le esperienze maturate dalla Cina, la comunità internazionale ha potuto trarre numerosi insegnamenti.

“Formulare politiche in modo mirato che rispettino le questioni concrete” e “sradicare alla radice la povertà con lo sviluppo”. Si tratta di due frasi pronunciate da Xi Jinping che hanno permesso alla comunità internazionale di conoscere meglio le esperienze della Cina.

Negli ultimi 60 anni, la Cina ha mandato più di 600 mila operatori umanitari in 166 Paesi e organizzazioni internazionali, ha donato un totale di circa 400 miliardi di RMB e ha annunciato 7 volte l’esenzione incondizionata dei Paesi poveri fortemente indebitati e di quelli meno sviluppati dai prestiti intergovernativi senza interessi.

Nessun altro Paese al mondo ad eccezione della Cina è in grado di aiutare così tante persone a uscire dalla povertà in così breve tempo. Le esperienze maturate dalla Cina meritano di essere analizzate dettagliatamente dagli altri Paesi, i quali sono chiamati a riflettere su come trarre insegnamenti utili per costruire un mondo senza povertà fondato sullo sviluppo comune.
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World Bank's poverty line is $1.90 a day
Monday, 01 March 2021 11:44
La prima potenza al mondo... senza ritegno, almeno tacete!
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Luciano Pietropaolo
Monday, 01 March 2021 12:30
ma ce l'hai un nome e un cognome? O te ne vergogni?
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Perché chiederlo
Monday, 01 March 2021 17:50
quando metà di chi interviene lo ha fatto con pseudonimi?
O dà fastidio il contenuto, proprio quello ben specificato in oggetto e a cui occorrerebbe rispondere nel merito?
Per non proseguire in questo bel dialogo fra sordi dove Nap contesta l'idea di NEP applicata alla Cina e da un'altra parte si risponde con copia-incolla di un testo di Lenin che con quella obiezione, e con la Cina di oggi in generale, c'entra come i cavoli a merenda?
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Luciano Pietropaolo
Monday, 01 March 2021 21:45
Ma allora è una mania? In tal caso come prossimo nick ti consiglierei Mike Pompeo
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Roberto
Monday, 01 March 2021 08:09
Il "dono cinese" porta la luce nel mondo


Sul tema dei vaccini “prodotto pubblico globale”, la Cina ha fatto ciò che ha detto. Anche durante le ferie per il Capodanno lunare, la festività più importante per i cinesi, la Cina ha sempre continuato a fornire vaccini e assistenza ai Paesi bisognosi.

Al momento la Cina ha fornito assistenza sui vaccini a 53 Paesi in via di sviluppo che ne hanno fatto richiesta ed ha esportato vaccini in 22 Paesi. Su richiesta dell'OMS, la Cina ha deciso di fornire 10 milioni di dosi di vaccino domestico al "COVAX" per venire incontro alle esigenze più urgenti dei Paesi in via di sviluppo.

Negli ultimi giorni il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha sottolineato con preoccupazione i gravi squilibri regionali e le ineguaglianze nel processo di vaccinazione a livello globale. 10 Paesi da soli rappresentano il 75% del volume globale di vaccinazioni e in oltre 130 le vaccinazioni non sono ancora state avviate.

La Cina è il maggiore Paese in via di sviluppo e ha sempre tenuto in considerazione le urgenze di tutti. Nel corso della recente riunione pubblica del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a livello ministeriale sulla questione dei vaccini contro il Covid, la Cina ha ribadito che tutte le parti sono chiamate ad unirsi per resistere al "nazionalismo dei vaccini" e a promuovere una distribuzione equa e ragionevole di questi farmaci, in particolare per fare in modo che diventino più accessibili e convenienti per i Paesi in via di sviluppo, compresi quelli in conflitto.

I fatti hanno ripetutamente dimostrato che la solidarietà e la cooperazione sono l'arma più potente che la comunità internazionale ha a disposizione per sconfiggere l'epidemia. In qualità di grande Paese responsabile, la Cina continuerà a fare del suo meglio per rendere i vaccini un prodotto pubblico che le persone in tutto il mondo potranno usare e potranno permettersi. Questo regalo proveniente dalla Cina continuerà ad essere una luce che consentirà di dissipare la nebbia dell'epidemia.
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AlsOb
Sunday, 28 February 2021 22:16
Gli astrattisti pseudorivoluzionari che si preoccupano dell'imperialismo cinese in Africa e altrove, in ciò denotando una certa pigrizia intellettuale e docilità alla manipolazione da slogan, non si accorgono ovviamente che l'effettivo imperialismo attuato in Africa e nel Sud del mondo ha ben altra origine e viene supportato da Banca Mondiale e agende ONU tipo SDG al servizio dei grandi gruppi.
Si tratta di spietato imperialismo finanziario, che per garantire e tutelare i profitti di trilioni di dollari investiti dai "filantropi" privati, in primo luogo disintegra i sistemi finanziari locali per aprirli e sottoporli alla disciplina dei capitali oriundi internazionali e in secondo taglia le gambe ai già deboli stati per trasferire loro i rischi e l'obbligo di garantire il ritorno finanziario.
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Paolo Selmi
Monday, 01 March 2021 08:11
"Si tratta di spietato imperialismo finanziario"... esatto, al quale partecipa l'intero capitale globale, dal Pacifico visto da est al Pacifico visto da ovest, in tutte le sue sfumature, MA non solo, anche semplice Lumpenkapitalizmus, capitalismo straccione: tutto fa brodo pur di partecipare alla RAPINA. Viviamo in un secolo dove il capitale globalizzato vede COESISTERE le più varie forme di produzione e riproduzione di plusvalore e sfruttamento del lavoro, specialmente nel continente africano.

Per le potenze imperialistiche d'Oriente e Occidente, l'importante è esportare capitali, realizzare in qualche modo la propria sovrapproduzione, oltre che iniziare o continuare a spartirsi la torta, del coltan di oggi, ma anche del petrolio e dei diamanti di ieri, così come della semplice forza lavoro. Lo fanno tutti, americani, francesi, russi e cinesi: escono materie prime, estratte in condizioni di semischiavitù, ed entrano prodotti finiti, dalle armi con cui andare avanti a dilaniarsi fra loro alle magliette, e poco importa se siano Made in China di prima mano o Made in China dopo essere passate dal cassonetto dei vestiti usati dietro casa nostra e rivendute da una ONG tedesca: c'è sempre dietro un modo di far soldi massimizzando la spremitura di ciò che si ha a disposizione, fosse esso una nicchia di un segmento di mercato, briciole lasciate libere dai pezzi grossi, magari per dimostrare la loro magnanimità, o una commessa statale costata mesi di "lavoro ai fianchi" per sbaragliare le cordate degli altri capitalisti concorrenti e milioni di euro anticipati "a perdere" in mazzette, regalie e prebende per ungere meglio i meccanismi e portare le firme locali che contano sul proprio pezzo di carta e non di altri.

Di fronte a questa macina che continua a girare in un macromovimento, i cui connotati che crea dipendenza economica in tutti i popoli africani, e che genera benessere solo per la BORGHESIA COMPRADORA locale, la stessa sia che serva imperialisti americani, sia che serva imperialisti francesi, sia che serva imperialisti cinesi, continuare a chiudere gli occhi, girare la testa dall'altra parte, è semplicemente ipocrita.

Senza andare tanto lontano, EROS BARONE: "Congo" - 223 visualizzazioni a oggi; MICHELE CASTALDO: "Nell’inferno del saccheggio africano" - 191 visualizzazioni. Meno della metà di questo lavoro, per quello che possono valere queste statistiche. E perché è morto uno dei LORO, perché SENZA ANDARE TANTO LONTANO dei 7600 malati e 375 morti di uranio impoverito (all'estate dell'anno scorso), che in teoria dovrebbero anch'essi essere dei NOSTRI, non importa niente a nessuno. E sempre senza andare tanto lontano, SE non gliene importa nulla di un soldato dei nostri contaminato per qualche mese o anno di esposizioni, che cosa gliene importerà mai di un Serbo, di un Bosniaco, di un Albanese che sono esposti da decenni ormai? E di un minatore congolese che estrae Coltan in una miniera a cielo aperto con strumenti rudimentali che si è fabbricato da solo? O di un ragazzo di strada ghanese che è nato e cresciuto nella discarica a cielo aperto di Agbogbloshie, e campa respirando diossina ed estraendo gli stessi metalli rari del suo collega congolese?

Passo e chiudo.
Paolo Selmi
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Nap
Monday, 01 March 2021 21:27
Non si può cliccare su un "mi piace". Ti metto un "bravissimo". 30 e lode.
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Paolo Selmi
Tuesday, 02 March 2021 19:26
Rompo il "silenzio radio" per ringraziarti, Nap! Silenzio radio imposto anche dal cercare di concentrare le mie poche attuali risorse su un progetto che va avanti ormai da mesi.
Sto chiudendo un lavoro sui sindacati in URSS. E "chiudendo" è una parola grossa perché di questo passo ne avrò ancora per qualche mese... ma ne vale la pena, almeno dalle cose che sto imparando man mano che traduco, sintetizzo, e provo a svolgere collegamenti con la situazione attuale, spunti che mi vengono anche in modo casuale, e che mi portano a ulteriori approfondimenti. Ci rivediamo allora su queste pagine quando lo pubblicherò, ci conto! :-)
Ciao
Paolo Selmi
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romke
Sunday, 28 February 2021 20:00
la cina contemporanea erede dell'ottobre rosso!! siete ubriachi o sul libro paga del consolato ( molto più probabile la seconda) : in tutto il vostro raccontare balle storiche fate un salto, e partite dal 1978 nientemeno che con la NEP cinese! Quella che voi chiamate la NEP cinese (che anche i cinesi non hanno mai osato chiamarla in quel modo)in realtà è il ritorno al capitalismo, di cui si è fatto portabandiera quel delinquente di Deng Xiaoping, salvato dalla perdizione della rivoluzione culturale da Mao stesso e a questo poi ribellatosi rifiutandosi, nel 1975-1976, di trarre le conclusioni della rivoluzione culturale. E già, da buoni pennivendoli al servizio della politica imperialista cinese, non una parola sulla grande rivoluzione culturale proletaria e sulla comune di Shanghai, nel 1968, quando gli operai di Shanghai, e di altre zone cinesi, tentarono di prendere il potere nelle proprie mani (con il sostegno di Mao) : loro si che erano leninisti, volevano esercitare la dittatura del proletariato per liberarsi dalla dannazione del salario. Ma di questo voi, voi che fate sfoggio di conoscenze storiche e comprensione del leninismo, non ne parlate, vomitevolmente ossequienti all'ordine di Pechino di neanche pensare alla comune di Shanghai. E Deng ha fatto pagare caro ai comunardi cinesi il loro tentativo tanto quanto i versagliesi lo hanno fatto pagare ai comunardi di Parigi. Gli operai cinesi sono in un brutto incubo: incatenati al lavoro salariato da un sedicente partito comunista, mentre voi passate ad incassare il vostro piatto di lenticchie
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Mario Galati
Monday, 01 March 2021 15:03
Guarda che i disoccupati e i precari sono liberati dalla "dannazione del salario" senza l'intervento di Mao e dei comunisti.
Lo ripeto, chi non riesce a vedere la grandezza del dato di 800 milioni di persone, di cinesi, sottratte alla povertà non lo fa perché è cieco, ma perché vorrebbe ancora vederli morti di fame.
Con questi interlocutori, non credo sia opportuno e necessario discutere di cose un po' meno immediate, come per es. del lungo processo storico ancora in atto.
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Mario Galati
Sunday, 28 February 2021 10:51
C'è una cosiddetta sinistra, sedicente persino marxista (dopo aver imparato a memoria e rimasticato qualche facile formuletta), che, con la scusa del socialismo, vorrebbe ancora vedere i cinesi morti di fame. Il colonialismo e la sinofobia verniciati con un marxismo d'accatto possono resistere a ogni tipo di dato o di ragionamento che gli autori dell'articolo tentano di evidenziare. È tutto inutile; con costoro non c'è nulla da fare. Sono gli alleati di fatto degli imperialisti.
Viva il partito comunista cinese.
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Nap
Sunday, 28 February 2021 16:17
Cina che secondo te invece non sarebbe imperialista? E quindi quello della Cina, in Africa (per fare un solo esempio), non sarebbe imperialismo? Ma allora, se quello della Cina attuale per te è marxismo (nel senso che, da quello che capisco, nel caso cinse, lo declini evidentemente in un evoluzionismo della storia che porterà al comunismo) allora perchè non definisci marxismo anche l'Inghilterra vittoriana o gli Stati Uniti post seconda guerra mondiale? Ma perchè, invece di insultare gli altri, non ti viene il dubbio che forse sei tu che decontestualizzi il libro "Fuga dalla Storia" di Domenico Losurdo (un libro di 24 anni fa; un libro dove, se Dominico Losurdo scrivesse oggi, forse non vi inserirebbe certo la Cina come modello marxista, a meno che si consideri lo sfruttamento salariale, l'imperialismo e la dittatura come modelli marxisti - interpretazioni che potrebbero venire solo da ignoranti fascisti antimaxisti). E, inoltre, domanda che fa il paio con la precedente, perchè non allarghi i tuoi riferimenti marxisteggianti anche oltre Domenico Losurdo?
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Mario Galati
Monday, 01 March 2021 14:55
Innanzitutto, chi parla di dittatura e contrappone questo ideale archetipo astratto alla democrazia altrettanto ideale archetipa ed astratta, non ha nulla a che fare col marxismo. Detto questo, prima di fare affermazioni quantomeno azzardate su Domenico Losurdo, cerca di leggerlo e, soprattutto, di capirlo.
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Nap
Monday, 01 March 2021 15:38
Quella della Cina è una dittatura contro il proletariato. Quella della Critica del programma di Gotha era invece la dittatura del proletariato, cioè il potere in mano e all'immensa maggioranza, cioè la partecipazione e la libertà decisionale dell'immensa maggioranza.
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Fabio Rovazzi
Sunday, 28 February 2021 10:37
Anch'io sono erede di Puccini...
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AlsOb
Saturday, 27 February 2021 13:03
Articolo bello e stimolante.
In parallelo alla transizione del capitalismo occidentale alla forma anarchico distruttiva neoliberale di capitalismo del capitale e moneta fittizi, la sinistra ufficiale si è convertita a maldestro supporto ideologico di tale capitalismo incentrato sulla mera accumulazione predatoria e speculativa finanziaria (per pochissimi). Così da impedire a intere generazioni di dotarsi delle architetture e categorie mentali per comprendere il capitalismo e il mondo, surrogate da indottrinamento e mitologie. Ora come passo finale deve farsi sostenitrice di regimi corporativi fascisti o nazisti imperialistici (l'idiozia della retorica del politically correct serve a occultare la sostanza dei processi reali), che sono anche l'ultimo mezzo per contrastare il modo di produzione asiatico, in particolare cinese, ancora basato sulla accumulazione di ricchezza reale con elementi di finalità sociali.
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Mariolino
Saturday, 27 February 2021 09:12
Wow, non lo sapevo che Sinistra in rete pubblicasse anche i racconti di fantascienza! Bello! Oppure si tratta di una barzelletta lunga? Io nel caso ne conosco di più brevi, sentite questa: "- Qual è la pianta più puzzolente? Quella dei piedi". Così si fa prima no? ?
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Carlo Marzo
Saturday, 27 February 2021 11:17
Se il problema sono i LIVELLI SALARIALI, non occorre andare così lontano per trovare il socialismo: basta attraversare il confine a Ponte Chiasso...

Per quanto mi riguarda, resta valida l'equazione LAVORO SALARIATO = CAPITALISMO.
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Luciano Pietropaolo
Sunday, 28 February 2021 14:42
Socialismo=Araba fenice:
che ci sia ciascun lo dice,
dove sia nessun lo sa!
Il salario: al momento, l'unica cosa concreta a cui tenere...e un salario che cresce è meglio di un salario che si riduce...o no?
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Massimo
Saturday, 27 February 2021 21:50
Il sorpasso: i trentenni cinesi guadagnano più dei trentenni italiani


I trentenni in Cina guadagnano più dei cinquantenni, e più dei coetanei italiani. A rivelarlo è Credit Suisse nell’Emerging consumer survey 2013, indagine che la banca elvetica ha affidato a Nielsen, e che ha coinvolto 14mila persone distribuite in 8 Paesi: Brasile, Russia, India, Cina, Turchia, Arabia Saudita, Indonesiae Sud Africa. Un panel che rappresenta 3,3 miliardi di consumatori nella parte del mondo dove la crescita economica non si è arrestata.

Dal grafico qui sotto salta subito agli occhi il divario tra il salario medio mensile dei giovani tra i 18 e i 29 anni – il tasso di disoccupazione è al 4,1% – pari a circa 9.100 yuan al mese, circa 1.100 euro, e quello dei loro genitori, 8.500 yuan, circa 1.025 euro. In altre parole, un giovane cinese guadagna il 15% in più rispetto ai suoi genitori (56-65enni). In Indonesia, Russia e Turchia, dice Credit Suisse, c’è la medesima tendenza.Per fare un confronto (impietoso), Datagiovani su base Istat ha calcolato che la retribuzione media di un under 30 al primo lavoro in Italia è di 823 euro al mese. L’Isfol calcola invece che i trentenni collaboratori a progetto in Italia e hanno un reddito medio di 9.855 euro l’anno, 821 euro al mese. Ovviamente i pochi giovani che lavorano, visto che il tasso di disoccupazione registrato dall’Istat lo scorso novembre è del 37,1 per cento.

Non stupisce che il miliardario Jack Ma, fondatore di Alibaba, l’eBay del celeste impero, si sia dimesso da amministratore delegato della società a soli 48 anni, andando a ricoprire il ruolo di presidente. «Le mie dimissioni da fondatore e amministratore delegato», ha scritto in una email ai suoi dipendenti, «non sono state una decisione facile. […] È perché vedo che i giovani dipendenti di Alibaba hanno sogni più belli e brillanti dei miei, e sono più capaci di costruire un futuro che gli appartiene». Presa fuor di retorica e con un sano scetticismo sulla ben poca trasparenza delle imprese cinesi, è comunque un esempio non da poco.

Per la banca d’affari sono tre i fattori che influenzano la distribuzione del reddito: il livello d’istruzione, più elevato tra i giovani, la migrazione dalla campagna alla città, appannaggio dei giovani, e la tecnologia. Molti lavori ben pagati implicano un alto grado di expertise tecnologico, che mediamente favorisce i giovani. Avere una platea di consumatori in prevalenza giovani favorirà i prodotti tecnologici e i brand, rispetto – per motivi facilmente intuibili – alla spesa sanitaria. Questa, se non altro, è una buona notizia per il made in Italy.
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Daniele
Saturday, 27 February 2021 10:44
I salari cinesi stanno superando quelli europei
16 Ottobre 2018 08:23 Internazionale - CinaE-mailStampaPDF
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cina operai elmettoProdurre in Cina non conviene più: lo stipendio degli operai di Pechino triplicato in 10 anni. Costano meno brasiliani e messicani.
da laconceria.it

Lo stipendio medio degli operai cinesi nel 2016 era di 3,60 dollari l’ora: il triplo rispetto al valore del 2005. Il salario delle tute blu di Pechino è ormai più alto di quello dei colleghi in Brasile e Messico (dove la paga nel decennio è invece calata) e quasi al livello di quelli di Grecia e Portogallo. Lo sostiene il centro studi Euromonitor International (su dati Eurostat, ufficio statistico cinese e International Labour Organisation) in un report ripreso da Financial Times. Secondo lo studio, l’aumento dei salari è legato anche alla progressiva crescita della produttività: lo stipendio nel manifatturiero è cresciuto di più di quello di altri settori, come agricoltura ed edilizia.

L’odierno livello dei salari, conclude lo studio, ha ripercussioni sugli equilibri internazionali (e questo è sotto gli occhi di tutti): chi continua a cercare produzioni a basso costo trasferisce le linee a seconda delle convenienze nel Sud Est asiatico, in Europa o in America Latina. Il governo cinese, intanto, lavora alla migrazione dal modello economico “Fabbrica del Mondo” alla nuova identità di Paese manifatturiero che non fa dell’economicità la propria leva competitiva.

Incredibile! I salari cinesi stanno superando quelli europei
da analysisrubrica.weebly.com

E’ questa la notizia a dir poco sensazionale che arriva dall’ estremo oriente, che ci fa conoscere Forbes, rivista statunitense di economia e finanza. Ovviamente questo dato sorprendente non è esteso all’ intero mondo del lavoro cinese, ma circoscritto ad alcuni settori dei distretti produttivi cinesi di maggior rilievo. Il raffronto con l’Europa si riferisce sopratutto alle nazioni dell’Est, ma non solo, certamente il dato è estremamente significativo, poiché avvalora la tendenza che in Cina vi è un progressivo e generalizzato incremento dei salari.

Per fare degli esempi, le retribuzioni mensili medie cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte della Croazia, ma potremmo aggiungere anche dell’Italia, pensiamo a chi percepisce da noi un salario di 700-800,00 euro al mese, che in dollari sono circa 850 - 970; inoltre, sempre quelle di Shanghai, sono maggiori su base mensile anche della Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Sempre secondo l’articolo di Forbes la crescita dei salari in Cina è impressionante. Questo è un ottimo risultato per i cinesi. Certamente risulta indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina, come centro manifatturiero, ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.

L’articolo però non ci dice il motivo per cui è avvenuta questa progressiva tendenza all’aumento degli stipendi in Cina, la risposta la possiamo trovare nel ragionamento dell’economista Antonino Galloni, che spiega come la Cina stia puntando ad incrementare la domanda interna di consumi e a diminuire le esportazioni. “Fino al 2012 infatti la priorità era esportare limitando la domanda interna, riducendo i salari, poi la Cina ha pensato di aumentare i salari dei lavoratori, ha iniziato a fare investimenti in infrastrutture, ospedali ecc..” ecco perché vi è stato un generale aumento dei salari. Non solo, ma secondo l’economista, lo stesso indirizzo lo troviamo in altri paesi come l’India, la Russia e gli stessi Usa. Mentre in Europa è ancora ben saldo il paradigma economico dell’export che, in nome della competitività, prevede salari bassi per i lavoratori. E’ proprio questo paradigma, afferma Galloni, che è necessario ribaltare, per consentire salari più alti per chi lavora in Europa e soprattutto in Italia, ciò consentirebbe una ripresa dei consumi e quindi un incremento della domanda interna, con ricadute positive sull’occupazione.

Cambiare si può, basta che chi governa il nostro Paese lo voglia, intanto i lavoratori attendono.

Cina, i salari degli operai dei cantieri crescono troppo in fretta
da themeditelegraph.com

Genova - Un operaio guadagna quasi mille dollari al mese, più del doppio di 10 anni fa. E gli investitori stranieri si spaventano.

Genova - La crescita economica in Cina rischia di compromettere tutto il vantaggio accumulato dall’industria navalmeccanica nei confronti dei competitor asiatici. Dieci anni fa gli investitori stranieri erano stati attratti da Pechino grazie ai costi bassi dei salari e alla grande disponibilità di manodopera a basso costo. Ma quelle condizioni oggi sembrano essere terminate: «In dieci anni la paga di un operaio cinese è più che raddoppiata ed è arrivata a 945 dollari al mese» spiegano gli analisti.

Per ora rimane un buon salario per le aziende, anche comparato con gli altri mestieri cinesi che stanno progressivamente conoscendo un aumento, ma il trend verso l’alto spaventa i calcoli degli investitori stranieri, sempre a caccia di tagli ai costi in un mercato difficile come quello dei cantieri navali.

Cina, il lavoro costa. E Samsung chiude la fabbrica
da ilgiornale.it

Nelle metropoli salari al livello dell'Europa dell'est, i vicini asiatici sono sempre più appetibili

La notizia non è ancora ufficiale, ma Samsung ammette che ci sta pensando su: il colosso sudcoreano dell'elettronica valuta di sospendere la produzione di smartphone in uno dei suoi due stabilimenti cinesi, quello che si trova a Tianjin (nel nord del Paese).

Il motivo? Innanzitutto la concorrenza, perché i marchi locali Huawei e Xiaomi negli ultimi cinque anni si sono mangiati tutto il mercato: basti pensare che nel 2013 la quota detenuta da Samsung era del 20% mentre quest'anno è scesa sotto l'1%. E poi c'è il problema legato al costo del lavoro che in Cina cresce ormai da una quindicina d'anni e rende sempre meno vantaggioso produrre nella terra del Dragone.

Pechino non è più la capitale della manodopera a basso costo. Nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale entrando a far parte dell'Organizzazione mondiale del Commercio, e da allora il progressivo aumento della produttività ha spinto in alto i redditi. Inoltre ormai tutte le grandi metropoli hanno stabilito uno stipendio minimo: l'ultima a farlo è stata Shangai dove gli operai dovranno essere pagati almeno 2300 yuan al mese, vale a dire 333 dollari americani; il che significa +5% rispetto a un anno fa.

Naturalmente c'è ancora un forte disequilibrio tra le aree rurali e le grandi città, dove si sta facendo largo una manodopera qualificata i cui standard si avvicinano a quelli occidentali. Parlando di salari medi Shangai è la città cinese dove si guadagna meglio, circa 1.200 dollari al mese. A Pechino e a Shenzen si viaggia intorno ai 1000, ma sono comunque livelli retributivi ormai paragonabili a quelli dei Paesi dell'Europa dell'est: non come in Polonia o della Repubblica Ceca, però sullo stesso piano della Lituania, della Lettonia o dell'Estonia e addirittura più alti della Croazia. E se in Cina tra il 2005 e il 2016 le paghe medie orarie del settore manifatturiero sono triplicate, nello stesso periodo in altre zone del mondo - come ad esempio in America Latina - la tendenza è stata alla diminuzione. Questo fa si che da qualche anno le multinazionali preferiscano delocalizzare altrove.

La concorrenza globale e in particolare quella di Paesi vicini come Taiwan, ma anche Malesia, Thailandia, Vietnam e India, insomma, è sempre più forte. Da un paio d'anni sembra essersene reso conto anche il governo cinese: da un lato il vice ministro del Lavoro Xin Changxing ha sottolineato come la Cina debba restare competitiva con i concorrenti asiatici, dall'altro le autorità stanno cercando di trovare un equilibrio tra datori di lavoro e impiegati che garantisca la stabilità sociale senza arrivare agli eccessi del capitalismo di casa nostra.

Se fino al 2016 la crescita dei salari è stata a due cifre ora ha un po' rallentato, ma i tempi in cui produrre in Cina costava pochissimo sono ormai lontani e non torneranno più. Altri potrebbero seguire l'esempio di Samsung: gli equilibri mondiali stanno già cambiando.

La Cina aggancia l’Europa dell’Est, ecco la svolta sui salari
da lamescolanza.com

I salari cinesi non sono più così a buon mercato come in passato e l’Europa dell’Est potrebbe approfittarne.

I testi di economia del lavoro spiegano ormai dall’inizio del Millennio che “i salari si fissano a Pechino”, un’espressione che punta a rimarcare come sia l’economia asiatica ormai a influenzare i meccanismi di formazione dei prezzi, inclusi gli stipendi. La Cina è la seconda potenza economica al mondo dopo gli USA ed entro il prossimo decennio potrebbe diventare la prima. Quel che accade al suo interno non può mai passare inosservato, perché rischia di avere prima o poi ripercussioni sulle nostre vite, anche perché qui vi abita quasi un abitante su cinque della Terra.

E proprio dalla Cina arriva una notizia, destinata ad avere conseguenze a medio-lungo termine anche sulle economie avanzate. Secondo Forbes, lo stipendio mensile medio di città come Shanghai ($1.135), Pechino ($983) e Shenzen ($938) avrebbe raggiunto e superato quello di alcune economie dell’Europa dell’Est. Un esempio? Lo stipendio medio mensile di un lavoratore croato è di appena 887 dollari, quello di lituano di 956, di un lettone di 1.005, mentre in Estonia si arriva a 1.256 dollari e in Ungheria a 1.139 dollari.

Nel giro di qualche anno, poi, sembra alla portata per i cinesi raggiungere i livelli salariali dei colleghi polacchi ($1.569) e cechi ($1.400), dati gli elevati ritmi di crescita dei primi, rispetto a quelli pur soddisfacenti degli europei orientali.

Salari cinesi sempre meno allettanti per il capitale

Aver colmato il gap salariale con parte dell’Europa rappresenta una svolta per la società cinese e, soprattutto, per quella delle economie più ricche del pianeta. Il costo del lavoro è notoriamente una delle principali variabili, che determina lo spostamento dei capitali da un’economia a un’altra. Se un lavoratore italiano costa 1.000 e uno cinese costa 100, esiste un impulso per le aziende a spostarsi dall’Italia alla Cina.

Se ciò è vero, il raggiungimento dei salari est-europei farebbe ipotizzare un minore incentivo da parte delle multinazionali a delocalizzare la produzione in Cina, disponendo di manodopera qualificata e dai costi simili nel Vecchio Continente. Certo, il costo del lavoro non è l’unica variabile ad essere tenuta in considerazione in fase di investimento. Anche la burocrazia, le norme ambientali, i diritti sindacali e la tassazione incidono moltissimo.

In ogni caso, possiamo affermare che esisterebbero già alcune condizioni minime per prevedere una minore fuga delle aziende verso la Cina, specie quando nei prossimi anni verranno agganciati i livelli salariali di un numero crescente di paesi dell’Est. A quel punto, per un’impresa tedesca risulterebbe sempre meno appetibile aprire battenti in Cina, piuttosto che nella vicina Polonia, così come per una italiana sarà relativamente più conveniente puntare sulla Croazia.

Lavoratori cinesi fanno meno paura?

Non è ancora la fine di un’era, ma l’inizio di una svolta sì. Non è nemmeno detto che non verranno trovate nuove realtà simili alla Cina. In quei paraggi in Asia esiste un altro gigante da 1,3 miliardi di abitanti – l’India – che potrebbe sostituire progressivamente Pechino nell’attrazione degli investimenti internazionali. Ad oggi, molte delle condizioni favorevoli esibite dall’economia cinese qui non hanno trovato terreno fertile, come suggerisce la carenza di infrastrutture.

Non si può nemmeno, però, sminuire il significato del cambiamento in atto. La Cina è sempre meno un’economia emergente e sempre più una potenza di rilievo internazionale. I salari continueranno ad essere fissati a Pechino, ma nei prossimi anni fungeranno sempre meno da tetto per quelli di numerose altre economie. I lavoratori dell’Est Europa dovranno forse iniziare a temere più i venti contrari di Bruxelles che non l’aria inquinata nella capitale cinese.

Salari cinesi pari o superiori ad alcuni salari europei
da vocidallestero.it

Tra gli effetti più deleteri della globalizzazione e della libera circolazione dei capitali in tutto il mondo vi è l’abbattimento del costo del lavoro dovuto alla disponibilità di enormi sacche di manodopera a basso costo. In questo articolo di Forbes si mostra come l’ingresso della Cina nel WTO e l’integrazione ad est dell’Unione europea abbiano più che raddoppiato, in poco più di un decennio, la forza lavoro dell’Europa occidentale, comportando una potente pressione al ribasso sul livello dei salari. Tra alcune zone dell’Europa e la Cina non c’è più differenza, o se c’è, è a favore della Cina. L’articolo, che ha una prima occhiata sembra la solita constatazione che “oggi c’è la Cina”, contiene invece due ammissioni rilevanti: la prima, che i salari cinesi stanno crescendo a gran ritmo; la seconda, che la nuova “Cina” del lavoro a basso costo sono i paesi dell’Europa dell’est, quelli che non a caso l’Unione europea sta puntando a inglobare.

Potremmo vederlo come un bicchiere mezzo pieno. O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. In realtà, si tratta di entrambe le cose.

Le retribuzioni mensili mediane cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione europea. Lo stipendio medio netto in Croazia è di $ 887 al mese. Ha aderito all’UE nel 2013.

Le retribuzioni mediane di Shanghai, in particolare, sono anche maggiori di due dei paesi baltici recentemente diventato membri dell’eurozona : Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Negli ultimi 10 anni, l’Europa ha cercato di integrare dentro l’Unione europea la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est. Nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale entrando a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’entrata di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo.

In gergo economico, questo è descritto come “appiattimento della curva di Phillips“, dice l’economista di VTB Capital Neil MacKinnon.

“L’impatto della globalizzazione e l’ingresso della Cina nell’OMC nel 2002 ha aumentato notevolmente l’offerta di manodopera globale“, afferma MacKinnon. L’eccesso di offerta di manodopera cinese e il flusso di merci cinesi a basso costo nell’economia mondiale ha creato un vantaggio per i consumatori globali, ma ha significato anche che determinati prodotti e posti di lavoro dell’Europa orientale hanno dovuto competere con la Cina, che ha prezzi più bassi. Catene di approvvigionamento e mercati a parte, il costo maggiore per un’azienda è la sua forza lavoro. La forza lavoro cinese viene finalmente retribuita. Le retribuzioni dell’Europa orientale, simili a quelle cinesi, fanno parte di un mondo il cui motto è diventato: qualsiasi cosa tu possa fare, la Cina può farla a minor costo.

La Cina stabilisce il prezzo per la manodopera manifatturiera e, in futuro, per la logistica relativa all’e-commerce. Alcuni europei dovrebbero sperare nei continui aumenti salariali della Cina se vogliono aumentare le loro stesse retribuzioni lorde.

La quota della Cina nel commercio mondiale (una media di esportazioni più importazioni) è aumentata da poco meno del 2% nel 1990 a quasi il 15% di oggi, secondo la Bank for International Settlements. Da allora, l’economia di mercato cinese si è integrata all’economia globale, guidata principalmente dalla sua forza lavoro, con un rapporto capitale-lavoro inferiore agli standard globali. La Cina sta iniziando solo ora ad automatizzare.

L’integrazione dell’Europa orientale in Occidente è spesso trascurata.

In un arco di tempo simile, dagli anni ’90 ad oggi, i paesi dell’Europa orientale sono usciti dall’orbita della Russia e si sono spostati verso ovest. Prima della caduta del comunismo, questi paesi erano rimasti più o meno isolati. La forza lavoro era abbondante e ben istruita, ma il capitale e il management erano limitati. Ne è seguita una combinazione fruttuosa: l’Europa occidentale ha fornito i soldi e il management, l’Europa dell’Est ha fornito la manodopera a basso costo.

I dati relativi all’integrazione della Cina e dell’Est Europa sono impressionanti. Contando solo la forza lavoro potenziale, la popolazione attiva in Cina e nell’Europa orientale tra i 20 e i 64 anni era di 820 milioni di persone nel 1990 e ha raggiunto 1,2 miliardi nel 2015. La popolazione attiva disponibile nei paesi europei industrializzati era di 685 milioni prima della crisi dell’Unione Sovietica nel 1990 e raggiungeva i 763 milioni nel 2014. Parliamo quindi di un aumento una tantum del 120% della forza lavoro, che ha schiacciato i salari per i lavoratori meno qualificati, secondo la BRI.

Usando come indicatore queste tre città cinesi, gli stipendi mediani dei lavoratori dipendenti sono più alti dei salari della parte più povera d’Europa: i vecchi Balcani dell’area comunista.

Proprio sul Mar Adriatico, di fronte alla ricca frontiera italiana, si trova una manodopera di tipo cinese. Anzi ancora più economica, in realtà. I lavoratori cinesi a Shanghai, Shenzhen e Pechino, in media, guadagnano più dei lavoratori in Albania, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Montenegro, nuovo paese membro della NATO, che ha un reddito medio di appena $ 896 al mese.

I salari medi di Shanghai non sono molto diversi da quelli della Polonia, a $ 1,569. Lo stesso vale per la Repubblica Ceca, dove lo stipendio medio a Praga, la sua città più ricca, si aggira intorno a $ 1400. Il salario medio lordo dell’Ungheria sta proprio al livello di Shanghai, a $ 1139 al mese.

La crescita dei salari in Cina è impressionante. Ottimo per i cinesi. Ma ha lasciato indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina come centro manifatturiero ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.
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Daniele
Saturday, 27 February 2021 10:43
I salari cinesi stanno superando quelli europei
16 Ottobre 2018 08:23 Internazionale - CinaE-mailStampaPDF
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cina operai elmettoProdurre in Cina non conviene più: lo stipendio degli operai di Pechino triplicato in 10 anni. Costano meno brasiliani e messicani.
da laconceria.it

Lo stipendio medio degli operai cinesi nel 2016 era di 3,60 dollari l’ora: il triplo rispetto al valore del 2005. Il salario delle tute blu di Pechino è ormai più alto di quello dei colleghi in Brasile e Messico (dove la paga nel decennio è invece calata) e quasi al livello di quelli di Grecia e Portogallo. Lo sostiene il centro studi Euromonitor International (su dati Eurostat, ufficio statistico cinese e International Labour Organisation) in un report ripreso da Financial Times. Secondo lo studio, l’aumento dei salari è legato anche alla progressiva crescita della produttività: lo stipendio nel manifatturiero è cresciuto di più di quello di altri settori, come agricoltura ed edilizia.

L’odierno livello dei salari, conclude lo studio, ha ripercussioni sugli equilibri internazionali (e questo è sotto gli occhi di tutti): chi continua a cercare produzioni a basso costo trasferisce le linee a seconda delle convenienze nel Sud Est asiatico, in Europa o in America Latina. Il governo cinese, intanto, lavora alla migrazione dal modello economico “Fabbrica del Mondo” alla nuova identità di Paese manifatturiero che non fa dell’economicità la propria leva competitiva.

Incredibile! I salari cinesi stanno superando quelli europei
da analysisrubrica.weebly.com

E’ questa la notizia a dir poco sensazionale che arriva dall’ estremo oriente, che ci fa conoscere Forbes, rivista statunitense di economia e finanza. Ovviamente questo dato sorprendente non è esteso all’ intero mondo del lavoro cinese, ma circoscritto ad alcuni settori dei distretti produttivi cinesi di maggior rilievo. Il raffronto con l’Europa si riferisce sopratutto alle nazioni dell’Est, ma non solo, certamente il dato è estremamente significativo, poiché avvalora la tendenza che in Cina vi è un progressivo e generalizzato incremento dei salari.

Per fare degli esempi, le retribuzioni mensili medie cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte della Croazia, ma potremmo aggiungere anche dell’Italia, pensiamo a chi percepisce da noi un salario di 700-800,00 euro al mese, che in dollari sono circa 850 - 970; inoltre, sempre quelle di Shanghai, sono maggiori su base mensile anche della Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Sempre secondo l’articolo di Forbes la crescita dei salari in Cina è impressionante. Questo è un ottimo risultato per i cinesi. Certamente risulta indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina, come centro manifatturiero, ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.

L’articolo però non ci dice il motivo per cui è avvenuta questa progressiva tendenza all’aumento degli stipendi in Cina, la risposta la possiamo trovare nel ragionamento dell’economista Antonino Galloni, che spiega come la Cina stia puntando ad incrementare la domanda interna di consumi e a diminuire le esportazioni. “Fino al 2012 infatti la priorità era esportare limitando la domanda interna, riducendo i salari, poi la Cina ha pensato di aumentare i salari dei lavoratori, ha iniziato a fare investimenti in infrastrutture, ospedali ecc..” ecco perché vi è stato un generale aumento dei salari. Non solo, ma secondo l’economista, lo stesso indirizzo lo troviamo in altri paesi come l’India, la Russia e gli stessi Usa. Mentre in Europa è ancora ben saldo il paradigma economico dell’export che, in nome della competitività, prevede salari bassi per i lavoratori. E’ proprio questo paradigma, afferma Galloni, che è necessario ribaltare, per consentire salari più alti per chi lavora in Europa e soprattutto in Italia, ciò consentirebbe una ripresa dei consumi e quindi un incremento della domanda interna, con ricadute positive sull’occupazione.

Cambiare si può, basta che chi governa il nostro Paese lo voglia, intanto i lavoratori attendono.

Cina, i salari degli operai dei cantieri crescono troppo in fretta
da themeditelegraph.com

Genova - Un operaio guadagna quasi mille dollari al mese, più del doppio di 10 anni fa. E gli investitori stranieri si spaventano.

Genova - La crescita economica in Cina rischia di compromettere tutto il vantaggio accumulato dall’industria navalmeccanica nei confronti dei competitor asiatici. Dieci anni fa gli investitori stranieri erano stati attratti da Pechino grazie ai costi bassi dei salari e alla grande disponibilità di manodopera a basso costo. Ma quelle condizioni oggi sembrano essere terminate: «In dieci anni la paga di un operaio cinese è più che raddoppiata ed è arrivata a 945 dollari al mese» spiegano gli analisti.

Per ora rimane un buon salario per le aziende, anche comparato con gli altri mestieri cinesi che stanno progressivamente conoscendo un aumento, ma il trend verso l’alto spaventa i calcoli degli investitori stranieri, sempre a caccia di tagli ai costi in un mercato difficile come quello dei cantieri navali.

Cina, il lavoro costa. E Samsung chiude la fabbrica
da ilgiornale.it

Nelle metropoli salari al livello dell'Europa dell'est, i vicini asiatici sono sempre più appetibili

La notizia non è ancora ufficiale, ma Samsung ammette che ci sta pensando su: il colosso sudcoreano dell'elettronica valuta di sospendere la produzione di smartphone in uno dei suoi due stabilimenti cinesi, quello che si trova a Tianjin (nel nord del Paese).

Il motivo? Innanzitutto la concorrenza, perché i marchi locali Huawei e Xiaomi negli ultimi cinque anni si sono mangiati tutto il mercato: basti pensare che nel 2013 la quota detenuta da Samsung era del 20% mentre quest'anno è scesa sotto l'1%. E poi c'è il problema legato al costo del lavoro che in Cina cresce ormai da una quindicina d'anni e rende sempre meno vantaggioso produrre nella terra del Dragone.

Pechino non è più la capitale della manodopera a basso costo. Nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale entrando a far parte dell'Organizzazione mondiale del Commercio, e da allora il progressivo aumento della produttività ha spinto in alto i redditi. Inoltre ormai tutte le grandi metropoli hanno stabilito uno stipendio minimo: l'ultima a farlo è stata Shangai dove gli operai dovranno essere pagati almeno 2300 yuan al mese, vale a dire 333 dollari americani; il che significa +5% rispetto a un anno fa.

Naturalmente c'è ancora un forte disequilibrio tra le aree rurali e le grandi città, dove si sta facendo largo una manodopera qualificata i cui standard si avvicinano a quelli occidentali. Parlando di salari medi Shangai è la città cinese dove si guadagna meglio, circa 1.200 dollari al mese. A Pechino e a Shenzen si viaggia intorno ai 1000, ma sono comunque livelli retributivi ormai paragonabili a quelli dei Paesi dell'Europa dell'est: non come in Polonia o della Repubblica Ceca, però sullo stesso piano della Lituania, della Lettonia o dell'Estonia e addirittura più alti della Croazia. E se in Cina tra il 2005 e il 2016 le paghe medie orarie del settore manifatturiero sono triplicate, nello stesso periodo in altre zone del mondo - come ad esempio in America Latina - la tendenza è stata alla diminuzione. Questo fa si che da qualche anno le multinazionali preferiscano delocalizzare altrove.

La concorrenza globale e in particolare quella di Paesi vicini come Taiwan, ma anche Malesia, Thailandia, Vietnam e India, insomma, è sempre più forte. Da un paio d'anni sembra essersene reso conto anche il governo cinese: da un lato il vice ministro del Lavoro Xin Changxing ha sottolineato come la Cina debba restare competitiva con i concorrenti asiatici, dall'altro le autorità stanno cercando di trovare un equilibrio tra datori di lavoro e impiegati che garantisca la stabilità sociale senza arrivare agli eccessi del capitalismo di casa nostra.

Se fino al 2016 la crescita dei salari è stata a due cifre ora ha un po' rallentato, ma i tempi in cui produrre in Cina costava pochissimo sono ormai lontani e non torneranno più. Altri potrebbero seguire l'esempio di Samsung: gli equilibri mondiali stanno già cambiando.

La Cina aggancia l’Europa dell’Est, ecco la svolta sui salari
da lamescolanza.com

I salari cinesi non sono più così a buon mercato come in passato e l’Europa dell’Est potrebbe approfittarne.

I testi di economia del lavoro spiegano ormai dall’inizio del Millennio che “i salari si fissano a Pechino”, un’espressione che punta a rimarcare come sia l’economia asiatica ormai a influenzare i meccanismi di formazione dei prezzi, inclusi gli stipendi. La Cina è la seconda potenza economica al mondo dopo gli USA ed entro il prossimo decennio potrebbe diventare la prima. Quel che accade al suo interno non può mai passare inosservato, perché rischia di avere prima o poi ripercussioni sulle nostre vite, anche perché qui vi abita quasi un abitante su cinque della Terra.

E proprio dalla Cina arriva una notizia, destinata ad avere conseguenze a medio-lungo termine anche sulle economie avanzate. Secondo Forbes, lo stipendio mensile medio di città come Shanghai ($1.135), Pechino ($983) e Shenzen ($938) avrebbe raggiunto e superato quello di alcune economie dell’Europa dell’Est. Un esempio? Lo stipendio medio mensile di un lavoratore croato è di appena 887 dollari, quello di lituano di 956, di un lettone di 1.005, mentre in Estonia si arriva a 1.256 dollari e in Ungheria a 1.139 dollari.

Nel giro di qualche anno, poi, sembra alla portata per i cinesi raggiungere i livelli salariali dei colleghi polacchi ($1.569) e cechi ($1.400), dati gli elevati ritmi di crescita dei primi, rispetto a quelli pur soddisfacenti degli europei orientali.

Salari cinesi sempre meno allettanti per il capitale

Aver colmato il gap salariale con parte dell’Europa rappresenta una svolta per la società cinese e, soprattutto, per quella delle economie più ricche del pianeta. Il costo del lavoro è notoriamente una delle principali variabili, che determina lo spostamento dei capitali da un’economia a un’altra. Se un lavoratore italiano costa 1.000 e uno cinese costa 100, esiste un impulso per le aziende a spostarsi dall’Italia alla Cina.

Se ciò è vero, il raggiungimento dei salari est-europei farebbe ipotizzare un minore incentivo da parte delle multinazionali a delocalizzare la produzione in Cina, disponendo di manodopera qualificata e dai costi simili nel Vecchio Continente. Certo, il costo del lavoro non è l’unica variabile ad essere tenuta in considerazione in fase di investimento. Anche la burocrazia, le norme ambientali, i diritti sindacali e la tassazione incidono moltissimo.

In ogni caso, possiamo affermare che esisterebbero già alcune condizioni minime per prevedere una minore fuga delle aziende verso la Cina, specie quando nei prossimi anni verranno agganciati i livelli salariali di un numero crescente di paesi dell’Est. A quel punto, per un’impresa tedesca risulterebbe sempre meno appetibile aprire battenti in Cina, piuttosto che nella vicina Polonia, così come per una italiana sarà relativamente più conveniente puntare sulla Croazia.

Lavoratori cinesi fanno meno paura?

Non è ancora la fine di un’era, ma l’inizio di una svolta sì. Non è nemmeno detto che non verranno trovate nuove realtà simili alla Cina. In quei paraggi in Asia esiste un altro gigante da 1,3 miliardi di abitanti – l’India – che potrebbe sostituire progressivamente Pechino nell’attrazione degli investimenti internazionali. Ad oggi, molte delle condizioni favorevoli esibite dall’economia cinese qui non hanno trovato terreno fertile, come suggerisce la carenza di infrastrutture.

Non si può nemmeno, però, sminuire il significato del cambiamento in atto. La Cina è sempre meno un’economia emergente e sempre più una potenza di rilievo internazionale. I salari continueranno ad essere fissati a Pechino, ma nei prossimi anni fungeranno sempre meno da tetto per quelli di numerose altre economie. I lavoratori dell’Est Europa dovranno forse iniziare a temere più i venti contrari di Bruxelles che non l’aria inquinata nella capitale cinese.

Salari cinesi pari o superiori ad alcuni salari europei
da vocidallestero.it

Tra gli effetti più deleteri della globalizzazione e della libera circolazione dei capitali in tutto il mondo vi è l’abbattimento del costo del lavoro dovuto alla disponibilità di enormi sacche di manodopera a basso costo. In questo articolo di Forbes si mostra come l’ingresso della Cina nel WTO e l’integrazione ad est dell’Unione europea abbiano più che raddoppiato, in poco più di un decennio, la forza lavoro dell’Europa occidentale, comportando una potente pressione al ribasso sul livello dei salari. Tra alcune zone dell’Europa e la Cina non c’è più differenza, o se c’è, è a favore della Cina. L’articolo, che ha una prima occhiata sembra la solita constatazione che “oggi c’è la Cina”, contiene invece due ammissioni rilevanti: la prima, che i salari cinesi stanno crescendo a gran ritmo; la seconda, che la nuova “Cina” del lavoro a basso costo sono i paesi dell’Europa dell’est, quelli che non a caso l’Unione europea sta puntando a inglobare.

Potremmo vederlo come un bicchiere mezzo pieno. O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. In realtà, si tratta di entrambe le cose.

Le retribuzioni mensili mediane cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione europea. Lo stipendio medio netto in Croazia è di $ 887 al mese. Ha aderito all’UE nel 2013.

Le retribuzioni mediane di Shanghai, in particolare, sono anche maggiori di due dei paesi baltici recentemente diventato membri dell’eurozona : Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Negli ultimi 10 anni, l’Europa ha cercato di integrare dentro l’Unione europea la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est. Nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale entrando a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’entrata di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo.

In gergo economico, questo è descritto come “appiattimento della curva di Phillips“, dice l’economista di VTB Capital Neil MacKinnon.

“L’impatto della globalizzazione e l’ingresso della Cina nell’OMC nel 2002 ha aumentato notevolmente l’offerta di manodopera globale“, afferma MacKinnon. L’eccesso di offerta di manodopera cinese e il flusso di merci cinesi a basso costo nell’economia mondiale ha creato un vantaggio per i consumatori globali, ma ha significato anche che determinati prodotti e posti di lavoro dell’Europa orientale hanno dovuto competere con la Cina, che ha prezzi più bassi. Catene di approvvigionamento e mercati a parte, il costo maggiore per un’azienda è la sua forza lavoro. La forza lavoro cinese viene finalmente retribuita. Le retribuzioni dell’Europa orientale, simili a quelle cinesi, fanno parte di un mondo il cui motto è diventato: qualsiasi cosa tu possa fare, la Cina può farla a minor costo.

La Cina stabilisce il prezzo per la manodopera manifatturiera e, in futuro, per la logistica relativa all’e-commerce. Alcuni europei dovrebbero sperare nei continui aumenti salariali della Cina se vogliono aumentare le loro stesse retribuzioni lorde.

La quota della Cina nel commercio mondiale (una media di esportazioni più importazioni) è aumentata da poco meno del 2% nel 1990 a quasi il 15% di oggi, secondo la Bank for International Settlements. Da allora, l’economia di mercato cinese si è integrata all’economia globale, guidata principalmente dalla sua forza lavoro, con un rapporto capitale-lavoro inferiore agli standard globali. La Cina sta iniziando solo ora ad automatizzare.

L’integrazione dell’Europa orientale in Occidente è spesso trascurata.

In un arco di tempo simile, dagli anni ’90 ad oggi, i paesi dell’Europa orientale sono usciti dall’orbita della Russia e si sono spostati verso ovest. Prima della caduta del comunismo, questi paesi erano rimasti più o meno isolati. La forza lavoro era abbondante e ben istruita, ma il capitale e il management erano limitati. Ne è seguita una combinazione fruttuosa: l’Europa occidentale ha fornito i soldi e il management, l’Europa dell’Est ha fornito la manodopera a basso costo.

I dati relativi all’integrazione della Cina e dell’Est Europa sono impressionanti. Contando solo la forza lavoro potenziale, la popolazione attiva in Cina e nell’Europa orientale tra i 20 e i 64 anni era di 820 milioni di persone nel 1990 e ha raggiunto 1,2 miliardi nel 2015. La popolazione attiva disponibile nei paesi europei industrializzati era di 685 milioni prima della crisi dell’Unione Sovietica nel 1990 e raggiungeva i 763 milioni nel 2014. Parliamo quindi di un aumento una tantum del 120% della forza lavoro, che ha schiacciato i salari per i lavoratori meno qualificati, secondo la BRI.

Usando come indicatore queste tre città cinesi, gli stipendi mediani dei lavoratori dipendenti sono più alti dei salari della parte più povera d’Europa: i vecchi Balcani dell’area comunista.

Proprio sul Mar Adriatico, di fronte alla ricca frontiera italiana, si trova una manodopera di tipo cinese. Anzi ancora più economica, in realtà. I lavoratori cinesi a Shanghai, Shenzhen e Pechino, in media, guadagnano più dei lavoratori in Albania, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Montenegro, nuovo paese membro della NATO, che ha un reddito medio di appena $ 896 al mese.

I salari medi di Shanghai non sono molto diversi da quelli della Polonia, a $ 1,569. Lo stesso vale per la Repubblica Ceca, dove lo stipendio medio a Praga, la sua città più ricca, si aggira intorno a $ 1400. Il salario medio lordo dell’Ungheria sta proprio al livello di Shanghai, a $ 1139 al mese.

La crescita dei salari in Cina è impressionante. Ottimo per i cinesi. Ma ha lasciato indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina come centro manifatturiero ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.
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Daniele
Saturday, 27 February 2021 10:42
I salari cinesi stanno superando quelli europei
16 Ottobre 2018 08:23 Internazionale - CinaE-mailStampaPDF
31 4949 0
cina operai elmettoProdurre in Cina non conviene più: lo stipendio degli operai di Pechino triplicato in 10 anni. Costano meno brasiliani e messicani.
da laconceria.it

Lo stipendio medio degli operai cinesi nel 2016 era di 3,60 dollari l’ora: il triplo rispetto al valore del 2005. Il salario delle tute blu di Pechino è ormai più alto di quello dei colleghi in Brasile e Messico (dove la paga nel decennio è invece calata) e quasi al livello di quelli di Grecia e Portogallo. Lo sostiene il centro studi Euromonitor International (su dati Eurostat, ufficio statistico cinese e International Labour Organisation) in un report ripreso da Financial Times. Secondo lo studio, l’aumento dei salari è legato anche alla progressiva crescita della produttività: lo stipendio nel manifatturiero è cresciuto di più di quello di altri settori, come agricoltura ed edilizia.

L’odierno livello dei salari, conclude lo studio, ha ripercussioni sugli equilibri internazionali (e questo è sotto gli occhi di tutti): chi continua a cercare produzioni a basso costo trasferisce le linee a seconda delle convenienze nel Sud Est asiatico, in Europa o in America Latina. Il governo cinese, intanto, lavora alla migrazione dal modello economico “Fabbrica del Mondo” alla nuova identità di Paese manifatturiero che non fa dell’economicità la propria leva competitiva.

Incredibile! I salari cinesi stanno superando quelli europei
da analysisrubrica.weebly.com

E’ questa la notizia a dir poco sensazionale che arriva dall’ estremo oriente, che ci fa conoscere Forbes, rivista statunitense di economia e finanza. Ovviamente questo dato sorprendente non è esteso all’ intero mondo del lavoro cinese, ma circoscritto ad alcuni settori dei distretti produttivi cinesi di maggior rilievo. Il raffronto con l’Europa si riferisce sopratutto alle nazioni dell’Est, ma non solo, certamente il dato è estremamente significativo, poiché avvalora la tendenza che in Cina vi è un progressivo e generalizzato incremento dei salari.

Per fare degli esempi, le retribuzioni mensili medie cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte della Croazia, ma potremmo aggiungere anche dell’Italia, pensiamo a chi percepisce da noi un salario di 700-800,00 euro al mese, che in dollari sono circa 850 - 970; inoltre, sempre quelle di Shanghai, sono maggiori su base mensile anche della Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Sempre secondo l’articolo di Forbes la crescita dei salari in Cina è impressionante. Questo è un ottimo risultato per i cinesi. Certamente risulta indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina, come centro manifatturiero, ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.

L’articolo però non ci dice il motivo per cui è avvenuta questa progressiva tendenza all’aumento degli stipendi in Cina, la risposta la possiamo trovare nel ragionamento dell’economista Antonino Galloni, che spiega come la Cina stia puntando ad incrementare la domanda interna di consumi e a diminuire le esportazioni. “Fino al 2012 infatti la priorità era esportare limitando la domanda interna, riducendo i salari, poi la Cina ha pensato di aumentare i salari dei lavoratori, ha iniziato a fare investimenti in infrastrutture, ospedali ecc..” ecco perché vi è stato un generale aumento dei salari. Non solo, ma secondo l’economista, lo stesso indirizzo lo troviamo in altri paesi come l’India, la Russia e gli stessi Usa. Mentre in Europa è ancora ben saldo il paradigma economico dell’export che, in nome della competitività, prevede salari bassi per i lavoratori. E’ proprio questo paradigma, afferma Galloni, che è necessario ribaltare, per consentire salari più alti per chi lavora in Europa e soprattutto in Italia, ciò consentirebbe una ripresa dei consumi e quindi un incremento della domanda interna, con ricadute positive sull’occupazione.

Cambiare si può, basta che chi governa il nostro Paese lo voglia, intanto i lavoratori attendono.

(FINE PRIMA PARTE)
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Daniele
Saturday, 27 February 2021 10:41
I salari cinesi stanno superando quelli europei
16 Ottobre 2018 08:23 Internazionale - CinaE-mailStampaPDF
31 4949 0
cina operai elmettoProdurre in Cina non conviene più: lo stipendio degli operai di Pechino triplicato in 10 anni. Costano meno brasiliani e messicani.
da laconceria.it

Lo stipendio medio degli operai cinesi nel 2016 era di 3,60 dollari l’ora: il triplo rispetto al valore del 2005. Il salario delle tute blu di Pechino è ormai più alto di quello dei colleghi in Brasile e Messico (dove la paga nel decennio è invece calata) e quasi al livello di quelli di Grecia e Portogallo. Lo sostiene il centro studi Euromonitor International (su dati Eurostat, ufficio statistico cinese e International Labour Organisation) in un report ripreso da Financial Times. Secondo lo studio, l’aumento dei salari è legato anche alla progressiva crescita della produttività: lo stipendio nel manifatturiero è cresciuto di più di quello di altri settori, come agricoltura ed edilizia.

L’odierno livello dei salari, conclude lo studio, ha ripercussioni sugli equilibri internazionali (e questo è sotto gli occhi di tutti): chi continua a cercare produzioni a basso costo trasferisce le linee a seconda delle convenienze nel Sud Est asiatico, in Europa o in America Latina. Il governo cinese, intanto, lavora alla migrazione dal modello economico “Fabbrica del Mondo” alla nuova identità di Paese manifatturiero che non fa dell’economicità la propria leva competitiva.

Incredibile! I salari cinesi stanno superando quelli europei
da analysisrubrica.weebly.com

E’ questa la notizia a dir poco sensazionale che arriva dall’ estremo oriente, che ci fa conoscere Forbes, rivista statunitense di economia e finanza. Ovviamente questo dato sorprendente non è esteso all’ intero mondo del lavoro cinese, ma circoscritto ad alcuni settori dei distretti produttivi cinesi di maggior rilievo. Il raffronto con l’Europa si riferisce sopratutto alle nazioni dell’Est, ma non solo, certamente il dato è estremamente significativo, poiché avvalora la tendenza che in Cina vi è un progressivo e generalizzato incremento dei salari.

Per fare degli esempi, le retribuzioni mensili medie cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte della Croazia, ma potremmo aggiungere anche dell’Italia, pensiamo a chi percepisce da noi un salario di 700-800,00 euro al mese, che in dollari sono circa 850 - 970; inoltre, sempre quelle di Shanghai, sono maggiori su base mensile anche della Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Sempre secondo l’articolo di Forbes la crescita dei salari in Cina è impressionante. Questo è un ottimo risultato per i cinesi. Certamente risulta indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina, come centro manifatturiero, ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.

L’articolo però non ci dice il motivo per cui è avvenuta questa progressiva tendenza all’aumento degli stipendi in Cina, la risposta la possiamo trovare nel ragionamento dell’economista Antonino Galloni, che spiega come la Cina stia puntando ad incrementare la domanda interna di consumi e a diminuire le esportazioni. “Fino al 2012 infatti la priorità era esportare limitando la domanda interna, riducendo i salari, poi la Cina ha pensato di aumentare i salari dei lavoratori, ha iniziato a fare investimenti in infrastrutture, ospedali ecc..” ecco perché vi è stato un generale aumento dei salari. Non solo, ma secondo l’economista, lo stesso indirizzo lo troviamo in altri paesi come l’India, la Russia e gli stessi Usa. Mentre in Europa è ancora ben saldo il paradigma economico dell’export che, in nome della competitività, prevede salari bassi per i lavoratori. E’ proprio questo paradigma, afferma Galloni, che è necessario ribaltare, per consentire salari più alti per chi lavora in Europa e soprattutto in Italia, ciò consentirebbe una ripresa dei consumi e quindi un incremento della domanda interna, con ricadute positive sull’occupazione.

Cambiare si può, basta che chi governa il nostro Paese lo voglia, intanto i lavoratori attendono.

(FINE PRIMA PARTE)
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Daniele
Saturday, 27 February 2021 10:39
I salari cinesi stanno superando quelli europei
16 Ottobre 2018 08:23 Internazionale - CinaE-mailStampaPDF
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cina operai elmettoProdurre in Cina non conviene più: lo stipendio degli operai di Pechino triplicato in 10 anni. Costano meno brasiliani e messicani.
da laconceria.it

Lo stipendio medio degli operai cinesi nel 2016 era di 3,60 dollari l’ora: il triplo rispetto al valore del 2005. Il salario delle tute blu di Pechino è ormai più alto di quello dei colleghi in Brasile e Messico (dove la paga nel decennio è invece calata) e quasi al livello di quelli di Grecia e Portogallo. Lo sostiene il centro studi Euromonitor International (su dati Eurostat, ufficio statistico cinese e International Labour Organisation) in un report ripreso da Financial Times. Secondo lo studio, l’aumento dei salari è legato anche alla progressiva crescita della produttività: lo stipendio nel manifatturiero è cresciuto di più di quello di altri settori, come agricoltura ed edilizia.

L’odierno livello dei salari, conclude lo studio, ha ripercussioni sugli equilibri internazionali (e questo è sotto gli occhi di tutti): chi continua a cercare produzioni a basso costo trasferisce le linee a seconda delle convenienze nel Sud Est asiatico, in Europa o in America Latina. Il governo cinese, intanto, lavora alla migrazione dal modello economico “Fabbrica del Mondo” alla nuova identità di Paese manifatturiero che non fa dell’economicità la propria leva competitiva.

Incredibile! I salari cinesi stanno superando quelli europei
da analysisrubrica.weebly.com

E’ questa la notizia a dir poco sensazionale che arriva dall’ estremo oriente, che ci fa conoscere Forbes, rivista statunitense di economia e finanza. Ovviamente questo dato sorprendente non è esteso all’ intero mondo del lavoro cinese, ma circoscritto ad alcuni settori dei distretti produttivi cinesi di maggior rilievo. Il raffronto con l’Europa si riferisce sopratutto alle nazioni dell’Est, ma non solo, certamente il dato è estremamente significativo, poiché avvalora la tendenza che in Cina vi è un progressivo e generalizzato incremento dei salari.

Per fare degli esempi, le retribuzioni mensili medie cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte della Croazia, ma potremmo aggiungere anche dell’Italia, pensiamo a chi percepisce da noi un salario di 700-800,00 euro al mese, che in dollari sono circa 850 - 970; inoltre, sempre quelle di Shanghai, sono maggiori su base mensile anche della Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Sempre secondo l’articolo di Forbes la crescita dei salari in Cina è impressionante. Questo è un ottimo risultato per i cinesi. Certamente risulta indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina, come centro manifatturiero, ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.

L’articolo però non ci dice il motivo per cui è avvenuta questa progressiva tendenza all’aumento degli stipendi in Cina, la risposta la possiamo trovare nel ragionamento dell’economista Antonino Galloni, che spiega come la Cina stia puntando ad incrementare la domanda interna di consumi e a diminuire le esportazioni. “Fino al 2012 infatti la priorità era esportare limitando la domanda interna, riducendo i salari, poi la Cina ha pensato di aumentare i salari dei lavoratori, ha iniziato a fare investimenti in infrastrutture, ospedali ecc..” ecco perché vi è stato un generale aumento dei salari. Non solo, ma secondo l’economista, lo stesso indirizzo lo troviamo in altri paesi come l’India, la Russia e gli stessi Usa. Mentre in Europa è ancora ben saldo il paradigma economico dell’export che, in nome della competitività, prevede salari bassi per i lavoratori. E’ proprio questo paradigma, afferma Galloni, che è necessario ribaltare, per consentire salari più alti per chi lavora in Europa e soprattutto in Italia, ciò consentirebbe una ripresa dei consumi e quindi un incremento della domanda interna, con ricadute positive sull’occupazione.

Cambiare si può, basta che chi governa il nostro Paese lo voglia, intanto i lavoratori attendono.

Cina, i salari degli operai dei cantieri crescono troppo in fretta
da themeditelegraph.com

Genova - Un operaio guadagna quasi mille dollari al mese, più del doppio di 10 anni fa. E gli investitori stranieri si spaventano.

Genova - La crescita economica in Cina rischia di compromettere tutto il vantaggio accumulato dall’industria navalmeccanica nei confronti dei competitor asiatici. Dieci anni fa gli investitori stranieri erano stati attratti da Pechino grazie ai costi bassi dei salari e alla grande disponibilità di manodopera a basso costo. Ma quelle condizioni oggi sembrano essere terminate: «In dieci anni la paga di un operaio cinese è più che raddoppiata ed è arrivata a 945 dollari al mese» spiegano gli analisti.

Per ora rimane un buon salario per le aziende, anche comparato con gli altri mestieri cinesi che stanno progressivamente conoscendo un aumento, ma il trend verso l’alto spaventa i calcoli degli investitori stranieri, sempre a caccia di tagli ai costi in un mercato difficile come quello dei cantieri navali.

Cina, il lavoro costa. E Samsung chiude la fabbrica
da ilgiornale.it

Nelle metropoli salari al livello dell'Europa dell'est, i vicini asiatici sono sempre più appetibili

La notizia non è ancora ufficiale, ma Samsung ammette che ci sta pensando su: il colosso sudcoreano dell'elettronica valuta di sospendere la produzione di smartphone in uno dei suoi due stabilimenti cinesi, quello che si trova a Tianjin (nel nord del Paese).

Il motivo? Innanzitutto la concorrenza, perché i marchi locali Huawei e Xiaomi negli ultimi cinque anni si sono mangiati tutto il mercato: basti pensare che nel 2013 la quota detenuta da Samsung era del 20% mentre quest'anno è scesa sotto l'1%. E poi c'è il problema legato al costo del lavoro che in Cina cresce ormai da una quindicina d'anni e rende sempre meno vantaggioso produrre nella terra del Dragone.

Pechino non è più la capitale della manodopera a basso costo. Nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale entrando a far parte dell'Organizzazione mondiale del Commercio, e da allora il progressivo aumento della produttività ha spinto in alto i redditi. Inoltre ormai tutte le grandi metropoli hanno stabilito uno stipendio minimo: l'ultima a farlo è stata Shangai dove gli operai dovranno essere pagati almeno 2300 yuan al mese, vale a dire 333 dollari americani; il che significa +5% rispetto a un anno fa.

Naturalmente c'è ancora un forte disequilibrio tra le aree rurali e le grandi città, dove si sta facendo largo una manodopera qualificata i cui standard si avvicinano a quelli occidentali. Parlando di salari medi Shangai è la città cinese dove si guadagna meglio, circa 1.200 dollari al mese. A Pechino e a Shenzen si viaggia intorno ai 1000, ma sono comunque livelli retributivi ormai paragonabili a quelli dei Paesi dell'Europa dell'est: non come in Polonia o della Repubblica Ceca, però sullo stesso piano della Lituania, della Lettonia o dell'Estonia e addirittura più alti della Croazia. E se in Cina tra il 2005 e il 2016 le paghe medie orarie del settore manifatturiero sono triplicate, nello stesso periodo in altre zone del mondo - come ad esempio in America Latina - la tendenza è stata alla diminuzione. Questo fa si che da qualche anno le multinazionali preferiscano delocalizzare altrove.

La concorrenza globale e in particolare quella di Paesi vicini come Taiwan, ma anche Malesia, Thailandia, Vietnam e India, insomma, è sempre più forte. Da un paio d'anni sembra essersene reso conto anche il governo cinese: da un lato il vice ministro del Lavoro Xin Changxing ha sottolineato come la Cina debba restare competitiva con i concorrenti asiatici, dall'altro le autorità stanno cercando di trovare un equilibrio tra datori di lavoro e impiegati che garantisca la stabilità sociale senza arrivare agli eccessi del capitalismo di casa nostra.

Se fino al 2016 la crescita dei salari è stata a due cifre ora ha un po' rallentato, ma i tempi in cui produrre in Cina costava pochissimo sono ormai lontani e non torneranno più. Altri potrebbero seguire l'esempio di Samsung: gli equilibri mondiali stanno già cambiando.

La Cina aggancia l’Europa dell’Est, ecco la svolta sui salari
da lamescolanza.com

I salari cinesi non sono più così a buon mercato come in passato e l’Europa dell’Est potrebbe approfittarne.

I testi di economia del lavoro spiegano ormai dall’inizio del Millennio che “i salari si fissano a Pechino”, un’espressione che punta a rimarcare come sia l’economia asiatica ormai a influenzare i meccanismi di formazione dei prezzi, inclusi gli stipendi. La Cina è la seconda potenza economica al mondo dopo gli USA ed entro il prossimo decennio potrebbe diventare la prima. Quel che accade al suo interno non può mai passare inosservato, perché rischia di avere prima o poi ripercussioni sulle nostre vite, anche perché qui vi abita quasi un abitante su cinque della Terra.

E proprio dalla Cina arriva una notizia, destinata ad avere conseguenze a medio-lungo termine anche sulle economie avanzate. Secondo Forbes, lo stipendio mensile medio di città come Shanghai ($1.135), Pechino ($983) e Shenzen ($938) avrebbe raggiunto e superato quello di alcune economie dell’Europa dell’Est. Un esempio? Lo stipendio medio mensile di un lavoratore croato è di appena 887 dollari, quello di lituano di 956, di un lettone di 1.005, mentre in Estonia si arriva a 1.256 dollari e in Ungheria a 1.139 dollari.

Nel giro di qualche anno, poi, sembra alla portata per i cinesi raggiungere i livelli salariali dei colleghi polacchi ($1.569) e cechi ($1.400), dati gli elevati ritmi di crescita dei primi, rispetto a quelli pur soddisfacenti degli europei orientali.

Salari cinesi sempre meno allettanti per il capitale

Aver colmato il gap salariale con parte dell’Europa rappresenta una svolta per la società cinese e, soprattutto, per quella delle economie più ricche del pianeta. Il costo del lavoro è notoriamente una delle principali variabili, che determina lo spostamento dei capitali da un’economia a un’altra. Se un lavoratore italiano costa 1.000 e uno cinese costa 100, esiste un impulso per le aziende a spostarsi dall’Italia alla Cina.

Se ciò è vero, il raggiungimento dei salari est-europei farebbe ipotizzare un minore incentivo da parte delle multinazionali a delocalizzare la produzione in Cina, disponendo di manodopera qualificata e dai costi simili nel Vecchio Continente. Certo, il costo del lavoro non è l’unica variabile ad essere tenuta in considerazione in fase di investimento. Anche la burocrazia, le norme ambientali, i diritti sindacali e la tassazione incidono moltissimo.

In ogni caso, possiamo affermare che esisterebbero già alcune condizioni minime per prevedere una minore fuga delle aziende verso la Cina, specie quando nei prossimi anni verranno agganciati i livelli salariali di un numero crescente di paesi dell’Est. A quel punto, per un’impresa tedesca risulterebbe sempre meno appetibile aprire battenti in Cina, piuttosto che nella vicina Polonia, così come per una italiana sarà relativamente più conveniente puntare sulla Croazia.

Lavoratori cinesi fanno meno paura?

Non è ancora la fine di un’era, ma l’inizio di una svolta sì. Non è nemmeno detto che non verranno trovate nuove realtà simili alla Cina. In quei paraggi in Asia esiste un altro gigante da 1,3 miliardi di abitanti – l’India – che potrebbe sostituire progressivamente Pechino nell’attrazione degli investimenti internazionali. Ad oggi, molte delle condizioni favorevoli esibite dall’economia cinese qui non hanno trovato terreno fertile, come suggerisce la carenza di infrastrutture.

Non si può nemmeno, però, sminuire il significato del cambiamento in atto. La Cina è sempre meno un’economia emergente e sempre più una potenza di rilievo internazionale. I salari continueranno ad essere fissati a Pechino, ma nei prossimi anni fungeranno sempre meno da tetto per quelli di numerose altre economie. I lavoratori dell’Est Europa dovranno forse iniziare a temere più i venti contrari di Bruxelles che non l’aria inquinata nella capitale cinese.

Salari cinesi pari o superiori ad alcuni salari europei
da vocidallestero.it

Tra gli effetti più deleteri della globalizzazione e della libera circolazione dei capitali in tutto il mondo vi è l’abbattimento del costo del lavoro dovuto alla disponibilità di enormi sacche di manodopera a basso costo. In questo articolo di Forbes si mostra come l’ingresso della Cina nel WTO e l’integrazione ad est dell’Unione europea abbiano più che raddoppiato, in poco più di un decennio, la forza lavoro dell’Europa occidentale, comportando una potente pressione al ribasso sul livello dei salari. Tra alcune zone dell’Europa e la Cina non c’è più differenza, o se c’è, è a favore della Cina. L’articolo, che ha una prima occhiata sembra la solita constatazione che “oggi c’è la Cina”, contiene invece due ammissioni rilevanti: la prima, che i salari cinesi stanno crescendo a gran ritmo; la seconda, che la nuova “Cina” del lavoro a basso costo sono i paesi dell’Europa dell’est, quelli che non a caso l’Unione europea sta puntando a inglobare.

Potremmo vederlo come un bicchiere mezzo pieno. O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. In realtà, si tratta di entrambe le cose.

Le retribuzioni mensili mediane cinesi a Shanghai ($ 1,135), Pechino ($ 983) e Shenzen ($ 938) sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione europea. Lo stipendio medio netto in Croazia è di $ 887 al mese. Ha aderito all’UE nel 2013.

Le retribuzioni mediane di Shanghai, in particolare, sono anche maggiori di due dei paesi baltici recentemente diventato membri dell’eurozona : Lituania ($ 956) e Lettonia ($ 1,005), con l’Estonia, che ha aderito all’euro nel 2011, che secondo i dati del governo registra un reddito medio di $ 1,256 al mese nel 2016.

Negli ultimi 10 anni, l’Europa ha cercato di integrare dentro l’Unione europea la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est. Nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale entrando a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’entrata di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo.

In gergo economico, questo è descritto come “appiattimento della curva di Phillips“, dice l’economista di VTB Capital Neil MacKinnon.

“L’impatto della globalizzazione e l’ingresso della Cina nell’OMC nel 2002 ha aumentato notevolmente l’offerta di manodopera globale“, afferma MacKinnon. L’eccesso di offerta di manodopera cinese e il flusso di merci cinesi a basso costo nell’economia mondiale ha creato un vantaggio per i consumatori globali, ma ha significato anche che determinati prodotti e posti di lavoro dell’Europa orientale hanno dovuto competere con la Cina, che ha prezzi più bassi. Catene di approvvigionamento e mercati a parte, il costo maggiore per un’azienda è la sua forza lavoro. La forza lavoro cinese viene finalmente retribuita. Le retribuzioni dell’Europa orientale, simili a quelle cinesi, fanno parte di un mondo il cui motto è diventato: qualsiasi cosa tu possa fare, la Cina può farla a minor costo.

La Cina stabilisce il prezzo per la manodopera manifatturiera e, in futuro, per la logistica relativa all’e-commerce. Alcuni europei dovrebbero sperare nei continui aumenti salariali della Cina se vogliono aumentare le loro stesse retribuzioni lorde.

La quota della Cina nel commercio mondiale (una media di esportazioni più importazioni) è aumentata da poco meno del 2% nel 1990 a quasi il 15% di oggi, secondo la Bank for International Settlements. Da allora, l’economia di mercato cinese si è integrata all’economia globale, guidata principalmente dalla sua forza lavoro, con un rapporto capitale-lavoro inferiore agli standard globali. La Cina sta iniziando solo ora ad automatizzare.

L’integrazione dell’Europa orientale in Occidente è spesso trascurata.

In un arco di tempo simile, dagli anni ’90 ad oggi, i paesi dell’Europa orientale sono usciti dall’orbita della Russia e si sono spostati verso ovest. Prima della caduta del comunismo, questi paesi erano rimasti più o meno isolati. La forza lavoro era abbondante e ben istruita, ma il capitale e il management erano limitati. Ne è seguita una combinazione fruttuosa: l’Europa occidentale ha fornito i soldi e il management, l’Europa dell’Est ha fornito la manodopera a basso costo.

I dati relativi all’integrazione della Cina e dell’Est Europa sono impressionanti. Contando solo la forza lavoro potenziale, la popolazione attiva in Cina e nell’Europa orientale tra i 20 e i 64 anni era di 820 milioni di persone nel 1990 e ha raggiunto 1,2 miliardi nel 2015. La popolazione attiva disponibile nei paesi europei industrializzati era di 685 milioni prima della crisi dell’Unione Sovietica nel 1990 e raggiungeva i 763 milioni nel 2014. Parliamo quindi di un aumento una tantum del 120% della forza lavoro, che ha schiacciato i salari per i lavoratori meno qualificati, secondo la BRI.

Usando come indicatore queste tre città cinesi, gli stipendi mediani dei lavoratori dipendenti sono più alti dei salari della parte più povera d’Europa: i vecchi Balcani dell’area comunista.

Proprio sul Mar Adriatico, di fronte alla ricca frontiera italiana, si trova una manodopera di tipo cinese. Anzi ancora più economica, in realtà. I lavoratori cinesi a Shanghai, Shenzhen e Pechino, in media, guadagnano più dei lavoratori in Albania, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Montenegro, nuovo paese membro della NATO, che ha un reddito medio di appena $ 896 al mese.

I salari medi di Shanghai non sono molto diversi da quelli della Polonia, a $ 1,569. Lo stesso vale per la Repubblica Ceca, dove lo stipendio medio a Praga, la sua città più ricca, si aggira intorno a $ 1400. Il salario medio lordo dell’Ungheria sta proprio al livello di Shanghai, a $ 1139 al mese.

La crescita dei salari in Cina è impressionante. Ottimo per i cinesi. Ma ha lasciato indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa. Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina come centro manifatturiero ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce.
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Carlo Marzo
Friday, 26 February 2021 17:42
Che poi vi vorrei vedere lavorare in una fabbrica cinese (ma anche europea o nordamericana)...
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Daniele
Friday, 26 February 2021 19:40
In 10 anni i salari cinesi sono triplicati. Ora la Cina è paragonabile al Portogallo!

Pubblicato il 28 Febbraio 2017 in Asia/Economia e Lavoro/Internazionale di Redazione

“Salari (ti)cinesi” è lo slogan coniato dal sindacato UNIA per lamentarsi dei bassi salari nel Canton Ticino. Uno slogan dal carattere poco internazionalista, lo aveva giudicato in passato il Partito Comunista. E ora uno slogan semplicemente scorretto poiché il salario medio dei lavoratori del settore manifatturiero in Cina, infatti, ha definitivamente superato quello dei loro colleghi brasiliani e messicani e si sta avvicinando rapidamente a quello dei greci e dei portoghesi.



George Mavrikos, segretario della Federazione Sindacale Mondiale parla a Pechino

GEORGE MAVRIKOS, SEGRETARIO DELLA FEDERAZIONE SINDACALE MONDIALE PARLA A PECHINO

Insomma il paese asiatico, considerato uno dei luoghi di maggiore sfruttamento del pianeta secondo alcuni sindacalisti occidentali, è quello che più di tutti registra continui aumenti salariali. A dirlo è una ricerca di Euromonitor International che dimostra come la retribuzione per un’ora di lavoro in Cina è superiore a quella di tutti i paesi dell’America latina (tranne il Cile) ed è pari al 70% di quella dei paesi più deboli dell’area Euro (quali Portogallo e Grecia). Tra il 2005 e il 2016 il salario orario medio in Cina è inoltre triplicato. Si tratte di ricerche che tengono in considerazione i dati ufficiali dell’Organizzazione internazionale per il lavoro (ILO) e tengono conto dell’inflazione, ma non prendono in considerazione le diversità del costo della vita nei vari paesi esaminati.



Mentre in Cina il progresso degli standard di vita del popolo è in crescita notevole, in Grecia, ad esempio, le disastrose politiche della Troika (Banca centrale europea, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) hanno causato il dimezzamento dei salari rispetto al 2009.
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Anche l'orario di lavoro è triplicato...
Friday, 26 February 2021 22:10
E infatti si delocalizza in Cina e non in Portogallo....
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Carlo Marzo
Friday, 26 February 2021 17:26
Ma esattamente di cosa vi fate? Vi iniettate direttamente in vena i liquidi di decomposizione di Stalin e Mao?
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