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Gli anni buoni, gli anni brutti e domani chissà!

di Valerio Romitelli

Premessa di Giorgio Gattei

1641984836504Valerio Romitelli ha raccolto una serie di suoi interventi dal 2015 al 2021 (in parte occasionali, ma alcuni anche sistematici come “L’egemonismo, malattia senile del comunismo”) in un volume che ha intitolato L’emancipazione a venire. Dopo la fine della storia (DeriveApprodi, Roma, 2021) convinto com’è che l’emancipazione del/dal lavoro (però su questo scelta lui non si addentra) prima o poi ha da venire essendo iscritta nella “cosa del capitale” (alla faccia della maledizione keynesiana per cui «nel lungo periodo siamo tutti morti», ma «mica tutti assieme» gli aveva replicato la dispettosa discepola Joan Robinson). E a questa raccolta ha premesso una corposa introduzione in 13 punti che, «in barba alla complessità obbligatoriamente evocata in ogni discorso accademico contemporaneo, mireranno alla semplificazione sistematica dei temi affrontati».

In questa introduzione Valerio s’interroga, da «compagno/non compagno» (come si auto-definisce), ma «sempre controcorrente perchè condizione obbligatoria per poter pensare con la propria testa anche in merito a questioni come quelle politiche, le quali notoriamente obbligano alla condivisione con altri il più possibile estesa», su dove sia andata a finire la “sinistra di classe” e la specificazione è d’obbligo per evitare di confonderla con la melassa della “sinistra buonista” che sempre si commuove per la mala sorte degli sfruttati, dei poveri, dei deboli e li soccorre anche, ma non si propone mai il problema pratico, che innanzi tutto è teorico, di “superare” quella loro condizione di debolezza, povertà, sfruttamento.

In questa rivisitazione degli anni che ci siano lasciti alle spalle Valerio riconosce due fasi storiche antitetiche che oppongono ai «trent’anni gloriosi», approssimativamente dal 1945 al 1975, in cui dappertutto si erano aperte emancipazioni che sembravano definitive per salariati, neri, donne, omosessuali e quanti altri, i successivi «trent’anni ingloriosi» dal 1975 al 2005 più o meno in cui quelle emancipazioni sono state frenate se non addirittura erose ad opera di una“lotta classe dall’alto” (per opera di ciò che una volta avremmo chiamato il Capitale) che si è imposta sulla “lotta di classe dal basso” che praticavano invece i proletari e i loro alleati). Certamente a questa sconfitta hanno contribuito anche responsabilità soggettive di leaders “sinistri” come il Kruscev della “destalinizzazione”, i Berlinguer/Marchais dell’“eurocomunismo”, il Gorbaciov della “perestroika”, i Prodi, Clinton e Blair dell’“Ulivo mondiale”, ma è troppo facile prendersela con le persone perchè la sconfitta è avvenuta “nelle cose”, in una mutazione strutturale del capitale che ha cambiato le carte in tavola costringendo le “soggettività insorgenti”, che il nuovo gioco non lo conoscevano, ad abbandonare il tavolo fino a ritrovarsi ormai ai margini, «sempre più disperse, disorganizzate, ossessionate dalla propria sopravvivenza, assediate dalla disperazione». Ma nel futuro che cosa dobbiamo aspettarci? Forse i “trent’anni schifosi” (peraltro già cominciati) di un “sovranismo populista”, da intendersi «con il termine sovranismo come una predilezione politica per un “sopra”, dunque per una supremazia e una quindi una gerarchia, mentre col populismo si indica la preferenza per una porzione di umanità cui si sente di appartenere, piuttosto che per l’umanità intera»?

Però può anche darsi che non finisca così perchè Valerio, a differenza dei “proudhoniani” d’ogni fatta per cui «di storia ce n’è stata, ma ora non ce n’è più», sa che di storia ce ne sarà ancora tanta, dato che le soggettività ribelli, mai dome, continuano ad operare nel profondo del capitale scavando gallerie, tunnel, cunicoli finché, giusta la bella immagine marxiana, la “talpa della storia” che, sebbene vecchia e cieca sempre «lavora con metodo», riemergerà nuovamente all’aperto e «allora l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato, vecchia talpa!».

Valerio condivide infatti l’indicazione del suo maestro Alain Badiou sulla inevitabile comparsa di un “evento” che «eccede i limiti che l’epoca storica gli assegna» interrompendo la sequenza prevedibile in atto e creando possibilità le cui conseguenze, organizzate da soggetti che se ne facciano carico, innesceranno una procedura di verità che illuminerà la storia di un senso nuovo. Per questo Valerio affida l’emancipazione che verrà ad un «evento inatteso», da intendersi come «ciò che insorge, si configura, crea scie» e che «arriva sempre un po’ per caso, in circostanze particolari e in modo tanto incerto che solo retrospettivamente lo si potrà scorgere», e succederà perchè è sempre successo, dal dì della presa dalla Bastiglia nel 1789, da cui la storia della sinistra di classe ha preso le mosse, alla cannonata dell’incrociatore Aurora a San Pietroburgo nel 1917 che ha dato il via alla Grande Rivoluzione Sovietica al dazebao di Mao Tse-Tung che a Pechino nel 1966 ha scatenato una Rivoluzione Culturale finita addirittura planetaria (e con quella parola d’ordine di “Fuoco sul Quartier generale” grande come il “Via da Roma” di Martin Lutero). Ma può anche darsi che questo evento, nella complicata congiuntura attuale di epidemia con “guerra calda” al seguito, possa essere già accaduto e noi non ce ne fossimo accorti. E allora, nell’attesa di riconoscerlo nella trama della storia, non potrebbe essere utile ripensare al tempo passato, a quando fu che eravamo quasi dei e che poi non lo fummo più? Ringraziamo Valerio per l’autorizzazione a pubblicare in questo sito le pp. 29-36 della sua Emancipazione a venire

(G.G.)

* * * *

Da Valerio Romitelli, L’emancipazione a venire, DeriveApprodi, Roma, 2021

8. I “Trent’anni gloriosi”

L’epoca dei “Trent’anni gloriosi” ha come primo antecedente soggettivo cruciale la fedeltà all’evento di Stalingrado (la grande battaglia che ha visto la prima vera disfatta dei nazisti da parte dei sovietici, durata dal luglio 1942 fino al febbraio del 1943), simbolo eminente per tutta la resistenza anti-nazifascista[1], grazie alla quale l’intera Europa si riscatta dall’onta di avere per lo più collaborato con lo stesso nazifascismo. Ulteriore evento che segna il prosieguo di questa epoca è da considerarsi il successivo e tanto discusso Sessantotto. È in rapporto a questi due eventi così politicamente rilevanti che va compresa la folta presenza di soggetti politicamente fedeli emersa in questi trent’anni. E sarebbe proprio a tali soggetti che si dovrebbero tutti gli inauditi fenomeni intervenuti appunto tra il 1945 e il 1975, specie in Europa ma anche altrove, quali salari in ascesa, scolarizzazione di massa, riduzione delle differenze tra ricchi e poveri, creazione del ceto medio, decolonizzazione dei paesi allora detti in “via di sviluppo”, lotta al neocolonialismo nascosto sotto tale decolonizzazione, costituzione del polo di “paesi non allineati” e così via – senza dimenticare che il cosiddetto miracolo economico, quello che fa dell’Italia un paese industriale, risale anche esso proprio a questi anni (segnatamente tra il 1958 e il 1962). Il mondo, si può dire, non ha mai conosciuto, né prima, né dopo, un paragonabile momento di giustizia sociale montante a livello mondiale.

Ma quali sarebbero più esattamente i corpi di questi soggetti politicamente fedeli? Anzitutto i movimenti, i Partiti e gli Stati comunisti: quelli sovietici e quelli ad essi vicini, allora più che mai in espansione in mezzo mondo e con imitazioni straordinariamente numerose nell’altra metà. Secondariamente però vanno considerati anche i movimenti, i Partiti e gli Stati dichiaratamente filostatunitensi e anticomunisti che comunque (ad esempio con la proclamazione nel 1948 all’Onu dei diritti universali da parte di Eleanor Roosevelt) accettarono il terreno della giustizia universale come arena di confronto e scontro. È dunque stato così che ha avuto seguito e valorizzazione l’esperienza della resistenza antifascista innescatasi dopo Stalingrado, da intendersi come evento nel quale l’idea della giustizia universale aveva trovato il suo primo riscatto rispetto al suo annientamento previsto dall’asse Roma-Berlino-Tokio.

Come situare quindi in tale epoca il tanto discusso Sessantotto? Si è trattato in effetti di un evento di portata globale, complesso ed enigmatico, variamente interpretato e interpretabile, ma che ha indubbiamente costituito un tornante all’interno del tragitto di questa epoca. Già dal 1961, anno di costruzione del fatidico muro di Berlino, si può riscontare come l’egemonia politica sovietica perda sempre più colpi, anche ad opera dello scissionismo maoista, ma è con l’acme raggiunto da quest’ultimo con lo scatenamento della Rivoluzione culturale (iniziata nel 1966) e con la breve ma intesa esperienza della Comune di Shangai (del 1968) che le tinte dell’epoca cambiano radicalmente nel mondo intero. Se prima del Sessantotto i protagonisti politici di questa epoca erano i Partiti e gli Stati sovietici e filosovietici, dopo il Sessantotto i protagonisti politici mondiali diventano i movimenti e le organizzazioni, sì sempre comunisti, ma per lo più in sintonia con la Rivoluzione culturale cinese e come questa fuori delle istituzioni. Se fino al Sessantotto la figura politica preminente è quella del militante esperto, esecutore della linea del partito, dopo diventano protagonisti giovani militanti che con tutte le immani difficoltà del caso si sforzano di cavar fuori le proprie strategie politiche facendosi istruire da masse generiche, senza qualità.

Quando e perché finisce questa epoca? Se ci si attiene alle definizioni economiche che hanno reso celebre l’espressione “Trent’anni gloriosi” i primi segni del loro tramonto vengono fatti risalire alla crisi petrolifera del ’73. Nell’ottica tutta politica che qui propongo e che esalta questi anni come “gloriosi” anche e soprattutto per il comunismo non ci si può non attenere ad una periodizzazione che includa anche il definitivo e strabiliante trionfo di Vietnam e Cambogia sulla truculenta e ostinata invasione statunitense.

Negli anni seguenti[2] invece si comincia ad assistere ad una netta controffensiva capitalista grazie a leadership come quelle di Reagan, di Thatcher e di Woytila, nonché sotto le insegne di quelle dottrine neoliberali destinate a diventare mondialmente egemoni[3]. Perché ciò si realizzi compiutamente occorrerà però attendere il definitivo disfacimento del mondo comunista. Cosa che viene in un certo senso annunciata da fatti come l’invasione vietnamita della Cambogia nel 1979, ma che si compie in tutte le sue più disastrose conseguenze a cavallo tra gli ultimi anni ’80 e i primi anni ’90 (con lo smantellamento del Muro di Berlino nel 1989[4], con la rivolta e la repressione di piazza Tienanmen che sancisce l’irreversibilità delle riforme di Deng per la conversione della Cina al capitalismo e infine con la irreversibile disgregazione dell’Urss nel 1991).

 

9. Il breve trionfo della democrazia neoliberale

Questa nuova epoca che va all’incirca dalla fine degli anni ’80 al primo decennio del Terzo millennio acquista dunque una sua precisa fisionomia a partire dagli anni ’90. Tratto saliente di questa fisionomia sta nel troppo spesso sottostimato dominio assoluto degli Stati Uniti, per la prima volta senza rivali, né limiti sulla scena internazionale. Qualcosa di mai accaduto nella storia, a nessuna potenza imperialista mondialmente egemone, neanche a quella britannica. Dopo il crollo dell’Urss e l’inizialmente travagliata conversione della Cina al capitalismo, la democrazia americana ha insomma potuto trionfare, e come ogni trionfo anche questo non si è limitato a confermare le cose come stavano. In questo lasso di tempo durato all’incirca un ventennio al comando degli Stati Uniti si sono succeduti i presidenti Reagan, Bush padre, Clinton, Bush figlio e Obama, i quali si sono dunque ritrovati addosso l’onere senza precedenti di governare il mondo senza alcuna sponda di contenimento. Ed è in un contesto simile che la maggior parte degli Stati europei, già riuniti nella Nato in funzione anticomunista, è stata indotta ad un ulteriore livello di unificazione, oltre a quello militare che rischiava di risultare superfluo col disfarsi dell’Urss. Di qui, la moneta unica, l’Euro, così da configurare una gerarchia tra le economie delle nazioni aderenti, al cui vertice si è ritrovata non a caso quella tedesca che tra quelle europee, dopo la disfatta del nazismo, era l’economia con il Paese più militarmente innocuo.

Sotto l’egida americana a partire soprattutto dagli anni ’90 è stata allora dispiegata a livello planetario una vasta gamma di operazioni tipiche della soggettività più sopra definita conservatrice. Conservatrice rispetto a che? Si ricorderà che secondo la teoria qui assunta la risorsa originaria di ogni figura rilevante della soggettività collettiva va cercata in un evento. Ora l’evento di riferimento, quello rispetto alle cui conseguenze politicamente corrosive c’era da attuare un sistematico restauro conservativo, non poteva che essere soprattutto l’ultimo grande sconvolgimento che aveva caratterizzato l’epoca precedente, quella dei “Trent’anni gloriosi”: sarebbe a dire il Sessantotto. Prima che i suoi effetti più dirompenti si fossero attenuati c’erano voluti, sia la fine di quella stessa epoca che abbiamo datato attorno al 1975 sia il disfacimento del comunismo iniziato alla fine degli anni ’80. È così che cogli anni ’90 i tempi erano diventati maturi per chiudere i conti con questo passato così perturbante: ben rare e non di portata universale erano allora divenute infatti le esperienze politiche che ancora si cimentavano a tenerne vivo lo spirito rivoluzionario.

Ciò che ancora a livello di opinione aleggiava della radicalità politica di quell’evento è stato allora, dagli anni ’80 in poi, assunto, censito, selezionato per essere contraffatto, finalizzato a obiettivi del tutto eterogenei rispetto ai suoi primari impulsi sovversivi. È così che si è potuto procedere alla ricostruzione di un nuovo ordine mondiale, nonché rilanciare la pretesa di un nuovo secolo americano. Con, in soprappiù, anche la diffusione delle calunnie (ora molto apprezzate specie tra i sovranisti di sinistra[5]) verso lo stesso Sessantotto, tacciato di essere stato esso stesso non un formidabile rilancio politico dei “Trent’anni gloriosi” dopo il declino sovietico, ma una culla di comportamenti e riflessioni inevitabilmente destinate a confluire nelle dottrine neoliberali. Figura più che mai emblematica di questo strano fenomeno della rielaborazione conservatrice all’americana delle conseguenze del Sessantotto è stata la nota corrente, particolarmente rilevante tra i vertici governativi, e aggressiva, sul piano delle strategie guerrafondaie, dei cosiddetti “neocon” dotati di una formazione trotskista coltivata più che mai appunto negli anni attorno al Sessantotto[6].

Schematizzando all’estremo, le suggestioni sessantottine riciclate nell’epoca del trionfo statunitense possono essere considerate le seguenti. Da un lato, l’antiautoritarismo e l’antiburocratismo; dall’altro, l’antindividualismo egoistico. E inoltre un apprezzamento, se non la diretta promozione del volontariato filantropico.

Perché e come tutto ciò provenga dal Sessantotto va da sé[7]. Meno intuitivo è invece perché e come lo spirito del capitalismo americano, una volta giunto a governare da solo il mondo, abbia saputo e potuto appropriarsene e servirsene. Esiste infatti un’ampia corrente di riflessioni che sostiene tutto il contrario di quanto appena descritto e che in particolare considera le dottrine neoliberali congenitamente incompatibili con la democrazia e invece inclini ai regimi autoritari. Le prove più evidenti di questa inclinazione sono solitamente tratte da alcuni episodi come il famigerato rapporto della Commissione trilaterale che nei primi anni ’70 lamentava un eccesso di democrazia in Stati Uniti, Europa e Giappone[8], o la collaborazione tra quel laboratorio fondativo delle dottrine neoliberali che fu la scuola di Chicago di Milton Friedman e la dittatura di Pinochet in Cile.

Non è però troppo complicato convincersi che simili episodi rappresentano più eccezioni che la regola. Stando infatti ad analisi come quelle di Philippe Schmitter[9] è del tutto evidente che nel mondo degli anni ’90 la diffusione e l’applicazione senza precedenti delle politiche neoliberali in favore della globalizzazione dei mercati e della finanza sono state assolutamente concomitanti con la massima espansione dei regimi democratici (passati da 147, nel 1988, a 191, nel 1999). Al punto che Colin Crouch commentando tali dati non esita a parlare di questi anni in modo del tutto prossimo a quello qui proposto come “epoca della democrazia”.

Se si crede che un simile risultato sia l’esito di un cammino millenario iniziato nell’Atene di Pericle – come tanta letteratura americana, e non, insiste a raccontare non senza ingenuità clamorose – può apparire del tutto casuale che allo stesso tempo si siano diffuse nel mondo le dottrine neoliberali. Se invece si ragiona con maggiore attenzione alle svolte epocali questa coincidenza può risultare meno strana. Nel momento in cui gli Stati Uniti sono pervenuti a capo del mondo non poteva infatti non acquisire un inedito rilievo il fatto che non avessero mai conosciuto altro regime che quello democratico, per di più su un territorio così esteso da offrire incessantemente frontiere interne da oltrepassare e vasti territori da scoprire. Una storia dunque assai diversa da quella dell’originaria casa madre Gran Bretagna, cuore insulare del capitalismo e dell’imperialismo praticamente fino alla seconda guerra mondiale, ma mai pienamente affrancatasi da residui retaggi feudali, quali la monarchia e i privilegi dell’aristocrazia. Non si comprende nulla della storia del capitalismo mondiale se non si capiscono le discontinuità comportate dall’egemonia statunitense, specie dal momento in cui non ha più avuto limiti.

Si sbaglia quindi a credere che il capitalismo americano fin dai suoi albori non abbia fatto che seguire l’idea liberale classica, britannica e darwiniana dell’individuo imprenditore che si fa da sé e da sé lotta in concorrenza coi suoi simili, unicamente per il suo profitto[10]. Il fatto che tutt’oggi negli Stati Uniti la stessa dottrina di Darwin abbia schiere di contestatori la dice lunga. Ben più rilevante sui destini di questo paese è stata infatti una tradizione al fondo puritana che ha privilegiato sì il soliloquio con Dio, ma solo su un piano intimo, spirituale, perché su quello esistenziale e pragmatico è sempre stata invece la comunità, il comunitarismo, il riferimento obbligato. L’imprenditore, da questa angolatura, ha come mission principale non tanto di valere come individuo tra gli individui, quanto di rendere vincenti le sue comunità di appartenenza: più in particolare, della sua comunità etnica, religiosa, culturale o affaristica; più in generale, di quella che è supposta essere comunità più naturale per tutti i tipi di comunità; ossia la democrazia. Ed è sempre in nome della comunità democratica da dovere accuratamente proteggere e allargare che deriva l’imperativo per cui nessun individuo è legittimato a isolarsi e coltivare propensioni solitarie, ma deve essere il più possibile connesso ad altri, in comunicazione con essi. La stessa rivoluzione informatica, con cui questo Paese al momento del suo massimo trionfo negli anni ’90 irretirà il mondo, è stata resa possibile non solo da straordinarie innovazioni tecnologiche, ma anche dalla nuova rilevanza acquisita dalla circolazione delle informazioni in un mondo sempre più americanizzato. Ed è sempre da qui che deriva anche l’imporsi planetario dell’obbligo accademico improbabile, ma quanto mai cogente, di far saltare il più possibile ogni distinzione disciplinare. Che ogni ambito della conoscenza e dell’esperienza debba rendersi permeabile ad un supposto sapere unico dialogico e interdisciplinare è un fenomeno infatti del tutto tipico di quest’epoca democratica e neoliberale ad egemonia statunitense.

Ecco dunque perché è del tutto fuorviante credere che i mali politici di quest’epoca assomiglino a quelli più tradizionali come l’autoritarismo, la concorrenza e l’individualismo egoistico. Ed ecco anche perché è invece il caso di credere tutto il contrario e cioè che quelle neoliberali sono dottrine inclini anzitutto a favorire la democrazia, il comunitarismo, la comunicazione e persino la filantropia. Il problema sta piuttosto nel chiedersi quanto democrazia, comunitarismo, comunicazione e filantropia, così come sono state gestite in questa epoca di dominio mondiale statunitense, abbiano favorito o meno il diffondersi della giustizia universale.

D’altra parte, è innegabile anche l’influenza sessantottina su quella che è una delle caratteristiche più note e discusse del neoliberalismo: l’antistatalismo più oltranzista, ossia ciò che rese famosi e famigerati i motti di Reagan “meno Stato, più mercato” o “lo Stato non è la soluzione, ma il problema”. Frasi nelle quali non si può non sentire, sia pur distorti, gli echi di quella riattualizzazione dell’antistatalismo di Marx che era stato uno dei maggiori lasciti politici del Sessantotto.

Perché dunque è così importante rilevare i furti e gli abusi intellettuali operati sulle conseguenze del Sessantotto da parte della soggettività conservatrice neoliberale nell’epoca del suo trionfo? Ebbene, il fatto è che se non si bada a questo singolare rimescolamento delle carte è molto facile finire preda di quei fraintendimenti nei quali dagli anni ’90 è caduta molta sinistra più o meno istituzionale o antagonista. Quei fraintendimenti a causa dei quali l’antindividualismo, l’antiautoritarismo, il comunitarismo, il filantropismo e finanche la democrazia sono stati considerati essenzialmente fenomeni incompatibili con le politiche neoliberali, e sono stati assunti invece come patrimonio delle lotte, dei movimenti o dei partiti alla ricerca di alternative al capitalismo. Con, come risultato, di convincersi che queste alternative non solo esistevano, ma si stavano già facendo strada, mentre a farsi strada non erano altro che il capitalismo e la democrazia all’americana.


Note 
[1] Si veda il capitolo Intervista a El Diario.
[2] Si veda il capitolo Il ’77: battesimo o funerale?.
[3] Il grande maestro nelle analisi di queste dottrine è Michel Foucault (si veda i capitoli Perché il neoliberalismo pare inarrestabile? e Governo umanitario, neoliberalismo e populismo) il quale annovera e commenta tra le fonti di queste dottrine l’ordoliberismo tedesco, formatosi prima dell’avvento del nazismo, messo in ombra da quest’ultimo, ma poi divenuto quanto mai importante nella costituzione della Repubblica Federale Tedesca (BRD). Costituzione che secondo lo stesso Foucault rappresenta un’eccezione rispetto ad ogni altra per il fatto di essere fondata su principi essenzialmente economici e non politici. Un rilievo del tutto pertinente e stimolante, ma che non è accompagnato nessun cenno al fatto clamoroso che questa fondazione avviene sotto l’occupazione militare degli alleati al comando degli Stati Uniti e in una Germania la cui altra metà era occupata dall’Armata rossa. Circostanze assolutamente belliche che ovviamente non possono non avere influenzato la stessa ripresa dell’economicismo ordoliberale nella metà occidentale della Germania e che invece vengono dimenticati da molti seguaci di Foucault che, avendo in mente soprattutto la ben posteriore preminenza dell’economia tedesca nell’Ue, assumono questa preminenza come se fosse indipendente da ogni ingerenza statunitense.
[4] Si noti non da parte dei rivoltosi, come la propaganda anticomunista tiene a mostrare ad ogni occasione, ma da parte delle stesse autorità della Repubblica democratica tedesca che lo avevano costruito.
[5] Si veda il capitolo Patriottismo? No grazie!.
[6] Justin Raimondo, Trotsky, Strauss and Neocon, June 13, 2003, https://www.antiwar.com/justin/j061303.html; Michael Lind, How the Neoconservatives Conquered Washington and Launched a War, april 10, 2003, https://www.antiwar.com/orig/lind1.html
[7] Per il lettore che avesse bisogno di qualche minima istruzione in merito ecco qualche cenno. In effetti quell’anno fatidico è stato caratterizzato globalmente sia da rivolte contro tutto ciò che aveva un’aria d’autorità (si ricorderà lo slogan del tempo forse più famoso: il maoista “ribellarsi è giusto!”), sia dalla contestazione del burocratismo, specie di quello tipico del comunismo alla sovietica. Ma di mira era preso anche ogni culto dell’individuo in quanto tale, sia come imprenditore capitalista, sia come artista o intellettuale solitario, in una sorta di apologia senza limiti della forza delle “masse”. Del resto, la militanza innescatasi attorno a quel fatidico anno aveva come prescrizione condivisa il mescolarsi per pura scelta volontaria alle popolazioni più sofferenti per indurle a contare anzitutto sulle proprie forze.
[8] Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Franco Angeli, Milano 1977, ed. or., The Crisis of Democracy. On the Governability of Democracies, New York University Press, 1975.
[9] Cit. in Crouch C., Post-democrazia, Laterza, Roma-Bari 2005.
[10] West C., La filosofia americana, Una genealogia del pragmatismo, Ed Riuniti University Press, Roma 2016; Adriano Vinale, Pragmatismo americano. Razza e democrazia, Cronopio, Napoli 2011.

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