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blackblog

La catastrofe climatica e la «libertà dei consumatori»

Sulla miseria dei «discorsi di libertà» (tardo-borghesi)

di Thomas Meyer

OIP1.

Come scrive il filosofo Slavoj Žižek (Žižek 2022, 285), non mancano più Cinque Minuti a Mezzanotte, ma è già Mezzanotte e Cinque! Oramai, perfino l'ultimo degli imbecilli dev'essersi reso conto che il cambiamento climatico è un dato di fatto (per quanto i dettagli possono essere discutibili), e che esso rappresenta una seria minaccia per l'umanità [*1]. Così come è anche evidente che le emissioni di CO2 e degli altri gas serra vanno radicalmente e rapidamente ridotte, se non vogliamo che la catastrofe climatica assuma delle proporzioni ancora più catastrofiche. Ciò implica una completa ricostruzione delle infrastrutture e un completo adeguamento, vale a dire, un rivoluzionamento del nostro modo di produzione e di vita. È pertanto all'ordine del giorno un programma di abolizioni e di cancellazioni. Nel suo percorso, la "locomotiva" dello sviluppo delle forze produttive sta bruciando tutti. Per dirla con Walter Benjamin, a meno che non si voglia rischiare di trovarsi di fronte alla morte dei "passeggeri", è diventato inevitabile tirare il "freno d'emergenza" (cfr. Böttcher 2023). Senza affrontare la questione di come possa essere abolito il modo di produzione capitalistico, di come si possa creare un corrispondente «movimento di trasformazione», con quale «società di transizione» (?) si debbano fare i conti (anche nel caso che il "convoglio" dovesse essere solo fermato), rimane comunque il problema del rifiuto emotivo, da parte di molte persone, nei confronti di tutti questi fatti. La consapevolezza - la quale potrebbe essere realmente acquisita, e che dovrebbe portare a ripensare e a "reagire" - viene invece rimossa emotivamente.

La minimizzazione, o la negazione del cambiamento climatico (che perdura da decenni), insieme alla diffusione di propaganda e disinformazione, da parte di gruppi, aziende e media trovano un terreno fertile (cfr. Quent, Richter, Salheiser 2022). La critica della propria identità (lavorare, consumare, avere una propria casa, ecc.) - presupposto necessario per poter ripensare e cambiare - viene evitata invocando un volgare concetto borghese di libertà. La libertà viene così ridotta a essere la libertà del consumatore, la quale non va limitata in nessun caso; tanto meno dal momento che viene vista come libertà di produrre ciò che deve essere consumato. Va detto che in origine - al contrario (cfr. Lepenies 2022) - la libertà (borghese) aveva a che fare con la "responsabilità", con la limitazione e con la modernizzazione del dominio (pesi e contrappesi, protezione dall'arbitrio statale o legale, libertà di religione e di stampa, imposizione della proprietà privata, produzione di sicurezza ecc. [*2] per mezzo della formazione e il disciplinamento delle persone, in modo che si rendano parte "utile" di una comunità o di una società. La libertà di un cittadino finiva nel momento in cui veniva violata la libertà di un altro cittadino. Non si trattava di consumo illimitato, ma piuttosto di rinuncia al consumo, di ascetismo interiore, di controllo delle emozioni. Da alcuni, tutto questo è stato interpretato come un processo di civilizzazione [*3]. C’erano non pochi filosofi, che ritenevano che l'essere umano non potesse essere libero allorché si abbandonava senza freni alle passioni. Colui che è in balia delle passioni, chi le asseconda e le insegue direttamente, non è libero, ma schiavo. Tuttavia, le passioni non venivano giudicate solo negativamente: guidate dalla "ragione", potevano anche rivelarsi "utili" allo Stato e all'economia. Ora - a partire dal boom fordista in particolare - il «capitalismo sviluppato» ormai non è dipeso più da dei soggetti risparmiatori che dovevano rinunciare al consumo, ma piuttosto da quei consumisti che volevano comprare tutte le schifezze prodotte [*4]; e nel capitalismo anche le cose sensate si rivelano schifezze, come l'obsolescenza programmata, per esempio, la quale fa in modo che il denaro venga introdotto il più rapidamente possibile nel processo di valorizzazione D-M-D'. Come «mezzo di motivazione» propagandistico (per far sì che le merci, ormai prodotte in serie, possano essere realizzate anche come valore) serve lo spettacolo della pubblicità, che investe la totalità (oggi per lo più "individualizzato" sotto forma di "App" ecc.) Il lavoro, la soddisfazione e il consumo "meritato" sono tutte cose diventate l'identità centrale delle moderne società capitalistiche (soprattutto della "classe media"; l'automobile come rinomato "status symbol": cfr. Kurz 2020 & Koch 2021). Nella vita professionale, l'abnegazione e la disciplina sono state remunerate, o "compensate", dalla possibilità di ottenere - attraverso le proprie prestazioni - una "vita di successo" a livello privato, ribadita e avvalorata dalla possibilità di pagare o acquistare questo e quello (vacanze, automobile, casa propria + "domestica"). I costi ecologici del consumo di massa fordista, non avevano importanza nemmeno allora (o venivano liquidati come se fossero solo propaganda di sinistra; ad esempio da Ayn Rand: Rand 2017, 352ss.). Questo egocentrismo consumistico, è stato esacerbato dal neoliberismo, nel quale le persone proiettate su sé stesse sono state spinte a ottimizzarsi in modo permanente, a sottomettersi "liberamente" e "autodeterminatamente" agli imperativi del mercato (del lavoro), come dei «cittadini responsabili» i quali non si lasciano "ammaestrare". Il «cittadino responsabile» trova la sua libertà nel sottomettersi ai dettami del capitalismo di crisi in modo pienamente illuminato e autodeterminato, e inoltre lo interpreta anche come auto-realizzazione e come auto-ottimizzazione. La libertà di consumare, è accompagnata e rafforzata dalla libertà di realizzarsi nella sottomissione, e di smerdare e prendersela con tutti coloro che non sanno stare al passo; coloro che sono considerati «non qualificati», o addirittura «avversi al lavoro», e che falliscono nella competizione vengono visti semplicemente come quelli che «sono stati sfortunati». La società della concorrenza totale (della concorrenza a tutti i livelli), vale a dire, della «auto-responsabilità individuale», dell'«io imprenditoriale», è un ricettacolo di emozioni antisociali di ogni genere. Il carattere sociale narcisistico, qui si rivela come presupposto e risultato del capitalismo consumistico sfrenato (cfr. Wissen 2017 & Jappe 2022). Nel capitalismo sviluppato, ormai il consumo non è più finalizzato principalmente alla soddisfazione dei bisogni sotto forma di merce, ma piuttosto e soprattutto alla creazione di un'identità. Scrive a tal proposito Philipp Lepenies (riferendosi a Zygmunt Bauman): «L'individuo non persegue più i propri bisogni, ma soddisfa i desideri suscitati in lui dai produttori e che, in casi estremi, obbediscono solo al principio del piacere. Non appena i desideri relativi a determinati prodotti possono essere continuamente rinnovati e adattati, ecco che il consumo diventa un circolo vizioso senza fine. Gli individui soccombono all'illusione di poter definire così la propria personalità e identità - e persino il proprio status sociale - attraverso il consumo. Il consumo diventa un'isola di stabilità, e l'identità stessa diventa una funzione del consumo. Se un particolare desiderio viene negato, ecco che le persone lo percepiscono come se fosse un attacco a quella persona che vorrebbero essere» (Lepenies 2022, 234). Non c'è niente che riesca a fare infuriare di più il reazionario borghese, di quanto ci riescano alcuni «sporchi verdi di sinistra» che mettono in discussione la sua libertà di consumo senza limiti, o che voglia proibirgli o addirittura "togliergli" qualcosa (una situazione in cui - poiché bisogna anche poter permettersela la libertà di consumo - i poveri non possono trovarsi: cfr. Mayr 2021). La cosa viene vista come un attacco alla propria identità (che beffa, quando allo stesso tempo queste persone urlano contro la «politica dell'identità» della sinistra, o dei liberali di sinistra). Il borghese reazionario, tutto questo se lo è guadagnato! Ha lavorato duramente per tutto questo, e quindi si suppone che comprare e consumare ciò che vuole sia anche un suo «diritto umano naturale». Non è quindi assolutamente accettabile che «colui che si comporta meglio» venga "educato" dallo Stato, o da alcuni presunti comunisti o eco-socialisti (ma egli, allo stesso tempo, pretende di essere in grado con la sua libertà di controllare o intimidire la libertà degli altri, come ad esempio quella dei beneficiari di Hartz IV [N.d.T.: equivalente del "reddito di cittadinanza"].

 

2.

Criticare la libertà borghese dei «primi tempi», è indubbiamente corretto e necessario, nel senso che si trattava effettivamente della libertà dei proprietari borghesi bianchi e maschi, e la sua realizzazione doveva avvenire nel quadro della «gabbia della servitù» capitalista (Max Weber). Eviteremo di sviluppare in dettaglio questo aspetto (cfr., ad esempio, Losurdo 2010, Hentges 1999, Kurz 2004 e Landa 2021). Qui, invece, l'aspetto decisivo è che invocare la cosiddetta libertà dell'individuo ha l'effetto di non volere, o non potere affrontare seriamente i problemi. La prospettiva della libertà dell'individuo come monade del consumo e del lavoro - un'autoreferenzialità immediata - preclude fin dall'inizio ogni possibilità di affrontare problemi che richiedono una prospettiva sociale, vale a dire, una prospettiva nella quale l'individuo dovrebbe trascendere il suo angusto egocentrismo. In tal modo, le contraddizioni e le dissonanze vengono così aggirate e coperte con verbosità e indignazione emotiva. Infine, l'aggressiva autoreferenzialità della «libertà dei consumatori», e la sua difesa che quasi sempre si accompagna al capitalismo fossile - il quale, non a caso, fa spesso parte dell'identità androcentrica (Cara Dagget (2018) per cui è stato coniato l'azzeccato termine petro-maschilità - indica una "possibilità" insita nella stessa libertà borghese, ossia la possibile trasformazione della libertà in non libertà. Come scrive Andrea Maihofer: «L'attuale retorica neoliberale della responsabilità individuale di ciascuno, significa che la libertà viene intesa da molti solo come libertà individuale. Questo, oggi diventa chiaro nelle proteste contro le misure relative al coronavirus, allorché, ad esempio, con lo slogan "Mia la salute! Mia la decisione!", si rivendica il diritto alla libertà individuale di non indossare una maschera, [...] a sottrarsi alle esigenze generali - indipendentemente dalle conseguenze per sé stessi o per gli altri. [...] In tal modo, non solo la libertà viene intesa esclusivamente come libertà individuale, ma viene anche esplicitamente rifiutata qualsiasi responsabilità relativa alle conseguenze sociali delle proprie azioni. In altre parole, il concetto di libertà è sempre più utilizzato esplicitamente in senso anti-emancipatorio. Ma questo non è un fenomeno nuovo. Non solo nei discorsi dei conservatori e degli estremisti di destra è sempre stata presente una concezione autoritaria della libertà, ma questo pericolo di trasformarsi in una mancanza di libertà è stato anche insito nella concezione borghese della libertà fin dall'inizio». Non c'è quindi da stupirsi se «in nome della libertà, gli attori sociali, dalla destra conservatrice all'estrema destra, non solo legittimano le crescenti disuguaglianze, le esclusioni e le divisioni sociali, ma rivendicano anche il diritto di escludere e discriminare gli altri in nome della libertà» (Maihofer 2022, 327). Pertanto, la libertà non viene così intesa come qualcosa di sociale, come una relazione sociale storica - forse nemmeno come se fosse un'idea da realizzare da parte di minoranze o da parte di classi finora oppresse e discriminate - ma diventa qualcosa che un soggetto individuale possiede ed è disposto ad affermare contro gli altri, senza nemmeno considerare quali saranno le possibili conseguenze (e pertanto questa "libertà" ha un carattere "imprenditoriale"; e le conseguenze vengono "esternalizzate", o ignorate (cfr. anche: Amlinger & Nachtwey 2022). Si tratta perciò proprio della libertà di essere autonomi, vale a dire, di fare uso della propria libertà di sottomettersi a dei vincoli sistemici senza che ci sia la guida di altri. Una «visione della vita» che dal punto di vista sociale ed ecologico è sostanzialmente ignorante, è pertanto già quasi una diretta conseguenza, oltre che una precondizione necessaria perché si dia una «capacità di adattamento» che abbia successo. Questa libertà, che soprattutto nel neoliberismo viene presentata e promossa come se fosse una «cultura orientativa», alla fine non è altro che la capacità di adattarsi autonomamente a delle condizioni non autonome. La "autonomia" consiste nel tenere conto, in modo flessibile, della tremenda dinamica del movimento di valorizzazione del capitale, oltre che della crescente insicurezza esistenziale, al fine e in modo da rimanere sempre redditizi e valorizzabili, per poter così essere annoverati tra i «migliori performer», e naturalmente poterne ricavare per sé stessi alcuni vantaggi. Questi vantaggi possono consistere in un consumo illimitato e "meritato" (di certo limitato solamente dal denaro disponibile, o dalla quantità di credito ottenuta), ma anche dal fatto di sentirsi autorizzati a vedere sé stessi sempre come la vera vittima. Ed è probabilmente da qui che nasce l'enorme affettazione («politica del divieto», «eco-dittatura» ecc.) nel momento in cui si parla di introdurre la giornata vegetariana in mensa, o di limitare la velocità sulle autostrade oppure di abolire i voli nazionali. In nessun caso, le proprie abitudini dovrebbero essere oggetto di riflessione, tanto meno se viste in relazione a un particolare modo di produzione che sta distruggendo il pianeta. Su questo, Philipp Lepenies: «Le misure previste, che oggi evocano parole irritanti come "divieto" e "rinuncia", sono tuttavia - e questo va sottolineato con chiarezza - delle reazioni alla decisiva crisi fondamentale del nostro tempo, e a una necessità sempre più urgente di agire. L'obiettivo non è un cambiamento totale dei nostri comportamenti da porre in atto a partire da una particolare ideologia; non si stratta di equiparare e/o sopprimere altri stili di vita. Dietro le proposte di divieto e di rinuncia si trova il tentativo di mitigare o invertire quelli che sono gli effetti negativi dovuti ai nostri comportamenti relativi al consumo, che hanno portato alla catastrofe climatica, e continuano ad aggravarla. Le idee di proibizione e di rinuncia, non sono il prodotto di un desiderio perverso e sadico di vietare e fare appello alla rinuncia senza alcun motivo. Sono delle proposte concrete volte a salvare il nostro clima» (Lepenies 2022, 263 ss.). I divieti e le restrizioni possono segnalare fino a che punto determinate produzioni e consumi siano ecologicamente problematici, e dovrebbero essere aboliti. Lo stesso vale per le misure di protezione ambientale: si tratta di misure palliative immanenti che vengono (o devono essere) applicati dallo Stato, ma non consentono di approfondire una critica radicale della forma merce, del fine in sé dell'accumulazione del capitale. Se non si vuole che le crisi ecologiche continuino a peggiorare in modo catastrofico, ecco che allora ha perfettamente senso spingere politicamente per ottenere divieti e restrizioni. È importante rendere riconoscibili quali sono i limiti e le contraddizioni immanenti. Naturalmente, è ovvio che tali divieti e rinunce possono avere come obiettivo solo quello di «dipingere di verde» il capitalismo e far così ricadere la responsabilità sull'individuo, sul cosiddetto presunto individuo autonomo (cfr. Hartmann 2020). Anche i dibattiti sul un'«alimentazione sana e sostenibile», e simili, possono contenere un momento paternalistico e puritano (su questo punto, va detto che alcuni critici liberali del "nudging" ecc. hanno in parte ragione) [*5]. Tuttavia, il consumo non può essere realmente separato dalla produzione, dal momento che entrambi hanno un carattere specificamente capitalistico. È qui che Lepenies andrebbe criticato; quando scrive del «comportamento del consumatore» e di metterlo criticamente in discussione (senza andare oltre). Tenendo conto della «separazione tra produzione e consumo, già insita nella semplice forma della merce», cosa che ha come conseguenza il degradarsi della «competenza delle persone in materia di consumo», nel suo libro contro i postmoderni della sinistra (alcuni dei quali negli anni '90 avevano una mentalità talmente ristretta da celebrare il consumo come un presunto atto sovversivo: «il consumatore come dissidente», dicevano in tutta serietà) Robert Kurz scrive: «È proprio in questa veste, che i consumatori capitalisti non sono qualificati, e non lo sono a partire dal fatto che sono già stati squalificati come produttori. In quanto analfabeti della riproduzione sociale - e/o idioti specializzati - consumano in uno spazio sociale de-estetizzato e orientato alla funzione. È a partire dalla grottesca incomprensibilità delle istruzioni d'uso, assai spesso davvero satiriche, dal "disagio" perpetuo degli spazi pubblici, che questa espropriazione squalificante della competenza per quel che riguarda il consumo appare evidente a tutti i livelli. Gli idioti della specializzazione, sono sempre allo stesso tempo anche idioti del consumo, e viceversa. L'universalismo delle merci, non può pertanto corrispondere a un'universalità degli individui [...]» (Kurz 1999a, 155ss.). Quel che c'è da consumare - e che è presente in forma reificata - è la materializzazione dell'astrazione del valore; il "destinatario" è il soggetto senza diritti, isolato e alienato. Il "valore d'uso" - che spesso viene difeso solo in quanto promessa di valore d'uso - viene plasmato e realizzato dalla razionalità dell'economia imprenditoriale. L'obiettivo non è quello della produzione comune di valori d'uso che possono essere consumati in comune, ma piuttosto che invece, nella concorrenza, a livello di economia d'impresa, un capitale individuale si affermi avendo successo nella vendita di merci, e così registri un "profitto" di per sé, in modo da poter poi continuare eternamente con la produzione e con la realizzazione di valore (plusvalore) (D-M-D'-M'-D''...). L'obiettivo della produzione, viene mediato, a livello della società nel suo complesso, con l'obiettivo irrazionale e astratto dell'organizzazione capitalistica complessiva, la quale a sua volta mira ad aumentare il capitale/denaro per sé stesso. Ciò che accade alle merci dopo la loro vendita, se la promessa di valore d'uso viene effettivamente mantenuta - o se non si trattava solo di una maldestra propaganda -, da dove provengono le singole parti per la produzione di queste merci e come sono state prodotte ecc. di tutto ciò nulla importa al capitale individuale; per non parlare del loro smaltimento e di tutte le conseguenze ecologiche (che al capitale individuale appaiono solo in un secondo momento, sotto forma di interventi e di regolamentazioni statali; se mai ci saranno). Il consumatore ha la libertà di adattarsi e di acquistare ciò che è in vendita. Quello che può essere selezionato per il consumo, è già stato "deciso" da tempo in quanto possibilità di selezione da parte del processo di valorizzazione del capitale. Secondo le parole di Robert Kurz: «Dall'altro lato, però, la forma generale della merce capitalista espropria non solo la competenza relativa a consumare - vale a dire, la capacità di utilizzo universale delle cose viste nel loro contesto sociale e nelle loro qualità sensibili - ma espropria anche la determinazione del contenuto di quello che gli individui devono consumare. Visto che producono ciò che non consumano, e che consumano ciò che non hanno prodotto (sebbene questo avvenga solo nel senso di una determinazione istituzionale comune relativa al contenuto della produzione), anche nel consumo diventano oggetto della razionalità dell'economia imprenditoriale, rispetto alla quale non esiste nulla che sia più lontano di essa dall'autodeterminazione umana» (ivi). Non esiste alcuna comprensione sociale del contenuto della produzione e del consumo. La libertà di consumo è pertanto una chimera. È un miraggio che bisogna pagare per poterselo permettere. Costituisce l'altra faccia della «libertà dell'operaio alla catena di montaggio». Il «consumatore responsabile» non può fare altro che scegliere ciò che gli è già stato messo davanti: «La domanda non determina mai l'offerta, ma piuttosto è sempre il contrario». Se così non fosse, allora i membri della società dovrebbero concordare in anticipo il soddisfacimento dei loro bisogni, e poi organizzare di conseguenza la produzione; detto in altre parole, dovrebbe esistere un'identità tra produttori e consumatori in senso sociale istituzionale (e non immediatamente nell'attività degli individui). A quel punto, ovviamente, la domanda non sarebbe più una domanda di merci, ma una discussione sociale diretta, sarebbe la negoziazione e la realizzazione delle strutture del bisogno» (ivi). È da qui che dovrebbe partire una critica del comportamento dei consumatori, se essa non vuole limitarsi a pronunciare solo divieti e rinunce, appellandosi a un'astratta responsabilità comune, o a una sorta di senso comune socio-ecologico. Quando si parla di bisogni e del loro soddisfacimento, ciò deve essere fatto in connessione con la determinazione della forma dei bisogni da parte del capitale. Per alcuni bisogni, il carattere compensativo svolto dal consumo appare ovvio. Tuttavia, anche i bisogni sociali e materiali essenziali, e il loro soddisfacimento, sono determinati dal capitale. C'è bisogno di continuare a chiedere e a lottare per soddisfare dei bisogni indispensabili in forma capitalistica (ad esempio, alloggi a prezzi accessibili), ma essi non vanno percepiti in questa forma, ovvero non va naturalizzata quella che è la loro forma capitalistica. Ciò pone la questione di sapere che cosa significhi effettivamente "necessità". Nelle sue "Tesi sulla necessità" (1942) Adorno osserva che: «L'idea, ad esempio, secondo cui il cinema, insieme alla casa e al cibo, sia necessario per la riproduzione della forza lavoro, è "vera" solo in un mondo che orienta le persone verso la riproduzione della loro forza lavoro, e costringe pertanto i loro bisogni ad armonizzarsi con gli interessi di profitto e di dominio degli imprenditori» (Adorno 2015, 394), ovvero, a livello di contesto sociale globale, con gli imperativi dell'accumulazione del capitale. Il bisogno è quindi relativo, dal momento che implica anche un bisogno del soggetto borghese. Da un lato, i bisogni sono compensativi, dato che la loro realizzazione attraverso la libertà di consumo promette l'identità e l'auto-realizzazione - e lo sono nella misura in cui sono necessari per il condizionamento e per la riproduzione delle persone in quanto capitale variabile; dall'altro, però, la realizzazione dei bisogni sociali e materiali realmente necessari si trova a essere ostacolata dalla determinazione della forma del capitale. La loro realizzazione, se sufficientemente disponibile o accessibile ai bisognosi «in termini materiali», viene organizzata capitalisticamente, come ad esempio lo si può vedere nel sistema abitativo capitalista: da un lato, per i benestanti, una casa borghese recintata e di proprietà (ossia, l'idiozia della famiglia nucleare borghese socialmente isolata), la cui realizzazione viene difesa da alcuni come se fosse un diritto umano elementare; dall'altro, scatole di cemento costruite in modo tale che le singole «unità abitative» non possano avere nulla a che fare l'una con l'altra a livello sociale. Entrambi sono depositi di forza lavoro in container - merci di abitazione. L'alloggio e il cibo sono necessari, al contrario dei viaggi aerei e dei trasporti individuali, ad esempio, nella misura in cui possono essere riferite a quelle che sono delle caratteristiche del genere umano. Tuttavia, le «caratteristiche di genere» non devono essere intese in modo naturalizzante. Nelle parole di Agnes Heller, «I “bisogni naturali” si riferiscono al mero sostentamento della vita umana (autoconservazione) e sono “naturalmente necessari” semplicemente perché, senza soddisfarli, l’uomo non può conservarsi come essere naturale. Questi bisogni non sono identici a quelli animali, perché l’uomo, per la propria autoconservazione, necessita anche di certe condizioni (riscaldamento, vestiario) che per l’animale non rappresentano un “bisogno”. Pertanto, i bisogni indispensabili per la conservazione dell'essere umano come essere naturale sono anche sociali [...]. La forma di soddisfazione socializza il bisogno stesso» (Heller 2022, 18 ss.). Sebbene la natura, e di conseguenza i "bisogni naturali" non possono essere assorbiti nel "discorso", né tantomeno possono essere intesi come se fossero qualcosa di "socialmente costruito", entrambi sono sempre già mediati dalla società e dalla storia. Nelle parole di Adorno: «Ogni impulso è talmente mediato socialmente, al punto che la sua naturalità non appare mai immediatamente, ma sempre solo come se fosse prodotta dalla società. Fare appello alla natura di fronte a una necessità, rappresenta sempre solo la maschera del diniego e del dominio» (ibid., 392). Generalmente, le naturalizzazioni hanno sempre a che fare con la legittimazione del dominio. Mentre durante il Medioevo, ad esempio, il dominio e la gerarchia venivano giustificati a partire da "Dio", nella società borghese "illuminata" questo avveniva invece usando la "natura" (o a partire da ciò che si pensava di aver appreso da essa). In tal modo, sono stati giustificati "scientificamente" il razzismo, il sessismo, l'eugenetica e altro (cfr. ad esempio Reimann 2017, Gould 2016, Weingart et al. 1992, Honegger 1991). A dover essere posta al centro della critica, è proprio la socializzazione specificamente capitalista dei bisogni e del loro soddisfacimento, nel momento in cui alcuni consumi e produzioni dovrebbero essere limitati o proibiti. Da sé soli, simili divieti possono fallire, finendo per essere inefficaci, allo stesso modo in cui lo sono le leggi statali per la protezione dell'ambiente; ciò tuttavia non toglie che i discorsi corrispondenti sul perché tali abolizioni e chiusure dovrebbero essere considerate sono collegati alla catastrofe climatica e all'urgente necessità di agire; ed è proprio questa percezione, quella che viene a priori emotivamente respinta. Ma un'abolizione del modo di produzione capitalistico, del fine in sé dell'accumulazione del capitale (e quindi anche di tutti i consumi insensati o folli), non può essere ipotizzata - o anche solo concepita - se le persone non riescono a separarsi dalla loro «identità di consumatori» (e dalla loro identità secondo cui sarebbero «i migliori produttori»), se non riconsiderano le loro motivazioni e non smettono di continuare a giustificare la loro ristrettezza mentale a partire da quello che è un un concetto di "libertà" assolutamente stupido; un concetto di libertà che significa sempre e solo la loro libertà, e che è progettato per poter mantenere e imporre il loro status quo (se necessario con la divisione e con la violenza: Koester 2019).

 

3.

La soddisfazione di bisogni non presenti sul mercato e/o non redditizi, la pianificazione e la discussione di contenuti della produzione che non sono determinati dal movimento di valorizzazione del capitale, non costituiscono una componente della libertà borghese: «rivendicare una socialità consapevole, viene considerato come un Peccato contro lo Spirito Santo di quella che è una macchina sociale cieca e asociale, la quale è stata ripetutamente dichiarata essere legge di natura» (Kurz 1999b, 645 [380]). Qualsiasi tentativo, o anche solo pretendere di pensare di voler pianificare la produzione, e non lasciarla alla cosiddetta spontaneità del mercato (cosa che essenzialmente implica solo un pensiero a breve termine), è sempre stato sospettato di totalitarismo. Un concetto di libertà che dovesse includere la liberazione dai bisogni sociali, è stato considerato da ideologi borghesi come F. A. Hayek una strada che porterebbe alla servitù (ivi, 644 ss.). Al contrario, Hayek vede invece la sottomissione agli imperativi del mercato come se fosse l'epitome della libertà. Tutto il resto, sostiene, porta al Gulag (è così che possono essere riassunte tutte le ridondanti opere di Hayek). Il contesto nel quale si realizzano le libertà borghesi, è quello del movimento di valorizzazione del capitale: «Non può essere pensato, scritto, fatto o realizzato niente che vada oltre questa società [...]» (Adorno 2015, 395). Può essere ottenuto il riconoscimento (e anche questo bisogna che venga ottenuto con la lotta, e la cosa non è affatto scontata: peggio di dover essere un soggetto, c'è solo non poter essere un soggetto, sebbene finora non esiste alcuna alternativa al dover essere per forza un soggetto), nella misura in cui si può dimostrare di essere un agente del lavoro astratto. Le libertà civili, e pertanto anche i diritti umani, si applicano solo con riserva (se mai si applicano; com'è noto, il capitalismo funziona benissimo anche senza). La loro validità, e la loro applicazione dipendono dal successo dell'accumulazione di capitale, e quindi da uno Stato che si autofinanzia, dove le persone sono state precedentemente incorporate sotto forma di capitale variabile e vengono amministrate in quanto soggetti cittadini. Nella crisi, questa restrizione diventa particolarmente evidente allorché bisogna che l'esistenza delle persone venga monetizzata. Il riconoscimento borghese ha perciò come presupposto quello che è un fondamentale non riconoscimento delle persone come esseri corporei. I dibattiti sull'eutanasia lo dimostrano con estrema chiarezza (così come lo di mostra la situazione dei rifugiati e la «punizione dei poveri»: Böttcher 2016 & Wacquant 2004). Ad esempio, in Canada l'eutanasia attiva è legale dal 2016. Inizialmente era destinata a persone con malattie terminali, e che si prevedeva sarebbero morte a breve. Tuttavia, la scelta del suicidio assistito non è affatto "solo" per i malati terminali, ma è stata estesa da tempo anche alle persone che sono sole o povere e che non vogliono essere un peso per chi sta loro vicino, o che semplicemente non vedono più un senso nella vita [*6]. Gli economisti si rallegrano del fatto che i costi del sistema sanitario stiano diminuendo [*7]! L'eutanasia, tutt'altro che "autodeterminata", non risparmia nemmeno i malati di Covid-19: «La canadese Tracey Thompsen (50 anni) ha contratto il Covid-19 e non può lavorare. Per due anni, l'ex cuoca ha dovuto combattere contro una stanchezza cronica e altri gravi sintomi. Non è più in grado di gestire la sua vita quotidiana. È per questo motivo che ora ha chiesto l'eutanasia attiva. Il motivo che adduce, è che i suoi risparmi possono durare solo cinque mesi. In realtà, non avrebbe davvero voluto morire, ma la disperazione della sua situazione, e la mancanza di sostegno finanziario l'hanno portata a farlo» [*8]. I pazienti che costano molti soldi, vengono convinti o spinti a scegliere l'eutanasia, che finisce per essere più economica (!): «Di fatto, in Canada, le persone con gravi disabilità possono optare per la morte, anche se non ci sono altri problemi medici. I gruppi per la difesa dei diritti umani, si lamentano del fatto che il Paese non fornisce alcuna garanzia. I familiari possono perfino anche non essere informati. Invece, gli operatori sanitari vengono incoraggiati a suggerire la morte assistita anche a coloro che non hanno preso in considerazione quella possibilità. Non sorprende che in tal caso a esser prese di mira sono le persone che hanno bisogno di cure costose, ma che non ricevono un sostegno adeguato dallo Stato» [*9]. A chiedere l'espansione dell'eutanasia, sono stati anche i cosiddetti bioetici, oltre che i pediatri (!), : «In un saggio pubblicato sul Journal of Medical Ethics (!) [*10], alcuni pediatri e bioeticisti canadesi sostengono che, ad esempio, la morte su richiesta dovrebbe essere classificata come trattamento palliativo alla fine della vita, e quindi rientrare nell'assistenza sanitaria. Di conseguenza, il "trattamento" non dovrebbe essere preceduto da un'informazione speciale, ovvero da un urgente accertamento della capacità di esprimere la volontà. Secondo gli autori dello studio, se l'eutanasia viene ora considerata parte dell'assistenza sanitaria, ci si chiede allora perché essa non dovrebbe essere offerta a tutti, compresi i minori. I medici andrebbero incoraggiati a rendere i pazienti consapevoli di tutte le opzioni disponibili per l'assistenza sanitaria, ivi compresa l'eutanasia attiva. Gli autori sostengono inoltre che i minori in grado di dare il proprio consenso dovrebbero essere autorizzati a prendere decisioni senza il consenso dei genitori» [*11]. La liquidazione "autodeterminata" delle persone, vista come «parte dell'assistenza sanitaria»! La neo-lingua orwelliana non riuscirebbe a essere più perfida!!! In Canada, pertanto, il discorso sull'eutanasia ha seguito un percorso simile a quello dei Paesi Bassi (van Loenen 2009). Tuttavia, rispetto ad altri paesi, in Canada tale percorso è stato «perseguito in modo più incessante e più rapido» (Yuill 2022). Nei Paesi Bassi, la legalizzazione della cosiddetta eutanasia non ha portato alla fine del dibattito, ma va detto che piuttosto il dibattito è iniziato davvero allora: se l'eutanasia viene concessa ai malati terminali, perché non anche ai disabili o ai malati mentali? E se viene concessa agli anziani, perché allora non ai giovani? Se è concessa ai malati terminali, perché non concederla alle persone depresse, o semplicemente a tutte quelle che non vedono più alcun senso nella loro vita, dal momento che si sentono sole? O perché sono poveri [*12]. A spingere alcune persone all"'eutanasia", non sono il dolore cronico, la disabilità o la malattia ma piuttosto la povertà e la mancanza di prospettive. E non perché vorrebbero morire, ma perché non vedono altra via d'uscita [*13]. A coloro i quali sono superflui per il capitalismo, e non sono (più) in grado di creare valorizzazione, viene negato qualsiasi diritto a esistere; una negazione che viene immediatamente - ed è questo a essere particolarmente ripugnante - legittimata dalla bioetica o da quant'altro. Che i sostenitori dell'eutanasia osino addirittura pubblicare un opuscolo di propaganda per i bambini è disgustoso [*14]! Lo fanno affinché i bambini imparino a considerare "normale" il fatto che il loro nonno, o il loro fratello disabile vengano uccisi per motivi di budget? Alla fine, i "superflui" e i "fattori di costo umano" devono essere "eliminati", proprio come viene fatto con i pomodori invenduti. In ultima analisi, nel capitalismo, la libertà è solo la libertà di morire! Detto in altre parole, quel che si fa è osa ancora parlare di libertà e autodeterminazione senza comprendere e criticare radicalmente la logica del sistema sociale capitalista, che mette sempre oggettivamente in discussione entrambe, facendo dell'asservimento e dell'interiorizzazione degli imperativi di valorizzazione del capitale il presupposto di ogni libertà e autodeterminazione! E lo si fa ancor più, quando si parla di libertà e autodeterminazione in termini di libertà di consumo. Non si perde tempo a riflettere su come il modo di produzione capitalistico (e, con esso, il modo di consumo capitalistico) rovini e distrugga gli esseri umani e la natura per il «mostruoso fine in sé» (Kurz 1999b, 648 [462]) dell'accumulazione del capitale. Per il filisteo borghese, tutto deve rimanere com'è (anche se è sempre più evidente che nulla rimarrà com'è). La libertà di consumo, la libertà di vacanza o altro non deve essere messa in discussione in nessun caso. Eppure, tuttavia, per arrestare - o quanto meno (!) mitigare - il collasso climatico, ci sono molte cose che devono essere messe in discussione... Se invece, al contrario, si dovesse parlare davvero di libertà, ecco che allora tutto assumerebbe un senso completamente diverso. Per dirla con Robert Kurz: «La libertà consisterebbe solo nel fatto che le persone che si mettono insieme per riprodurre la propria vita, non solo lo fanno volontariamente, ma deliberano e decidono insieme sul contenuto e sul modo di procedere [...] Una simile libertà, che sarebbe l'esatto contrario della servitù universale liberale sotto i dettami dei mercati del lavoro, è in linea di principio praticamente possibile a tutti i livelli e per tutti gli aggregati della riproduzione sociale - dalla famiglia alla rete di produzione transcontinentale» (ivi). Dovrebbe esserci un accordo sociale su cosa si produce, in che modo e a quale scopo, senza però rovinare il pianeta nel processo; e non per accumulare capitale; nemmeno capitale "verde". La protezione del clima e la crescita economica non sono compatibili; come hanno capito anche alcuni Verdi (per esempio, la redattrice di "Taz", Ulrike Herrmann, che nel suo nuovo libro, come mezzo per superare il capitalismo e la sua distruttiva dinamica di valorizzazione propone un'economia di guerra simile a quella che esisteva nel Regno Unito durante la Seconda guerra mondiale (per una critica, si veda Konicz 2022a). Il fatto che le persone non debbano più sacrificare sé stesse e la natura per il mostruoso fine in sé del capitale sarebbe, per così dire, la base per una vera libertà e autodeterminazione, che, tuttavia, non avrebbero nulla a che fare con la libertà e l'autodeterminazione borghesi (e tanto meno con la cosiddetta libertà dei consumatori); dal momento che queste ultime non sono altro che una libertà finalizzata all'asservimento e all'auto-valorizzazione; e, in ultima analisi, anche libertà di istupidirsi, come dimostrano chiaramente i dibattiti sull'eutanasia, dove la libertà è quella di morire.

Mettere a tacere la critica radicale dell'esistente, cercando di occultare le crisi e le catastrofi per mezzo di artifici, e con dei palliativi riguardo la libertà, al fine di aggrapparsi a un modello storico che è arrivato alla fine, rappresenta davvero, a medio e lungo termine, qualcosa di suicida; «libertà di morire», non è un'esagerazione. Per concludere con le parole di Tomasz Konicz: «In tal modo, l'adesione, da parte dell'ideologia tardo-capitalista, a un esistente che si sta ovviamente dissolvendo, somiglia a un suicidio; a un suicidio per paura della morte del capitale. In ultima analisi, la morte viene ricercata inconsciamente, e viene vista quasi come se fosse una via d'uscita dalle crescenti contraddizioni sociali che stanno attraversando ogni individuo. Così, il Nulla della morte finisce per costituire una sorta di estremo rifugio per sfuggire all'inasprimento delle contraddizioni della crisi permanente del tardo capitalismo, e al baratro che ci si spalanca davanti, presi in mezzo tra la crescente rinuncia alle pulsioni e le richieste sociali che non possono più essere soddisfatte. [...] La pulsione di morte intrinseca al capitale, che oggi si manifesta in quella che è la sua crisi letale, vorrebbe dislocare tutto il mondo in quel Nulla, in quel vuoto spaventevole che costituisce la sostanza concreta dell'astrazione reale del valore. È un nichilismo senza soggetto, il quale si sviluppa come risultato della crisi: vorrebbe che il mondo corrispondesse al Buco Nero della forma valore, il quale si trova al centro di quell'uragano di accumulazione infinita di lavoro salariato morto che sta devastando il mondo da circa 300 anni. Di conseguenza, in tempo di crisi, tutto ciò che non può più essere trasformato in merce, e valorizzato attraverso la vendita sul mercato, viene consegnato alla distruzione; piuttosto che disattivare la macchina della valorizzazione mondiale che controlla gli esseri umani e la natura. Nel frattempo, la distruzione delle merci invendibili in tempi di crisi, che vengono sottratte sempre più alla fruibilità da parte di persone sempre più impoverite grazie alle norme giuridiche corrispondenti (ad esempio, le leggi che vietano di «frugare nei cassonetti»), è solo l'ovvio risultato di questo impulso autodistruttivo» (Konicz 2022b, 79ss.).


Pubblicato il 25/5/2023 su Exit!

NOTE:
(1) https://www.deutsches-klima-konsortium.de/fileadmin/user_upload/pdfs/Publikationen_DKK/basisfakten-klimawandel.pdf
(2) Per una panorsmica storica (centrata sulla Germania), si veda Richter, Siebold, Weeber 2016.
(3) Por outro lado, cf. sobre a história disciplinar da modernidade e.g.: Dreßen 1982, Pfeisinger 2006, van Ussel 1970 & Rutschky 1977.
(4) Ver, por exemplo, a empresa chinesa de Fast-Fashion Shein. https://de.wikipedia.org/wiki/Shein_(Unternehmen)
(5) Cf.: As questões do consumo em foco – Um número especial de ‘Novo Argumente für den Fortschritt’, 2016, https://www.novo-argumente.com/images/uploads/pdf/novo_plus_1_inhaltsverzeichnis.pdf
(6) https://www.imabe.org/bioethikaktuell/einzelansicht/kanada-sinnloses-leben-und-einsamkeit-sind-gruende-fuer-aktive-sterbehilfe
(7) https://www.imabe.org/bioethikaktuell/einzelansicht/sterbehilfe-spart-kosten-kanadas-oekonomen-favorisieren-sterbehilfe-ausweitung
(8) https://www.imabe.org/bioethikaktuell/einzelansicht/kanada-euthanasie-auch-fuer-long-covid-patienten
(9) https://www.stern.de/gesundheit/-haben-sie-schon-mal-ueber-sterbehilfe-nachgedacht--teure-patienten-offenbar-zum-assistierten-suizid-ueberredet-32628792.html
(10) https://jme.bmj.com/content/45/1/60?papetoc=
(11) https://www.ief.at/kanada-ueberlegt-sterbehilfe-fuer-minderjaehrige/
(12) https://ottawa.citynews.ca/local-news/ontario-man-applying-for-medically-assisted-death-as-alternative-to-being-homeless-5953116
(13) How poverty, not pain, is driving some disabled Canadians towards medically assisted death: https://www.youtube.com/watch?v=ZD0O_w3HzJg vgl. auch Yuill 2022.
(14) https://www.virtualhospice.ca/maid/media/3bdlkrve/maid-activity-book.pdf
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