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Inflazione e potere

di Alessandro Roncaglia

Questo testo sostiene, e non da una prospettiva marxista, che la dipendenza degli Stati Uniti dalla Fed (in contrapposizione ad altri mezzi) per combattere l’inflazione attraverso il suo strumento brusco dei tassi di interesse ha l’effetto di colpire il lavoro mentre in genere non affronta le cause immediate. È interessante notare che l’autore Alessandro Roncaglia si oppone anche alla visione monetarista e popolare secondo cui l’espansione dell’offerta di moneta provoca inflazione, spiegando come gli aumenti dell’offerta di moneta possano essere il risultato dell’inflazione [Yves Smith].

Esistono forti interrelazioni tra politica economica, cultura e rapporti di potere nella società. Ciò è abbastanza evidente nelle politiche monetarie restrittive intraprese dalle banche centrali di tutto il mondo di fronte alle recenti esplosioni inflazionistiche.

Le politiche monetarie restrittive sono una risposta standard all’inflazione. Ma non sono prive di costi, poiché esercitano una pressione al ribasso sulla produzione e sull’occupazione. Sorgono quindi due domande: sono la risposta corretta in generale? E lo sono, in questa situazione specifica?

La mia risposta è diversa da quella mainstream.

Il contesto teorico che indica le politiche monetarie restrittive come risposta generale all’inflazione non ha validità generale, sebbene possa valere in alcune circostanze specifiche. E, di fronte all’attuale episodio inflazionistico, ci sono altre politiche che dovremmo considerare per prime.

Una teoria quantitativa antiquata della moneta è ancora spesso citata (o implicitamente invocata) dai media, e occasionalmente da economisti professionisti, a sostegno della tesi secondo cui gli aumenti dei prezzi sono causati dall’aumento della quantità di moneta in circolazione. Ma, come Kaldor una volta fece notare a Friedman, il nesso causale può andare nella direzione opposta: quando i prezzi aumentano, le banche possono essere indotte ad aumentare l’importo monetario dei loro prestiti, aumentando così l’offerta di moneta bancaria. Inoltre, di fronte ad una crescente domanda aggregata, anche la produzione aggregata può aumentare, a meno che non ci troviamo in una situazione di pieno utilizzo della capacità produttiva, il che è molto raro – e certamente non nella nostra condizione attuale.

Ma di sicuro esiste una via attraverso la quale le politiche monetarie o fiscali restrittive esercitano una pressione al ribasso sull’inflazione, ed è attraverso l’impatto di una riduzione dell’occupazione sul potere contrattuale dei lavoratori, e quindi sulle dinamiche salariali. Pertanto, queste politiche sono uno strumento di politiche redistributive, non una scelta politica neutrale rispetto alla classe. (A questo proposito si nota anche che favoriscono i profitti delle banche, delle assicurazioni e degli istituti finanziari in generale).

In sintesi, le politiche monetarie restrittive dovrebbero essere considerate con cautela quando si confrontano con l’inflazione della produzione. Sono invece, molto spesso, uno strumento utile per contrastare l’inflazione degli asset.

Nella situazione attuale, ci troviamo di fronte a un’esplosione inflazionistica dalle molteplici sfaccettature. Prima la pandemia di Covid, poi la guerra in Ucraina, hanno innescato l’inflazione interrompendo le catene di approvvigionamento globali, poi i mercati del gas e dell’agricoltura. Ora le difficoltà di navigazione attraverso il Golfo di Aden e il Mar Rosso aumentano i costi di trasporto e interrompono ulteriormente le catene di approvvigionamento.

Semplificando una questione complessa, possiamo dire che la ristrutturazione delle catene di fornitura non è certamente favorita da politiche monetarie restrittive. E, per quanto riguarda i mercati del gas e dell’agricoltura, c’è stata una chiara reazione eccessiva dei prezzi alla situazione di fondo, certamente difficile (con i mercati del petrolio che hanno mostrato anche un’eccessiva variabilità). Tale reazione eccessiva – l’elemento principale dell’esplosione inflazionistica – è dovuta principalmente ai mercati finanziari che svolgono un ruolo fondamentale nel processo di determinazione dei prezzi di queste materie prime. I mercati finanziari non si comportano secondo la teoria dei mercati finanziari efficienti, guidando i prezzi in modo tale da riflettere la situazione reale sottostante: sono inclini a reagire in modo eccessivo, guidati dalla speculazione.

È stato un errore – un enorme errore – accettare un processo di determinazione del “prezzo di riferimento” per i beni di base guidato dalla finanza, mentre la contrattazione diretta (e spesso a lungo termine) tra le aziende a prezzi molto più bassi gonfia i profitti delle aziende, con la vendita a prezzi dei prodotti finali collegati (per collusioni informali se non per regole formali, come nel caso dell’energia elettrica) al prezzo di riferimento. Contrastare questa situazione richiede politiche antitrust attive, una revisione di alcune norme e, più in generale, una politica attiva mirata al ridimensionamento della finanza (e in particolare alla finanziarizzazione delle materie prime), la cui crescita in percentuale del PIL negli ultimi decenni è la causa principale della crescente instabilità dell’economia mondiale.

Tali politiche implicano un’ampia redistribuzione del potere nell’economia e nella società in generale. Essi non hanno alcuna possibilità di essere attuati se non supportati da un diffuso riconoscimento dei fallimenti delle teorie e delle politiche neoliberiste, e questo a sua volta richiede il capovolgimento di alcuni pilastri consolidati della cultura economica tradizionale. Dovremmo riconoscere che la cultura e la politica, nel loro significato più generale, hanno una profonda influenza sulla formazione delle strategie di politica economica.


Alessandro Roncaglia, è professore emerito di Economia all’Università La Sapienza di Roma e membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei. È autore di numerosi libri e articoli. His Power and Inequality: A Reformist Perspective è appena apparso nella serie di libri INET “Studies in New Economic Thinking” con Cambridge University Press . Pubblicato originariamente sul sito web dell’Institute for New Economic Thinking

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