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Gaza, il doppio gioco di Washington

di Mario Lombardo

L’agenzia di stampa Reuters ha scritto questa settimana che l’amministrazione Biden starebbe preparando, per la prima volta dal 7 ottobre scorso, una risoluzione da sottoporre al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in cui si chiede un cessate il fuoco a Gaza. Questa iniziativa, che arriva in contemporanea con l’ennesimo intervento americano per bloccare una tregua umanitaria nella striscia, è stata subito giudicata come una netta inversione di rotta da parte di Washington e il segnale della crescente impazienza nei confronti del regime di Netanyahu. Le motivazioni della Casa Bianca non sono probabilmente così nobili come possono apparire a prima vista e, comunque, gli unici provvedimenti che sarebbero realmente in grado di fermare il genocidio palestinese continuano a essere esclusi in maniera categorica.

Gli Stati Uniti hanno già messo il veto su due risoluzioni all’ONU che avrebbero potuto imporre la fine dell’aggressione militare, mentre in altre due circostanze avevano optato per l’astensione, anche se in questi ultimi casi il punto centrale era l’accesso a Gaza di aiuti umanitari. Nella giornata di martedì è arrivato il terzo intervento USA a favore di Israele, con il veto a una risoluzione presentata dall’Algeria e appoggiata da 13 membri su 15 del Consiglio di Sicurezza.

Come aveva già spiegato nei giorni scorsi l’ambasciatrice americana al Palazzo di vetro, Linda Thomas-Greenfield, il ricorso al veto sarebbe stato dettato dal rischio che l’approvazione dell’iniziativa algerina avrebbe messo a rischio i negoziati in corso per la liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas.

In sostanza, il ruolo americano in oltre quattro mesi di guerra è stato quello di assicurare alle forze armate sioniste la piena libertà di massacrare donne e bambini palestinesi nonostante le pressioni internazionali. Il cambiamento tattico che sembra emergere a Washington coincide con i piani israeliani di invadere la località di Rafah, situata al confine con l’Egitto nella porzione meridionale della striscia. Un’operazione di questo genere peggiorerebbe ancora di più il disastro umanitario già in corso, visto che qui si sono concentrati circa un milione di profughi da altre località di Gaza proprio perché rassicurati da Netanyahu che non sarebbero stati presi di mira dal fuoco sionista.

Il governo americano ha anch’esso messo in guardia Israele dall’offensiva a Rafah, anche se il via libera potrebbe essere concesso se dovessero essere prese le precauzioni necessarie a evitare un’ulteriore strage di civili. Il riferimento a Rafah è contenuto nella bozza di risoluzione rivelata dalla Reuters, ma le questioni problematiche sollevate da Washington, sia per quanto riguarda le conseguenze sui civili sia la possibile destabilizzazione della regione, vengono vincolate soltanto alle “attuali circostanze”. Se, in altre parole, Israele dovesse assicurare anche solo formalmente l’adozione di misure volte a ridurre il numero di vittime civili e la catastrofe umanitaria, l’amministrazione Biden non avrebbe nulla da obiettare.

Resta comunque il fatto che la Casa Bianca nutre forti preoccupazioni per gli effetti che potrebbe causare un’operazione di terra a Rafah. La decisione di proporre una propria risoluzione al Consiglio di Sicurezza rispecchia appunto questi scrupoli, non tanto per l’impennata delle vittime che si registrerebbe, dal momento che a Gaza Israele ha finora ucciso circa 30 mila palestinesi, quanto per le ripercussioni interne e internazionali che l’intensificazione della strage comporterebbe.

Che gli USA stiano lavorando a una soluzione che faccia credere che a Washington sia in corso un ripensamento totale dell’approccio alla crisi in atto in Medio Oriente lo lascia pensare anche un altro riferimento importante contenuto nel documento. La Casa Bianca sostiene cioè di respingere qualsiasi iniziativa israeliana che riduca il territorio della striscia abitato dai palestinesi, anche in forma temporanea, inclusa la creazione di aree cuscinetto e la demolizione sistematica delle infrastrutture civili.

Dietro alle manovre all’ONU degli Stati Uniti c’è in primo luogo il nervosismo per il prolungarsi di un conflitto che sta determinando un’emorragia di consensi per Biden mentre la campagna elettorale si sta avvicinando alla fase più calda. Il presidente democratico è già al centro di polemiche per le diminuite capacità mentali e molti anche nel suo partito iniziano a chiedere apertamente un passo indietro e la scelta di un altro candidato.

In merito alle implicazioni regionali, invece, il continuo sostegno alla barbarie sionista sta accelerando il processo di logoramento della posizione americana. Da un lato, l’asse della Resistenza e, principalmente, l’Iran stanno guadagnando terreno in termini di credibilità e influenza, mentre dall’altro i piani di normalizzazione diplomatica tra Israele e i paesi arabi, a cominciare dall’Arabia Saudita, stanno rapidamente naufragando. Tutti questi processi, inoltre, favoriscono Cina e Russia, nonché le dinamiche multipolari e la compattazione del fronte alternativo incentrato sul cosiddetto “Sud Globale”.

L’idea di una risoluzione da presentare al Consiglio di Sicurezza potrebbe essere tuttavia tardiva e inefficace. Netanyahu e gli alleati ultra-radicali nel suo governo sembrano avere oltrepassato una sorta di linea di non ritorno e vedono con orrore un allentamento della pressione militare su Gaza. Soprattutto, poi, le azioni di Washington raccontano di un’attitudine in fin dei conti diversa dagli ammonimenti pubblici rivolti al premier israeliano in questi mesi e dallo stesso documento rivelato dalla Reuters.

Mentre prepara una risoluzione per chiedere il cessate il fuoco, l’amministrazione Biden si sta infatti adoperando per inviare un nuovo pacchetto di armi a Israele. Nel fine settimana, il Wall Street Journal ha scritto che un’altra tranche di “aiuti” militari del valore di svariate decine di milioni di dollari è in fase di preparazione. Lo stop alla fornitura di armi americane, che risultano determinanti per la campagna criminale a Gaza di Israele, è l’unico elemento in grado di convincere Netanyahu a fermare la strage, ma la Casa Bianca è ben lontana dal considerare una tale ipotesi, malgrado l’ostentazione di scrupoli e perplessità circa la situazione nella striscia.

Ulteriore conferma della duplicità di Washington è la valutazione dei rischi che sarebbe stata fatta prima di dare il via libera all’invio di altre armi a Tel Aviv. Come rivela la Reuters, l’amministrazione Biden ritiene che non esistano pericoli legati all’utilizzo delle armi in azioni che violano i diritti umani, visto che le forze armate israeliane “prendono provvedimenti efficaci per prevenire” situazioni simili, nonché per punire eventuali responsabili.

Va anche sottolineato che il testo definitivo della risoluzione potrebbe essere considerato troppo debole da altri membri del Consiglio di Sicurezza oppure i voti necessari potrebbero venire meno in caso di inserimento da parte degli USA di clausole inaccettabili. Il cessate fuoco che si chiederebbe è innanzitutto temporaneo e non è da escludere che l’iniziativa serva in fin dei conti a togliere a Hamas lo strumento di pressione che ha in mano – ovvero gli ostaggi israeliani – così da consentire poi al regime sionista di avere mano libera una volta scaduti i termini della tregua.

A Tel Aviv, intanto, il leader dell’opposizione, Benny Gantz, temporaneamente parte del governo di guerra di Netanyahy, ha avvertito che le forze sioniste inizieranno l’invasione di Rafah se gli ostaggi di Hamas non saranno liberati entro l’inizio del Ramadan il prossimo 10 marzo. Praticamente tutto lo spettro politico e militare dello stato ebraico offre un’immagine di determinazione e superiorità nel prospettare morte e distruzione a senso unico contro la resistenza palestinese, così come, sul fronte libanese settentrionale, contro Hezbollah. Questo atteggiamento nasconde però dubbi e preoccupazioni crescenti per l’incapacità di avere ottenuto risultati strategici di rilievo dopo oltre quattro mesi di guerra.

Non solo, la tanto annunciata apertura del fronte libanese e la stessa minaccia di invadere Rafah tradiscono una profonda insicurezza per le conseguenze che entrambe le iniziative militari potrebbero determinare per Israele e l’intero progetto sionista. Anche gli ambienti militari e dei servizi di sicurezza hanno concluso in un recente rapporto che, se anche Hamas dovesse subire perdite consistenti o essere sradicato da Gaza, il movimento di liberazione non verrebbe sconfitto, soprattutto perché raccoglie “sostegno autentico” tra la popolazione palestinese e incarna un’ideale di giustizia che non può essere cancellato con le armi e la repressione.

È importante anche ricordare che l’operazione a Rafah creerebbe problemi a Israele nei rapporti con gli Stati Uniti e con l’Egitto. Dell’ansia che si sta diffondendo a Washington si è già detto in precedenza ed è possibile, anche se al momento improbabile, che il precipitare della crisi regionale a causa della follia sionista finisca per convincere la Casa Bianca a porre qualche freno concreto alle azioni di Netanyahu, causando a sua volta seri guai politici per quest’ultimo sul fronte domestico.

L’Egitto, infine, anche se non ha finora fatto nulla a livello concreto per contrastare la strage di palestinesi, ha lasciato intendere che l’apertura di un fronte nella striscia meridionale e, in particolare, il controllo israeliano di un’area cuscinetto al confine con Gaza potrebbe mettere in discussione addirittura il trattato di Pace sottoscritto dai due paesi nel 1979.

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