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doppiozero

La clinica dopo Basaglia

di Pietro Barbetta

L’istituzione negata è un libro del 1968, anno che ognuno ricorda come svolta nel panorama del secondo dopoguerra; il libro esce di nuovo oggi, per la collana La nave di Teseo, di Baldini+Castoldi, a cinquantasei anni di distanza dalla prima e a cent’anni dalla nascita di Franco Basaglia, che lo ha curato e che è, nel mondo, il protagonista di un cambiamento epocale. Dopo Basaglia, la clinica nel campo della mente non è più la stessa.

Basaglia non è stato un medico qualunque, era politicamente schierato, aveva un’enorme sensibilità umana e una grande preparazione filosofica. Tra i suoi autori ci sono Edmund Husserl, Max Scheler, Maurice Merleau-Ponty e Jean-Paul Sartre. Franca Ongaro, che lo aveva sposato nel 1953, non ne era solo la moglie, era una scrittrice, aveva una formazione politica, è stata Senatrice della Repubblica e ha scritto – con Basaglia e da sé – opere di grande valore. Ricordo di lei un bellissimo saggio – in un numero di Panorama mese del 1983 – su come la psicoanalisi in Messico avesse convertito un gruppo di padri benedettini in psicoanalisti: “Così parlò Edipo a Cuernavaca”.

Inoltre Basaglia si ispira all’esperienza della comunità terapeutica. Vale la pena di ricordare le tappe della cronologia che vede Basaglia protagonista nel mondo. Nel Regno Unito, Thomas Main conia il termine Comunità Terapeutica nel 1946; nel 1951 Gregory Bateson e Jurgen Ruesh pubblicano Le matrici sociali della psichiatria; Maxwell Jones, nel 1952, crea una comunità con pazienti coinvolti nella gestione della stessa; nel 1961 Thomas Szasz pubblica Il mito della malattia mentale, e Erving Goffman Asylum. In quello stesso anno – 1961 – Franco Basaglia entra a Gorizia; più tardi, nel 1965, Ronald Laing dà vita a Kingsley Hall, comunità cogestita da medici, infermieri e pazienti in maniera egualitaria, utopia concreta.

Basaglia avrà poi un’enorme influenza in America Latina – in Brasile in modo particolare – di cui ci resta il volume Conferenze brasiliane, oggi edito da Raffaello Cortina.

L’esperienza della psichiatria di Gorizia – ove Basaglia si insedia come responsabile – raccoglie l’interesse di persone del campo della salute mentale e studiosi di scienze sociali che vogliono cambiare la modalità della cura rivolta a persone considerate folli, o malate mentali. È un’esperienza testimoniata da numerosi scritti, immagini fotografiche e pubblicazioni dell’epoca, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, e di memorie e ricerche successive, come il libro dello storico inglese John Foot, La “Repubblica dei matti” (vedi la recensione su Doppiozero)

L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico ha un gran successo di vendite in quell’anno e, negli anni Settanta, con oltre sessantamila lettori. I nomi degli autori, oltre Franco Basaglia e Franca Ongaro, sono: Nino Vascon, giornalista, gli psichiatri Lucio Schittar, Antonio Slavich, Agostino Pirella, Nico Casagrande e Giovanni Jervis, la psicologa Letizia Comba, che aveva collaborato con Ernesto De Martino durante la ricerca antropologica a Galatina, nel Salento, sul morso della tarantola (La terra del rimorso) e il sociologo Antonio Gilli, che sviluppa, in quegli anni – in contrasto con Vittorio Capecchi – una critica radicale verso la supposta neutralità metodologica nella ricerca sociale (Come si fa ricerca).

Ognuno di questi autori nei differenti capitoli del libro testimonia gli effetti della negazione di Basaglia: “e mi no firmo”, il momento in cui l’istituzione nega la propria funzione di controllo dei corpi, in contemporanea con la grande riflessione di Michel Foucault dello stesso anno.

 

Il titolo del libro e il corpo

Che significa “Istituzione negata”? Per comprendere a fondo questo titolo è necessario riflettere sul significato di Istituzione. Il dizionario presenta una quantità di definizioni che tendono a convergere intorno a una funzione, l’istituzione sembra essere un insieme di persone, norme e cose che rispondono a una finalità consapevole: regolare la società. Questa definizione, alquanto vaga, dipende dai gradi di libertà consentiti in un sistema sociale. Democrazia e totalitarismo rappresentano visioni opposte riguardo ai gradi di libertà; oppure, più che visioni opposte, democrazia e totalitarismo sono idee limite in un continuum: ogni restrizione di libertà riduce i margini della democrazia e ogni apertura verso nuove libertà aumenta i margini democratici. Il dizionario però non menziona che, per ogni istituzione, esiste sempre qualcosa che sfugge al suo controllo, qualche margine incontrollabile, qualche piccolo, o grande, buco nella rete istituzionale. Potremmo chiamare questo margine inconscio istituzionale.

Consideriamo l’istituzione psichiatrica, il carcere, gli istituti di correzione come reti di secondo livello, che recuperano, riabilitano, ristabiliscono normalità, dove le istituzioni di primo livello – scuola, famiglia, istituzione religiosa, ecc. – si sono lasciate sfuggire casi singolari che non hanno risposto alle norme. Una norma, per essere applicata, necessita di una decisione ad hoc, che può essere svolta in maniera differente, ma deve, in qualche modo, essere espletata. Qualcuno deve mettere una firma, per svolgere un mandato.

La firma non è un gesto qualsiasi, è un sigillo del potere istituzionale, può essere rilasciata solo da chi, dentro l’istituzione, ne rappresenta l’essenza: il Direttore.

L’istituzione negata si riferisce all’istituzione manicomiale, ma il ragionamento che propongo può concernere anche altre istituzioni. Che accade quando, nel cuore dell’istituzione, l’istituzione stessa viene negata? Quando il Direttore rifiuta il potere che gli è stato assegnato?

Non si tratta più solo di democratizzare il controllo istituzionale. Si tratta di rifiutarlo, ma questo rifiuto ha delle ragioni, vediamole. Secondo chi redige le pagine di L’istituzione negata, nel discorso clinico, la questione istituzionale ha un intenso legame con il corpo.

C’è un corpo giuridico, un corpo dottrinale, ma c’è anche il corpo vivente del soggetto, il Leib, come direbbe Husserl, o il corpo proprio, come in Merleau-Ponty. Il corpo proprio non può essere ridotto al corpus dottrinale, senza venire coartato, trasformato, reso impotente, dimezzato. A proposito della liberazione del corpo internato in manicomio, Basaglia, in un discorso a Genova, nel 1967 sostiene:

Molti dei sintomi con i quali [il soggetto] è stato etichettato, scompaiono al cadere delle strutture cui essi risultavano strettamente legati, così da richiedere un graduale lavoro di smistamento fra ciò che può considerarsi prodotto dall’internamento, e ciò che è da ritenersi il nucleo dell’originaria malattia. Quel che sorprende è che, dopo questa laboriosa selezione, resti ben poco del complesso sindromico denunciato e, comunque, non tale da giustificare un’organizzazione di tal tipo. Il che ci autorizza anche a una revisione a posteriori dell’intera impostazione psichiatrica.

Letizia Comba, una delle due autrici, insieme a Franca Ongaro, del libro, rende la questione della liberazione femminile ancor più complessa. Il suo capitolo si intitola C donne: l’ultimo reparto chiuso, e inizia con un’intervista al medico intorno alle ragioni dei ritardi della chiusura di questo reparto femminile. Alla richiesta di spiegare le ragioni di questa ritardata chiusura, il medico risponde: “Prima di tutto negli uomini non c’è il problema delle tendenze erotiche. Poi ci sono più donne, secondo me, che hanno tendenza a fuggire, o che sembra che abbiano tendenza a fuggire”.

Il resto della riflessione di Comba si rivolge alla singolarità dell’esperienza di alcune donne internate – Antonia, Ada, Paola –, alle possibilità negate dalle istituzioni, alle punizioni che seguono alle tentate fughe, alle corruzioni che permettono alle donne di avere minimi margini di privilegio, una branda meno scomoda, un pacco di biscotti, in cambio di favori e ai modelli femminili presenti e da mostrare, dalla maternità alla scelta religiosa. È noto tuttavia che la diagnosi di follia morale, rivolta quasi unicamente alle donne, fu pervasiva durante l’internamento manicomiale, come testimonia la ricerca svolta presso gli archivi psichiatrici di San Servolo a Venezia da un gruppo di studiosi una decina di anni fa per Mimesis.

La questione del corpo femminile rappresenta dunque una differenza, un’ammissione che, anche nel mezzo di un processo di liberazione, il corpo delle donne assume un aspetto sconvolgente, che raddoppia il fenomeno liberatorio, lo rende incandescente, indecente, mina il comune senso del pudore. 

 

L’istituzione e le linee di fuga

Negare l’istituzione, nel cuore della stessa, richiede coraggio. Si tratta di coinvolgere ognuno – medici, psicologi, infermieri, pazienti – a invertire la piramide del potere istituzionale; introdurre una linea di fuga, non da fuori, ma dentro all’istituzione. Si tratta inoltre di convincere chi sta fuori, la maggioranza silenziosa, i signori per bene, che la differenza – in questo caso la follia, ma potrebbe essere qualsiasi altra differenza – è espressione di un dissenso che ci dà da pensare, che ci fa crescere sul piano culturale, ma che spaventa il mondo benpensante. In questo senso, quando apre il manicomio e lascia il soggetto libero, il gesto di Basaglia va oltre la Comunità Terapeutica. La società totalitaria non può tollerare un dissenso così radicale come il “disordine del pensiero” – temine usato dalla psichiatria classica per definire la schizofrenia –, ma il pensiero è così libero da non potere essere ordinato, se non al prezzo della violazione di un diritto all’esistenza di ognuno. L’istituzione negata è una singolare linea di derivazione. Come in matematica la singolarità è un punto dove una curva cambia radicalmente e fa nascere l’imprevedibile; oppure in musica, quando si tratta di una variazione repentina – come in alcune composizioni di Schoenberg, o nell’improvvisazione jazz. Se la matematica e la musica sono all’altezza di gestire la complessità dei propri contenuti, trasformando i propri limiti in nuove frontiere della conoscenza – nel primo caso – e in nuove esperienze della sensibilità uditiva e ritmica – nel secondo caso –, perché la società non dovrebbe favorire variazioni esistenziali dello stesso tipo? Se un nuovo teorema e un nuovo brano musicale sono forme della creazione umana, perché la follia non può esserlo? Gregory Bateson sostenne che la follia è un salto trans-contestuale, la creazione di un evento inatteso: il delirio. Ma scrivere un romanzo, un poema, mettere in scena un’opera, girare un film, comporre o suonare un brano musicale, dipingere o creare un’istallazione non è, a sua volta, produrre un delirio?

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