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Tramonto e fine del Socialismo europeo?

di Giorgio Salerno

La conduzione e la conclusione, per ora, della vicenda greca (luglio 2015), ha visto una nutrita schiera di protagonisti ma tra questi si sono negativamente distinti qualificati esponenti della socialdemocrazia tedesca come Martin Schulz, Presidente del Parlamento europeo e Sigmar Gabriel, Presidente della SPD. Il loro oltranzismo e durezza nel sostenere gli accordi iugulatori imposti alla Grecia, non è stato da meno di quello della Merkel e di Schauble.

Tali comportamenti, apparentemente inaspettati, aprono seri interrogativi e ci interrogano sulla natura e sui destini dei principali partiti del socialismo europeo. Cosa sono oggi questi partiti di quella che un tempo si chiamava Internazionale Socialista? Ed ha ancora un senso parlare di ‘socialismo’ del Partito del Socialismo Europeo?

Venti di crisi soffiano sui partiti maggiori: il risultato delle elezioni politiche in Gran Bretagna (maggio 2015) con la vittoria dei conservatori di David Cameron, la rimonta di Sarkozy in Francia di fronte al traballante Hollande, la perdita del governo da parte dei socialisti spagnoli, l’affanno delle socialdemocrazie scandinave, e buon ultima l’ingloriosa fine del Pasok, già di Papandreu, a favore di Syriza, sono un segno evidente di questa crisi di rappresentanza e di strategia.

Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, si ipotizzo’ che la fine del ‘socialismo reale’ avrebbe coinvolto in qualche misura anche il socialismo democratico. Le macerie di quel crollo non avrebbero travolto solo i comunisti ma anche, in senso più ampio, la sinistra tutta. Come avrebbero risposto le socialdemocrazie alla scomparsa dell’avversario storico ed alla fine della guerra fredda se non addirittura alla ‘fine della storia’?

In realtà già da tempo era iniziata una trasformazione dei più grandi partiti socialisti. La situazione creatasi con gli eventi dell’89 accelerò il processo dello spostamento ancora più a destra dei rispettivi partiti (la stessa vicenda italiana dello scioglimento del PCI puo’ essere letta in questa ottica).

Tony Blair aveva definito il suo New Labour come un partito non di sinistra ma di “left of center’, sinistra di centro (sic) inaugurando la strategia della “terza via” delineata dal suo consigliere Peter Mandelson, anzi Lord Mandelson sulle orme di Anthony Giddens; Gerhard Schroeder chiamò ‘Neue Mitte’, nuovo centro, lo spazio che la sua SPD doveva occupare; in Spagna il Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) con la leadership di Felipe Gonzales, segretario generale dal 1974 al 1997, abbandono’ l’impostazione marxista del partito; in Italia il PSI di Bettino Craxi si è dissolto in una miriade di gruppi e, per quanto riguarda gli eredi del PCI, è sotto gli occhi di tutti cosa sia il PD di Matteo Renzi, se non ancora il ‘partito della nazione’, di sicuro un partito che occupa il centro e che guarda….a destra (Patto del Nazareno, i voti ben accetti di Verdini sulla legge sulla scuola ecc).

Commentatori non pregiudizialmente ostili hanno parlato di ‘eclissi della socialdemocrazia’, della perdita di ‘una visione comune dell’Europa’, di un internazionalismo finito tra i ferri vecchi della storia (Paolo Franchi, Corsera 14.7.2015).

Tony Judt, l’eminente accademico anglo-americano, si chiedeva (“Cosi’ va il mondo”, Laterza 2011) cosa facessero i socialisti di fronte alla crescente disuguaglianza cresciuta enormemente dagli inizi degli anni ’90, “il primo di due lunghi decenni in cui fantasie di prosperità e progresso individuale sconfinato rimpiazzarono ogni discorso di liberazione politica, giustizia sociale o azione collettiva.

Nel mondo anglofono l’amoralismo egoistico di Margaret Thatcher e Ronald Reagan fu seguito dalle chiacchiere al vento dei politici del baby-boom. Sotto Clinton e Blair le due sponde dell’Atlantico si crogiolarono nell’autocompiacimento” (pag.169). E, aggiungeremmo noi, per restare in tema, alla sponda Mediterranea ci penso’ Walter Veltroni.

Le critiche che lo storico dell’industria e docente alla Bocconi, Giuseppe Berta rivolge alle socialdemocrazie (“Eclisse della socialdemocrazia”, Il Mulino 2014), sono invece più radicali. La perdita di identità delle socialdemocrazie subisce una forte accelerazione con la scelta di cavalcare i fenomeni della globalizzazione, globalizzazione che riduce l’autonomia dello Stato-Nazione, centro delle politiche di redistribuzione e del modello di Welfare come lo abbiamo sinora conosciuto.

In quale misura, allora, le politiche socialdemocratiche sono state influenzate dalla fine dei regimi del cosiddetto ‘socialismo reale’?
La sfida della guerra fredda era una sfida tra due modelli di società e tra due visioni del mondo antitetiche; tuttavia il modello socio-economico occidentale era stato costretto ad assumere alcuni caratteri del modello derivante dalla rivoluzione del’17, modello che aveva influenzato larghe masse di lavoratori in ordine alla creazione di uno stato sociale e di un’organizzazione a difesa degli interessi delle classi subalterne.

In sostanza, grazie alla deterrenza rappresentata dalla presenza dei paesi del socialismo reale, la socialdemocrazia, pur nel quadro delle compatibilità capitalistiche, riusciva a promuovere nei paesi occidentali vasti programmi di Welfare State. Si pensi soprattutto alle politiche dei laburisti nel secondo dopoguerra ed alle socialdemocrazie scandinave. Con la caduta del Muro veniva meno l’avversario storico e si poteva dar luogo al ‘nuovo corso’ senza tema di pagarne i danni politici.

Il ventennio post 89 vede quindi una lenta erosione del Welfare State, se non una vera e propria dismissione, iniziata dalle forze liberali e conservatrici ma affiancate dai vari partiti socialisti che, ben presto, non si limitano ad essere comprimari ma protagonisti delle politiche di moderazione salariale, liberalizzazione finanziaria, privatizzazioni, precarietà ed austerità.

La politica estera non si discosta dalle politiche suddette.

Basti ricordare la spudorata condivisione delle avventure imperialistiche della guerra all’Irak di Saddam Hussein che videro il Labour di Tony Blair in prima fila nell’avallare le menzogne sulle armi di distruzione di massa. Ed a seguire l’intervento in Libia, l’appoggio incondizionato alle posizioni anti Putin, il silenzio sulla questione palestinese.

La socialdemocrazia, che aveva perseguito, nelle sue punte più avanzate, il progetto di correggere ed equilibrare l’economia capitalistica con una forte spinta alla giustizia sociale e ad una democrazia egualitaria, con l’adesione all’ideologia del mercato ha finito per smarrire quell’istanza di equità che l’aveva caratterizzata, finendo per candidarsi ad una gestione modernizzatrice dell’economia.

E’ evidente, allora, che se non si vede altra politica possibile se non quella di “amministrare” il capitalismo, diventa improcrastinabile e necessaria la rinascita di una sinistra degna di questo nome, anti-liberista ed anti-capitalistica, che ritorni a rappresentare il lavoro subordinato, il mondo del precariato e le ragioni di un’alternativa alle politiche mercatistiche dominanti. Di fronte alle diseguaglianze crescenti ed alla insicurezza mondiale, la socialdemocrazia è muta, l’illusione è infranta.

Non stupisce, quindi, che l’esito finale di questo processo potrebbe essere quello perseguito da Matteo Renzi e manifestato nell’incontro con Barack Obama (Repubblica 19.4.2015) : il nuovo nome del PSE non sarà più socialista ma democratico. Il modello americano tout court. Il nome e la cosa coincideranno.

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