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Ballando sul Titanic

Mauro Casadio

Relazione introduttiva del convegno organizzato dalla Rete dei Comunisti il 19 giugno a Bologna

convegno reteL’incontro nazionale di oggi, promosso dalla Rete dei Comunisti, ha un carattere diverso dai nostri precedenti incontri. In questi ultimi anni abbiamo cercato di spiegare e motivare le analisi da noi fatte rappresentandole dentro un quadro che abbiamo cercato di rendere più organico e funzionale possibile in rapporto al nostro intervento politico complessivo. Il precipitare della crisi finanziaria ed economica internazionale ci obbliga, come d’altra parte obbliga tutti, a tornare ad analizzare a fondo le dinamiche degli anni passati e quelle che oggi stanno maturando, certamente alla luce degli orientamenti da noi espressi in precedenza ma cercando anche di cogliere quegli elementi che potrebbero segnare una discontinuità oppure una ulteriore evoluzione della condizione precedente.

In questo senso il confronto organizzato per oggi ha l’obiettivo di aprire una fase di lavoro non breve in cui prevalga il carattere della ricerca, del confronto e della elaborazione finalizzata a capire gli adeguamenti che le forze sociali e politiche di classe sono chiamate ad attuare in un paese come il nostro. In altre parole vogliamo praticare nuovamente un metodo di lavoro da noi adottato dalla metà degli anni ’90 durante i quali, in epoca di affermazione della teoria dell’Impero, a ridosso del movimento No/global, o parimenti del riconoscimento del solo imperialismo USA, cercammo di ricostruire i caratteri concreti di una fase del moderno imperialismo che definimmo di Competizione Globale.

Una complessa dinamica che andava manifestandosi attraverso la nascita delle aree monetarie (erano gli anni del varo dell’Euro) che si presentava come l’attuale esemplificazione della forma della classica competizione interimperialistica. Un lavoro teorico/politico che si è concluso, dal nostro punto di vista, nel 2003 con il convegno che titolammo, stampandone poi gli atti, come “Il piano inclinato del Capitale”.

Intendiamo dare, ancora una volta, importanza alla questione del metodo in quanto la rilevanza storica del passaggio che stiamo vivendo e la sua complessità pongono alle forze di classe e comuniste tutta una serie di questioni strategiche che, se sottovalutate, rischiano di farci retrocedere ulteriormente. Questo pericolo è ancora più forte per chi come noi vive dentro uno dei poli imperialisti egemoni e deve fare i conti con una condizione di classe estremamente complicata e contraddittoria dove affianco alla immanente condizione di sfruttamento il lavoratore si percepisce ancora come consumatore e cittadino privilegiato rispetto ad altre aree del mondo.

L’attuale crisi che ormai da circa due anni si sta evidenziando come crisi finanziaria è una conseguenza, e anzi un’appendice della crisi economica strutturale più generale di sistema che si protrae da circa 40 anni. Del resto gli stessi economisti borghesi ammettono che, sostanzialmente,   è messa in discussione la stessa costruzione sistemica delle economie capitaliste sviluppate. Ed è proprio questa crisi sistemica  che incide  sulla percezione precedentemente enunciata producendo effetti politici ed ideologici contraddittori e spesso favorendo nei settori sociali più deboli posizionamenti politici e comportamentali di tipo reazionario. Ragionare sulle caratteristiche della crisi ma soprattutto sulle sue prospettive di medio periodo, in quanto il lungo periodo oggi non è dato prevedere, e sui suoi sbocchi possibili e potenziali è l’unico modo per predisporci ad affrontare una condizione che non è difficile capire essere molto dura per prossimi anni ma offre anche alcune con potenzialità di recupero del conflitto di classe materiale, politico e culturale.

 

I CARATTERI DELLA CRISI

Il “filo” del ragionamento che vogliamo riprendere è quello che parte dalla domanda che abbiamo fatto a conclusione del documento di convocazione di questo incontro: In sostanza la domanda “giusta” che ci dobbiamo fare è: se le dinamiche nei decenni passati qui sinteticamente esposte sono corrette è realistico ipotizzare che la via di uscita per il capitale non può che essere la riproposizione della società dei 2/3, come è avvenuto nel secondo dopoguerra, a livello internazionale puntando ad una ulteriore crescita del mercato (tramite i nuovi ceti medi? Una sua intensificazione con le privatizzazioni? Altro ancora?) che fornisca uno sbocco sufficientemente ampio alle contraddizioni interne che hanno portato la situazione attuale?

Per tentare di dare una risposta a questa domanda, o meglio, per aprire una fase di riflessione ed analisi non si può non partire da una attenta valutazione sul punto a cui ora è giunta la crisi individuandone anche le cause, al di là delle ricette che gli economisti borghesi ed i giornali ci propinano quotidianamente ma che non sono mai state così smentite come oggi dagli sviluppi della situazione reale. Nel convegno ci sono tre relazioni che analizzano i caratteri della crisi e “fotografano” le contraddizioni strutturali dell’attuale sviluppo capitalistico che stanno emergendo in modo inconfutabile. La prima è quella di Vladimiro Giacchè sulla sovrapproduzione di capitale e sui processi di finanziarizzazione. La seconda di Maurizio Donato sulle funzioni politiche dello Stato a sostegno del Capitale e la terza è quella di Luciano Vasapollo sulle funzioni economiche dello Stato, in particolare della Unione Europea, di fronte a quello che viene definito il “debito sovrano”.

I caratteri che si manifestano in questa condizione di stallo dello sviluppo sono abbastanza evidenti. Il primo è quello della sovrapproduzione di capitali, ovvero dei processi allargati di finanziarizzazione avviati già dagli anni ’80, e rilanciati dalla fine dell’URSS, che sono stati la controtendenza principale usata per contenere la caduta del saggio di profitto, come afferma in modo preciso Giacchè nella sua relazione. Processi che hanno permesso di mantenere alti livelli di consumo nei paesi imperialisti anche a costo di ingenti indebitamenti.

Questa situazione sta sfociando ormai in un debito pubblico sempre più pesante per gli Stati che si fanno carico, come negli USA, di sostenere anche il debito privato; in realtà si impegnano migliaia di miliardi di dollari ed euro per impedire il fallimento di interi gruppi finanziari, banche, fondi, etc.

Tale scelta implica necessariamente politiche restrittive e di forte taglio della spesa pubblica che oltre a colpire i settori più disagiati della società ed il lavoro dipendente complessivamente, non solo quello pubblico, deprime i mercati interni ed i consumi dei paesi sviluppati.  In tale modo gli interventi pubblici cosi concepiti incentivano una crisi economica che in questi anni tutti hanno cercato di esorcizzare prevedendone il superamento ma che inesorabilmente si ripresenta nei momenti di verifica vera dello stato dell’economia.

Tutto ciò sta portando ad una radicale modifica sociale con la fine delle tutele, la riduzione dei redditi, la precarietà generalizzata, i monopoli dei servizi e delle tariffe di pubblica utilità e la riduzione del risparmio delle famiglie. Siamo di fronte a profondi processi di proletarizzazione anche se dai settori sociali coinvolti non vengono necessariamente percepiti con questo segno. Quella che fu definita la società dei 2/3, cioè della prevalenza dei ceti medi, sta andando incontro ad una modifica del suo assetto con la crescita forte delle diseguaglianze sociali, una modifica che potrebbe subire ulteriori accelerazioni nella riorganizzazione produttiva e di mercato mondiale in atto.

La crisi dell’Occidente non è però la crisi di tutti i paesi; nei paesi della periferia produttiva, Cina, India, America Latina/Brasile, usati nei decenni passati per investire masse enormi di capitale finanziario in cerca di profitto, per piegare la resistenza della forza lavoro nei paesi imperialisti con la delocalizzazione produttiva e per sostenere il consumismo (versus il Comunismo) ora non si vive una condizione di crisi ma, al contrario, appaiono come i nuovi possibili mercati di sbocco per le imprese  occidentali. Questa è però una potenzialità che allo stato attuale non è ancora precisata concretamente ne sul piano della dimensione di quei mercati ne su quello della volontà politica degli Stati di quella periferia di aprirsi, senza nessuna misura di protezione dalla pura manomissione economica, a vantaggio dei sopraprofitti delle imprese dei paesi imperialisti.   

Infine se è vero che da noi gli Stati possono svolgere funzioni economiche, politiche e ideologiche  per contenere la situazione attuale quello che comincia ad apparire altrettanto evidente è che la funzione reale che possono effettivamente svolgere è quella del rinvio, nel tempo e nelle modalità di rappresentazione concreta, dei nodi strategici che si intravvedono chiaramente all’orizzonte ma non certo la loro risoluzione definitiva particolarmente nel lungo periodo.

 

QUALE CRESCITA POSSIBILE?

Il dato che emerge a questo punto è che i mercati dei paesi capitalisticamente avanzati vivono un condizione di stagnazione che non permette in modo adeguato di stabilizzare i processi di valorizzazione del capitale nella produzione di merci per il consumo interno. Tutto ciò mentre appare evidente che la leva finanziaria è divenuta un peso che grava pesantemente sullo Stato impedendo una sua funzione classicamente Keynesiana ovvero di rilancio del ciclo a larga scala.

Quello che si prospetta è la possibilità di far crescere i mercati della periferia industriale in Asia ed in America Latina/Brasile dove sono stati coinvolti nella produzione centinaia di milioni di operai e di impiegati di nuova formazione e dove gli Stati avendo notevoli surplus finanziari possono sviluppare i mercati interni. Di questo parla la relazione odierna di Giorgio Gattei, ma ormai tutte le dichiarazioni sulla condizione della economia internazionale fanno riferimento a questa possibilità che sembra aprirsi per rilanciare un nuovo ciclo economico allargato.

Di questo parlano ormai anche le cronache dei giornali, “Il Sole 24 Ore” del 6 Giugno scorso, ma anche nei giorni successivi, riporta dei conflitti di classe che stanno crescendo nelle fabbriche cinesi delle multinazionali, ad esempio alla Honda ed alla Foxconn conosciuta anche da noi per i suicidi di molti operai, e che hanno portato ad aumenti salariali di circa il 30% ed oltre, conflitti che rischiano di estendersi nelle aree più industrialmente sviluppate della Cina ma anche nel resto dell’Asia dove sono occupati centinaia di milioni di dipendenti. Nello stesso numero del giornale si parla della competizione in Africa tra Cina e Unione Europea per le risorse delle materie prime e di questo, nei giorni scorsi, ne ha parlato anche Prodi in una lunga intervista alla TV di Repubblica.

Sembrerebbe che la possibilità di una crescita quantitativa del mercato e dei consumi si affacci di nuovo come premessa di un nuovo ciclo di crescita e che questa possibilità produca una modifica sociale nei paesi coinvolti come quella avuta in Occidente ed in Giappone dopo la seconda guerra mondiale portando alla formazione maggioritaria dei cosiddetti “ceti medi” ed ai boom economici che hanno ricostituito il mercato capitalistico.

Se questa possibilità si realizzerà potrà prendere forza un ulteriore avanzato sviluppo delle forze produttive innestato dai notevoli sviluppi scientifici e tecnologici, aspetto questo ripreso nella relazione di Guglielmo Carchedi, che porteranno ad un rilancio della produttività e dei processi di riorganizzazione capitalistica tramite centralizzazione e concentrazione. Anche sul piano politico internazionale gli Stati poterebbero trovare di nuovo un ruolo economico oltre quello strettamente legato al controllo sociale e politico delle contraddizioni che stanno maturando. In questo senso i vari G2, G7, G8, G20 (tendenti all’infinito), che appaiono palesemente sempre più inutili orpelli diplomatici, potrebbero ritrovare una loro funzione politica in un mondo divenuto definitivamente multipolare. Il quadro che si delineerebbe sembrerebbe simile a quello avuto in Occidente dopo la seconda guerra mondiale con la presenza di un ampio mercato ad occidente, con l’introduzione massiccia della nuova produzione fordista e con una relativa stabilità politica internazionale.

Ma le cose stanno effettivamente così? Se è vero che si intravvedono punti di crescita del mercato mondiale questi sono un elemento che favorisce la stabilizzazione o piuttosto il contrario? E’, in definitiva, credibile questa via d’uscita oppure è una possibilità che dovrà fare i conti con una condizione mondiale troppo difficile per concretizzarsi? Queste sono domande alle quali la sinistra di classe ed i comunisti sono chiamati a misurarsi non per un teorico “senso del dovere” ma perché queste determineranno le condizioni sociali e politiche concrete del nostro paese. Finita l’ubriacatura elettoralista di questi anni con l’emergere del brutale rapporto capitalistico tra le classi nel nostro paese quello che si rende evidente è la necessità di ricostruire una capacità soggettiva che non può più volare basso sulle dinamiche economiche, sociali e politiche e che è costretta ad una matura e completa visione della realtà con la quale siamo chiamati a fare i conti per riprendere una autorevole azione soggettiva a tutto campo.

 
LE CONTRADDIZIONI DI QUESTA PROSPETTIVA    

La crescita del mercato per le merci capitalisticamente prodotte ha una carattere essenzialmente quantitativo per estensione e per intensità; ipotizzare una crescita tale da far superare per un periodo storico sufficientemente lungo la crisi economica attuale significa capire anche la dimensione dell’allargamento possibile del mercato. Se ripercorriamo, come abbiamo accennato nel documento di convocazione per l’incontro di oggi, i passaggi fatti storicamente dal mercato capitalista dalla sua dimensione nazionale fino alla globalizzazione attuale, con le conseguenti modifiche della composizione di classe, si pone obiettivamente la necessità di capire se questa possibile crescita che si presenta è adeguata alle necessità di valorizzazione del capitale al suo livello di sviluppo attuale.

Questa valutazione non riguarda solo la periferia produttiva ma noi stessi; infatti se appare evidente la possibilità di crescita dei ceti medi di quei paesi quello che bisogna chiedersi è se questi ceti medi sono aggiuntivi o sostitutivi di quelli presenti negli attuali paesi imperialisti. Se viene meno progressivamente il signoraggio del dollaro e la prevalenza della leva finanziaria ora in crisi, che ha permesso negli ultimi decenni l’egemonia USA ma anche del capitalismo in generale, la competizione non può che tornare tendenzialmente sulla produzione di merci. Questo cosa potrà significare concretamente per l’Europa e l’occidente?

Forse il calo dell’Euro, con la possibile inflazione e la conseguente erosione dei redditi da lavoro, visto senza eccessive preoccupazioni sono un segno di questo cambiamento. Se il costo del lavoro da noi rimane elevato in una condizione di stagnazione dei consumi sono possibili ulteriori fasi di delocalizzazione nella attuale periferia produttiva ma anche in quella più prossima a noi come l’est Europeo, l’Africa del nord ed il bacino mediterraneo.

Assume così un carattere di riferimento anche la vicenda della FIAT a Pomigliano dove il tentativo di portare i redditi, la produttività e il comando del lavoro a livelli polacchi è palese ed è sostenuto non solo dal potere politico, governativo ma anche dai sindacati collaborazionisti i quali non si sono lasciati sfuggire un passaggio di metodo e di sostanza importante e significativo del pluridecennale corso della ristrutturazione capitalistica. L’insieme di questi processi con la crisi finanziaria degli Stati quali effetti produce sul piano sociale? I processi di proletarizzazione e di impoverimento potrebbero incrementarsi ulteriormente con evoluzioni politiche tutte da capire e per noi indubbiamente rilevanti ai fini dell’agire organizzato.

Quello che va anche capito è anche la relazione proporzionale tra la dimensione dei mercati emergenti e quelli sviluppati. Il PIL della Cina, il paese con maggiore crescita mentre India e Brasile pesano ancora meno, oggi è circa il 7-8% di quello mondiale di fronte a circa il 50% dell’occidente e del Giappone. Se queste sono le proporzioni quello che appare evidente comunque è che i tempi necessari per una crescita significativa, ed in condizioni di stabilità politica internazionale, non sono certo brevi e comunque ben più lunghi della crisi in corso e non è detto che possano condizionarla più di tanto.

Forse vale la pena di fare un’altra considerazione. La fase rivoluzionaria del ‘900 che si è protratta fino agli anni ’70 è stato il frutto anche, ovviamente non solo, di un livello arretrato di sviluppo delle forze produttive complessivamente intese di fronte al crescere tumultuoso del proletariato e delle contraddizioni interimperialiste. La sfida decisiva tra gli anni ’70 e ’90 si è risolta proprio con questo sviluppo e con quella che è stata definita la rivoluzione tecnico-scientifica che ha implicato un aumento enorme della composizione organica del capitale. Quale rapporto ci può essere tra l’odierna dimensione della composizione organica mondiale e i margini di realizzazione di profitto che vengono offerti ora dallo sviluppo delle periferie produttive?

Oltre ai dati strettamente economici, qui delineati in qualche modo, è chiaro che non possiamo non considerare i dati politici immediati e quelli strategici. Parlare di sviluppo del mercato mondiale in termini generici non è realistico in quanto questi sono controllati dagli Stati e dal loro potere reale sul piano politico, militare e dai loro reciproci rapporti di forza. Il punto allora è capire fino a che punto Stati quali la Cina, L’india, il Brasile e la Russia stessa possano permettere di sfruttare il mercato interno alle imprese dei paesi imperialisti e quanto invece escono rafforzati da una loro autonomizzazione sempre più marcata dall’Occidente. Ancora, quanto questi Stati dovranno entrare in competizione con i paesi imperialisti sul rastrellamento delle materie prime come già sta avvenendo in Africa?

Va anche considerata l’altra faccia della medaglia cioè il carattere imperialista dell’Occidente e del Giappone cosi come lo abbiamo analizzato in questi anni nella sua evoluzione dalla dimensione dello Stato Nazionale a quello continentale per aree monetarie e di libero scambio. Processo che avviene in Europa o nell’America del Nord ma che si sta prospettando in diverse zone del mondo in Asia, in America Latina e perfino in Africa. La crescita di nuovi mercati per la proporzione e la relazione che hanno con il resto del mondo determineranno anche le politiche imperialiste dei paesi occidentali, come già appare evidente dalla moltiplicazione dei conflitti a livello mondiale anche se ancora mantenuti in ambiti limitati, che non potranno limitarsi a contrattare quote di potere economico, politico e militare con i paesi emergenti.     

Un ulteriore salto quantitativo del mercato, data già la dimensione globalizzata, ha altre implicazioni politiche ed economiche. Un altro incremento dei consumi mondiali finalizzati al profitto determinerà, se realizzato, un peggioramento dell’ambiente complessivamente inteso che verrà fatto pagare all’intera umanità. Sappiamo bene che questa tematica non funziona dal punto di vista della politica sostanziale degli Stati i quali, infatti, si limitano a fare retorica ambientalista che accontenta molti nostri intellettuali ed anche il ceto politico ambientalista, ma ben poco incide nella situazione concreta. Ma a questo elemento se ne aggiunge un’altro rilevantissimo e di carattere generale che sta ora mostrando possibili limiti obiettivi dello sviluppo attuale. Ci riferiamo alla questione energetica ed alla capacita delle risorse energetiche attuali di sostenere un livello complessivo più avanzato di produzione di merce.

La vicenda della fuoriuscita del petrolio dal pozzo della BP collocato nel Golfo del Messico non è un incidente ma è la verifica dei limiti dello sviluppo basato su una produzione che tende all’infinito. La rottura del tubo inabissato per 1500 metri per raccogliere petrolio è la manifestazione di un limite tecnologico concretamente esistente per continuare nella produzione di petrolio a costi relativamente bassi per una società che vive sulle energie fossili. Quella che possiamo definire tranquillamente la Cernobyl degli USA e dell’Occidente nasce dal fatto che di fronte alla spinta a crescere nella produzione a dimensioni mai viste prima non esiste una fonte energetica tale da poter sostenere questa necessità del modo di produzione capitalistico. Certamente si lavorerà anche alle energie alternative, si cercheranno altre soluzioni, prima tra tutte nuove centrali nucleari, ma per mantenere i ritmi di crescita dell’ economia globale attuale non è più sufficiente il petrolio che tornerà a prezzi insostenibili appena saremo di fronte ad una ripresa economica mondiale consistente. Tutto questo considerando che da molte parti si ritiene che il “picco” del petrolio, ovvero il tasso di estrazione, sia stato già raggiunto.

UN PAIO DI QUESTIONI STRATEGICHE PER NOI

UNA DISTRUZIONE DI CAPITALE GENERALIZZATA? Se come marxisti pensiamo che i caratteri della crisi siano quelli che in qualche modo abbiamo qui descritto e che fanno riferimento alla crisi di sovrapproduzione innestata già dagli anni ’70 il punto su cui riteniamo vada messo l’accento analitico e teorico è quello di capire le evoluzioni della crisi e gli effetti che produrranno. Non è facile ne possibile dare per scontata la via d’uscita dalla situazione attuale e dunque non ci eserciteremo in tentativi magici di prevedere il futuro, certo però che gli accostamenti sistematici che vengono fatti da quasi tutti tra la crisi attuale e quella degli anni ’30 non ci può fare escludere nemmeno l’ipotesi che si possa tentare di  uscire da questa crisi con una distruzione più o meno allargata di capitale. Questa crisi, infatti,  può essere più grave di quella del ‘29 poiché non è detto che i nuovi paesi competitori emergenti come ad esempio Cina, Russia, India, Brasile possano compensare il crollo degli USA, proprio perché questi ultimi hanno un notevole peso nel commercio mondiale, nella funzione generale dei mercati finanziari e monetari, e per il fatto che a tutt’oggi continua il signoraggio del dollaro e oltre il sessanta per cento, nonostante le ultime contrazioni, delle riserve monetarie internazionali sono in dollari.

L’attuale crisi, diversamente da quella del ’29, ha assunto caratteri sistemici, sia perché oggi avviene in un contesto di totale globalizzazione dei mercati, soprattutto quelli finanziari che scaricano gli effetti macroeconomici in una immensa rete di domino finanziario dei debiti, sia perché l’attuale espressione della crisi economica riassume anche quelli della crisi globale dislocata al più alto livello della contraddizione capitale-natura, capitale-fonti energetiche e capitale-alimentazione, capitale- Stato di diritto fino a mettere in discussione la stessa etica formale del capitalismo. Inoltre questa crisi è sistemica poiché per la prima volta tocca profondamente i rapporti sociali in tutti i paesi, non solo quelli a capitalismo maturo, investiti in maniera diretta o indiretta dalle nuove forma assunte dalla competizione globale. Non si tratta di fare parallelismi con come si è usciti dalla crisi degli anni ’30 ma bisogna invece capire che il superamento di questa crisi non sarà affatto indolore e modificherà radicalmente, come in parte già sta facendo, le condizioni della società attuale e dei settori di classe.

Comunque non possiamo non tenere conto del fatto che mentre Obama e Medvedev dicono di ridurre il loro armamento nucleare, che rimane sempre utile a distruggere più volte tutta la terra, nell’ultimo decennio la ripresa degli armamenti è stata impressionante. Da un inserto de “Il Sole 24 Ore” sulla base dei dati forniti dal Sipri, istituto di ricerca per la pace di Stoccolma, emerge che dal 2002 al 2009 l’incremento di vendite dei cento maggiori produttori di armi è stato del 37%. Primi gli Stati Uniti che arrivano a coprire il 41,5% delle spese mondiali con un incremento dal 1999 al 2008 del 66,5%, poi la Cina con un +194%, la Russia +173% e l’India con +44%. Una diminuzione delle spese militari negli USA comporterebbe oggi una profonda e ancora più acuta crisi dell’intero sistema economico americano e aggraverebbe la già sistemica e violenta crisi economica. Non si può avere nessuna idea catastrofista rispetto allo sviluppo della società ma è certo che l’attuale crisi economica per la sua gravità e profondità rende il mondo indubbiamente instabile e precario.    

RITORNA IL NODO DELLA SOGGETTIVITA’. Questa è la dolente nota per i comunisti e la sinistra di classe su cui fare i conti in Italia ma anche nell’intero spazio europeo. Come RdC naturalmente non vogliamo dare lezioni a nessuno e comunque in questi anni abbiamo cercato di definire politicamente e concretamente i terreni di ricostruzione dell’antagonismo di classe in questo paese. Dal ruolo strategico che i comunisti devono ritrovare, al conflitto sindacale e sociale concretamente organizzabile fino alla questione sempre più evidente ma sempre più irrisolta della rappresentanza politica del blocco sociale potenzialmente antagonista in questo paese. Una discussione sempre più urgente nella quale riteniamo di aver introdotto non solo elementi di analisi e ricerca teorica ma – anche – alcune prime proposte politiche ed organizzative come abbiamo tentato di fare con il recente Convegno sulla “rappresentanza politica” e nel Forum su “Partito/Organizzazione” ai cui materiali rinviamo.

Se le prospettive complessive che abbiamo analizzato prima sul piano strutturale saranno anche parzialmente confermate è chiaro che nulla – nel metodo e nella sostanza politica - sarà più come prima. La modifica dei ruoli mondiali delle diverse aree, dei diversi apparati produttivi, dei diversi mercati indurranno elementi radicali di cambiamento dei quali è necessario individuarne quanto prima le caratteristiche per farne fronte. Non sarà più possibile utilizzare la politica come è stata maneggiata in questi due ultimi decenni nel nostro paese. Le illusioni tattiche dell’elettoralismo e dell’istituzionalismo ad ogni costo ormai sono state superate dalla dura dialettica della realtà che impone la maturazione di un pensiero strategico e la ricostruzione di una organizzazione indipendente della classe in tutte le sue forme possibili ed articolate. Pensiamo che sia definitivamente tramontata l’epoca del politicismo e del tatticismo, divenuti spesso, al di là di ogni dichiarato espediente tattico, elemento politico strategico, come gli stessi dati elettorali stanno li, tragicamente, a dimostrarlo.

Questo naturalmente non ci tranquillizza ne ci soddisfa in quanto tutto ciò significa prendere atto della durezza della situazione e avere coscienza della enorme disparità dei rapporti di forza.  Siamo posti, dunque, di fronte ad una responsabilità più forte in una chiara ed oggettiva condizione di debolezza. D’altra parte sappiamo bene che la soggettività politica non nasce nella “mente di Giove” ma nella concretezza dello scontro di classe e con questo bisogna fare i conti qui ed ora nelle condizioni che stiamo vivendo anche per una nostra responsabilità collettiva.

In questo senso è altrettanto evidente che nessuno detiene il monopolio della politica e dunque tutti siamo chiamati a misurarci con la situazione ma anche nelle relazioni tra le forze politiche, sindacali e sociali. Per questo la Rete dei Comunisti da tempo a scelto di misurarsi a tutto campo e con tutti cosciente che solo il merito delle questioni oggi ha valore, con questo approccio noi affrontiamo anche il confronto analitico che apriamo oggi come tutte le altre questioni sulle quali siamo collettivamente impegnati.

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