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Mr. Obama, Frau Merkel e la finanza. A margine del G20 di Toronto

di Raffaele Sciortino

L’attuale, delicato passaggio dell’economia e della politica globale lo si può forse sintetizzare così. C’è un interesse, e necessità, generale a uscire dalla crisi ma si fanno avanti strategie sempre più chiaramente divergenti, in particolare tra Germania e Stati Uniti -focus principale di questo articolo- mentre a tutti gli effetti sono emersi “altri” soggetti di cui va oramai preso atto

Si accendono i fuochi

Il G20 di Toronto è dentro questo passaggio. C’è chi prova a declinarlo in termini meno pessimistici: “la crisi europea non è finita e la ripresa globale non è assicurata”. E c’è chi, come il solito Roubini, non esclude un double dip, una seconda caduta recessiva mondiale. Comunque sia, la crisi complessivamente intesa non è affatto finita. Non lo è negli aspetti “reali”: se l’emorragia è stata bloccata non c’è però stato il rimbalzo sperato, alla ripresa azionaria del 2009 non ha corrisposto una ripresa dei profitti e la disoccupazione nei paesi occidentali non tende a decrescere in termini assoluti. Non lo è neanche in termini “finanziari”, solo che il rischio debito si è spostato oggi principalmente sugli stati - la febbre è alta per un certo numero tra cui Stati Uniti, Giappone Gran Bretagna, ma anche gli altri non stanno bene. Abbiamo così assistito alla prima seria crisi dell’euro e dell’Unione Europea su cui si è scaricata la “correzione dei mercati” a partire dai grossi speculatori ribassisti del mercato futures di Chicago. Il che segnala non solo incertezza sul valore delle monete e sui costi del rifinanziamento dei deficit statali, ma soprattutto un primo episodio di scontro tra Washington e Bruxelles (o Berlino?!) su chi dovrà pagare prima e più degli altri l’abbattimento del valore dei debiti pubblici che si prepara sui mercati e quindi bruciare risorse nella svalorizzazione pendente di una parte dei titoli di credito che continuano a girare per il mondo.

Questo primo episodio, del resto non ancora chiuso, è tanto più significativo in quanto il rischio contagio per gli States e in subordine per la City ha pesato meno del rischio di vedere più difficilmente rifinanziabile il proprio debito rispetto a quello europeo (emblematico il Financial Times che ad un certo punto scrive di Pechino pronta a vendere i bond europei costringendo le autorità cinesi ad una smentita ufficiale. E non a caso, al culmine della crisi greca, al premier greco Papandreu in visita a Washington Obama prometteva che, in assenza di un intervento della Ue, gli Usa erano pronti a fare la "propria parte": ciò che da un lato doveva servire a spingere la Ue a svenarsi sul piano finanziario, dall'altro rappresentava una avance di ri-americanizzazione del Sud Europa (se ciò sia poi possibile è un’altra questione).

Si sta dunque ponendo per i poteri globali la necessità di delineare strategie non di sola pronta emergenza, come sostanzialmente è stato finora in attesa di una ripresa che turerebbe le falle. A prima vista, e per come è stata presentata alla vigilia del vertice di Toronto, la questione è se continuare con gli stimoli all’economia per non compromettere una ripresa (Obama e la sua cordata) oppure se mettere prima i conti statali in ordine (Merkel e una seppur riottosa Europa ma con la “sorpresa” britannica). Ma i dossier controversi sono parecchi: gli stress test sulle banche europee richiesti in prima battuta da oltreoceano, la questione delle agenzie di rating, la regolazione dei mercati finanziari e il regime degli hedge funds, la tassazione su banche e transazioni finanziarie. La divergenza è dunque a più ampio spettro e verte sulle modalità di exit strategy dalla crisi. Il che si intreccia con l’altro rompicapo, per le élites, su quanto e come scaricare i costi della crisi sulle popolazioni (vedi l’assaggio riservato ai greci).
Toronto segna così il primo G20 con effettive fratture fra i grandi al di là delle anodine dichiarazioni finali che ne usciranno.


Obama tra Cina e Wall Street

In vista di questo appuntamento e a fronte delle reiterate pressioni statunitensi Pechino - dopo aver ripreso a comprare buoni del tesoro Usa - porta come contributo la decisione sulla banda di oscillazione dello yuan che ne permette una modesta rivalutazione. Si tratta, insieme, di una manovra diplomatica difensiva e di una misura per ovviare al surriscaldamento dell’economia cinese con conseguente rischio inflattivo. Anche i conflitti salariali degli ultimi mesi, che il governo ha indirettamente “permesso”, sono avvenuti a spese per ora di multinazionali straniere quasi a indicare che un ampliamento anche minimo del mercato interno come quello richiesto a gran cassa da tutto l’Occidente non necessariamente andrebbe a suo favore. La misura presa non prelude dunque ad una secca rivalutazione, tale da favorire l’export ma soprattutto svalutare il debito statunitense - come ha ben colto Krugman che da bravo liberal nobeldecorato invita a sanzioni commerciali contro la Cina mentre mette sull’avviso rispetto all’asse Pechino-Berlino.

Ciò non toglie che la crisi greca e l’indebolimento dell’euro hanno ridimensionato al momento le aspettative e manovre cinesi per un riequilibrio degli assetti monetari internazionali in funzione di una minore dipendenza dal dollaro e dal meccanismo del debito statunitense che fa della Cina una potenza finanziaria sì, ma con le mani legate. Pechino ha dovuto incassare, inoltre, la crisi del governo giapponese indotta dall’amministrazione Obama sulla questione Okinawa (cui è servita ottimamente la rinnovata, ad arte?, tensione con la Corea del Nord): una sponda potenziale nel processo di ricentramento dell’economia asiatica che al momento sembra così venuta meno. Resta da vedere se e come tutto ciò si ripercuoterà a breve-medio termine sull’attivismo politico ed economico di altri soggetti, come il Brasile, interessati ad una ridistribuzione dei poteri globali e che hanno finora trovato nella Cina una sponda essenziale per ricavarsi spazi di manovra. Gli sviluppi futuri della vicenda Iran (non solo la fantomatica bomba ma soprattutto la geopolitica degli oleodotti) saranno un indicatore eloquente.

Se non fosse per la natura globale della crisi e la debolezza politico-militare degli altri poteri, la situazione debitoria degli Stati Uniti sarebbe veramente grave. Ad essa si aggiungono un’estrema difficoltà socio-economica all’interno con la politica di stimolo economico sostanzialmente fallita sul fronte occupazionale e produttivo, la marea nera nel Golfo praticamente inarrestabile e la misera figura che ci sta facendo il presidente, ecc. e i perduranti fallimenti militari all’esterno che con la guerra in Afghanistan stanno tracimando sul piano dello scontro politico interno all’amministrazione Obama (e si sa quanto è importante per il debito sovrano il fatto che si vincano o no le guerre). Esemplificativo delle difficoltà è anche lo stato non brillante delle relazioni “speciali” con Israele e con la Gran Bretagna. Insomma, Obama che puntava a rilanciare la leadership americana come Reagan rischia di finire come Carter.

Nonostante ciò, mentre sotto l’aspetto strategico e geopolitico sembra riuscire una relativa distensione nei rapporti con Mosca, Washington ha per ora stoppato l’indebolimento del dollaro come moneta mondiale e visto riconfermare nel bel mezzo della crisi greca il ruolo dei bond del Tesoro come “porto sicuro” del risparmio internazionale. Forte di ciò l’amministrazione Obama può così procedere a riaggiustare un’impalcatura finanziaria che si è dimostrata così fragile da rischiare di mettere in discussione la capacità di lucrare sulle ricchezze mondiali, nel tentativo di frenare un minimo la crescita oramai esponenziale (anche nella crisi) della finanza.

Di qui la legge di regolazione finanziaria che mentre scriviamo è appena passata alla commissione congiunta Camera-Senato e dovrebbe vedere il varo definitivo, salvo imprevisti, a inizio luglio. Senza entrare nei particolari, si può dire che due sono le maggiore novità. Un intervento relativamente modesto - la Volcker rule - sul proprietary trading che restringe, senza vietare del tutto, la possibilità di utilizzare i depositi bancari garantiti dallo stato per attività ad alto rischio (investimenti in hedge funds e private equity). E la divisione delle banche tra il settore commerciale e le attività per il commercio dei derivati (ma neanche tutti, solo i più “rischiosi”): in questo modo saranno creati soggetti appositi che potranno fallire senza coinvolgere la banca-madre e mettere a rischio l’intero sistema. In cambio, non è stata fissata alcuna soglia limite per le dimensioni degli istituti finanziari “troppo grandi per poter fallire” (le sei maggiori banche equivalgono al 60% del Pil Usa) né si è proceduto ad un ridisegno effettivo del sistema finanziario ma solo ad una regolazione che con la sua complessità lascia deroghe e molti spazi a interpretazioni di comodo. Tenuto conto del montante clima interno anti-finanza, Wall Street può tirare un mezzo respiro di sollievo nel mentre si appresta a incuneare i propri lobbisti nelle maglie della legislazione.

Obama può da parte sua presentarsi a Toronto con un risultato in mano, mentre la tassa da 19 miliardi di dollari in cinque anni sulle banche varata all’ultimo momento dal Congresso gli permetterà di rinfrescare con una manciata di populismo nazionalistico la propria immagine e di rintuzzare anche sul piano internazionale le proposte della Merkel. Ma il significato più profondo, e la scommessa, della riforma sta non nel venire in qualche modo incontro alle richieste degli altri stati e alle aspettative dell’opinione pubblica mondiale, bensì nel creare le condizioni a che la speculazione finanziaria continui pressoché indisturbata a imporre una sovrattassa sulla ricchezza mondiale e a indirizzarne i flussi verso Wall Street a patto di non mettere a rischio il sistema bancario statunitense e soprattutto il ruolo mondiale del dollaro. Non a caso l’amministrazione ha nei mesi scorsi minacciato un giro di vite su singoli comportamenti pericolosi per l’interno come quelli della Goldman Sachs accusata di aver truffato i propri clienti. Come dire: va bene se lo fai fuori ma...

Certo, la scommessa resta tale perché l’equilibrio trovato è fragilissimo. Soprattutto, non può sostituire del tutto la necessità per gli Stati Uniti di riconquistare un ruolo centrale anche quanto ad apparato produttivo, che non si limiti al primato nella finanza e nelle tecnologie ad alto contenuto conoscitivo (e militare) e alle delocalizzazioni delle multinazionali con ricadute salariali e sociali polarizzanti sul tessuto interno. Questo è un problema che Obama ha intravisto (v. gli accenni alla green economy e all’industria della salute, i salvataggi dell’auto, ecc.) ma che finora non è riuscito a impostare (a maggior ragione non ci riuscirà di qui in avanti specialmente se il risultato elettorale di novembre dovesse essere negativo). Del resto, ciò comporterebbe una radicale riconfigurazione sia degli assetti di potere interni (il complesso militar-finanziario...) sia dei rapporti con Cina e Germania. E comunque non potrebbe rimettere in discussione la finanziarizzazione basata sul dollaro, vera base del predominio statunitense. Come si vede, una quadratura del cerchio.


L’Europa della Merkel

Per Berlino, e l’Europa in generale, era già stata un’amara sorpresa toccare con mano il coinvolgimento profondo delle proprie banche nella crisi subprime. Con la crisi greca il colpo è stato ancora più forte se è vero che la situazione finanziaria della Germania -fino a poco prima della crisi con saldi statali primari positivi- per non parlare di quella produttiva continua a essere di gran lunga migliore di quella di Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone, mentre il peso relativo e assoluto della Grecia è infimo. Perché allora l’attacco all’euro, è la domanda che si è rovesciata d’un colpo su un establishment smarrito e diviso che ha visto all’improvviso messa a rischio l’intera costruzione europea.

L’euro è sotto attacco perché è debole, ed è debole... perché il dollaro è (ancora) forte come moneta mondiale. Inoltre il debito statunitense, ancorché enorme e in crescita, continua a trovare acquirenti: nella Federal Reserve innanzitutto, e poi nella Cina e nei paesi produttori di petrolio. Conclusione -non senza contrasti e ritardi- da parte del governo Merkel: la Ue e la Germania come suo cuore produttivo hanno bisogno di un euro forte ovvero parzialmente alternativo, sul medio-lungo periodo, al dollaro. Ma per questo obiettivo non possono a tutt’oggi basarsi sui meccanismi finanziari sofisticati, ben oltre il dollaro, coi quali gli States impongono un’imposta invisibile sulla produzione mondiale; devono quindi dapprima rafforzare ulteriormente la propria competitività sul piano industriale e in particolare tecnologico-cognitivo risanando i bilanci pubblici (ostaggio della finanza) e al contempo dare addosso alla speculazione ribassista sull’euro vietando vendite allo scoperto e quant'altro si presenti necessario contro la speculazione finanziaria.

La risposta alla “crisi greca” imposta, in un solo mese, da Berlino al resto dei paesi della Ue ha iniziato a concretizzare questa strategia. Ad oggi si contano: a) la creazione di un fondo anticrisi (Efsf: un meccanismo di stabilizzazione finanziaria da 750 miliardi euro) e primi passi verso un nuovo patto di stabilità (con esame preventivo sulle manovre dei singoli stati e sanzioni comprendenti l’erogazione dei fondi strutturali) ovvero verso la fine della “sovranità fiscale” dei membri – b) passi concreti verso una tassa e maggiori controlli sulle banche e proposta a Toronto di una imposta globale sulle transazioni finanziarie – c) il divieto unilaterale di vendite allo scoperto su bond, azioni e cds trattati sui mercati tedeschi da estendere a tutta l’eurozona – d) un progetto di rottura del monopolio delle agenzie americane di rating ben oltre le misure previste con l’entrata in vigore il prossimo dicembre del regolamento varato nell’aprile ’09. Come si vede, la crisi produce accelerazione.

Altrettanto importante è il fatto che d’ora in poi la Banca Centrale Europea potrà acquistare i titoli di stato europei. Questo che è stato definito il Grand Bargain, il grande accordo tra gli stati membri, in testa la Germania, da un lato e la Banca Europea dall’altro tende a fare della Bce un prestatore di ultima istanza più simile alla Federal Reserve statunitense con possibilità di intervento”autonomo” sulla liquidità attraverso il Securities Market Program, una sorta di eurobond usabile solo in caso di crisi. Ovviamente con contropartite pesanti sulle politiche economiche degli stati in difficoltà, come si è visto ampiamente e non solo per la Grecia. Insomma si sta andando a passi da gigante verso una più stretta governance dell’euro sotto il controllo di Berlino e di una élite e burocrazia europea più sganciata dagli altri governi nazionali. Una governance, e non un vero e proprio governo economico, perché Berlino non vuole né un eurobond strutturale che favorirebbe l’”indisciplina” dei singoli membri né una vera unione economica che prevederebbe trasferimenti finanziari automatici da un paese all’altro (in pratica: un welfare a scala europea!). Contestualmente viene varata in tutti i paesi membri una durissima manovra di tagli alla spesa pubblica di stampo deflattivo: è la forma che assume il nuovo coordinamento economico europeo sotto la spinta tedesca.

Il senso di questi passaggi smentisce i discorsi a dir poco frettolosi sulla mancanza di leadership europea da parte di Frau Merkel. Piuttosto sembra di poterne dedurre che si sta faticosamente delineando, nella crisi globale, un abbozzo di Europa politica imperniata su Berlino e sulla sua strategia economica, ancorché condivisa senza grossa convinzione o per pura necessità dagli altri partner. Ciò implica che, almeno per ora, la Germania si è legata all’euro e alla sua difesa imponendo le proprie condizioni di politica economica agli altri membri sotto l’oggettivo ricatto per cui sarebbe costosissimo per essi fuoriuscire dall’euro. L’eurozona ne esce di molto mutata con conseguenze pesanti specialmente per i partner meno forti in termini di politiche deflattive, ristrutturazioni e, soprattutto, fine dell’indebitamento facile fin qui reso possibile dalla moneta unica e dal basso costo del capitale garantiti in gran parte dall’apparato produttivo tedesco (in assai minor misura da quello francese). Così, per quanto ancora a rischio, la prima prova seria dell’euro nelle tempeste della crisi non l’ha visto andare a fondo.

Dietro questo primo abbozzo redatto sotto la spinta degli eventi inizia a profilarsi una ratio più strategica di cui le spiegazioni in termini di “mercantilismo tedesco” (in voga da noi soprattutto a “sinistra”) non rendono debitamente conto. È vero che il 60 % dell’export europeo è interno alla Ue e quindi la stretta deflattiva può far male alla produzione (innanzitutto quella tedesca) ma Berlino guarda non solo all’Europa: punta a un recupero di produttività complessiva verso il resto del mondo come terreno decisivo della competizione globale. E’ vero che c’è un circuito finanziario intraeuropeo che beneficia le banche tedesche e francesi (v. il debito greco) ma Merkel ne ha approfittato per dare una bacchettata anche ai propri istituti finanziari (ovviamente dopo averli salvati a spese di...) e non ha perso di vista quale è oggi la base per una moneta forte e un mercato dei capitali meno sottomesso a Wall Street. Questa base, nelle condizioni date, non può che essere il rafforzamento di un forte apparato industriale imperniato sulla produzione tedesca e in parte francese di beni capitali ad alto contenuto conoscitivo, proiettato verso Russia e soprattutto Cina (cui la Germania sta vendendo sempre più macchinari). Una base che non può che essere, nelle condizioni della competizione globalizzata, una “piattaforma” europea sia come mercato di sbocco sia come base produttiva delocalizzata che a cerchi concentrici comprenda produzioni a minore valore aggiunto nel resto d’Europa facendo possibilmente del fronte Sud un “prato verde” in competizione con l’Est. Ciò comporta contestualmente che la si finisca almeno in parte con la “finanziarizzazione stracciona” ovvero l’indebitamento facile grazie all’euro cui sono ricorsi gli stati e le banche europee: ciò ha creato bolle speculative e ingigantito i debiti pubblici, del resto non solo nei paesi cosiddetti pigs, creando una sovrattassa finanziaria sempre più onerosa. Se prima dello scoppio della crisi, e con la Germania ancora presa dall’assorbimento della riunificazione, l’equilibrio tra euro, capacità produttiva e mercati finanziari ancora reggeva, oggi la festa è finita.

La partita è complicatissima. Perché, come si è detto, anche Obama ha un certo interesse a ridurre il peso della finanza all’interno degli Usa pur rafforzando il ruolo mondiale del dollaro e per questo non permetterà facilmente le manovre europee. Giocano poi la vischiosità e i dissidi interni alla Ue, anche tra Berlino e Parigi, il peso di Londra fin qui boicottatrice anche se sempre più preoccupata dell’”egoismo” Usa (v. vicenda Bp), la collocazione filoamericana dei paesi dell’Europa orientale, le incongruenze e divergenze di politica estera (v. il rifiuto verso la Turchia e le sanzioni all’Iran) e non ultimo gli interessi dei paesi emergenti (Cina e Brasile ad esempio non sono d’accordo con una tassazione della finanza). Gli esiti -compresa un’eventuale spaccatura della Ue- restano quindi del tutto aperti.


Ipotesi di lavoro

Attenzione: non si è voluto dire che in questa partita la Merkel rappresenterebbe un fantomatico “capitalismo industriale” contrapposto a un altrettanto fantomatico “capitalismo finanziario”. La parziale “de-finanziarizzazione” (termine sicuramente inadeguato) a firma tedesca -sempre che proceda- indica solo che non è la Germania a detenere la leva finanziaria mondiale ma gli Usa: in caso contrario il rapporto si invertirebbe. Ma, soprattutto, la partita complessiva è per il capitale al fondo insolubile proprio perché la finanziarizzazione non è un’escrescenza eliminabile ma la realtà in cui la produzione di valore opera nella fase della sussunzione reale, è la faccia perversa dell’incredibile incremento della produttività sociale a tutti i livelli. Per questo se una svalorizzazione puramente monetaria dei titoli di credito/debito non è una soluzione di lungo periodo (alla faccia di qualunque regolazione finanziaria, anche più seria di quella soft di Obama) resta aleatoria la prospettiva di un ritorno significativo all’investimento “produttivo” (a là Merkel).

Dentro questa contraddizione reale si è però oramai aperta tra i poteri globali una dinamica intrecciata di interesse comune a che la svalorizzazione sia la minore possibile (e tutta rigettata sui non possidenti) e insieme di scontro a che si scarichi il più possibile sugli altri. Il problema a questo punto diviene politico: come si dislocheranno le classi non possidenti e i soggetti potenzialmente antagonistici?

L’articolo è già troppo lungo. Quindi solo alcune ipotesi di lavoro su cui ritornare in altra sede, con un occhio alla situazione qui da noi.

    - Le (divergenti) ricette di Obama e Merkel rispondono a un problema comune che non è solo l’uscita dalla crisi ma anche la preoccupazione per una situazione che potrebbe farsi insostenibile socialmente e politicamente. Le lotte in Grecia, pur dentro una prospettiva politica limitata e per certi versi arretrata, sono un segnale.

    - La risposta delle élites europee e in primis tedesche sta in una stretta economica durissima e in un accentramento della Ue, ma anche in segnali lanciati alle popolazioni di un’azione parziale contro la finanza “selvaggia”. Si cercherà di utilizzare il duplice sentimento della popolazione dei paesi o delle aree “virtuose” (v. Nord Italia e Lega dentro lo sfilacciamento italiano e lo scontro governo-regioni) contro gli “spendaccioni” e insieme contro le banche per creare consenso a questa politica e far passare una limatura molto differenziata del welfare negli stati membri.

    - Per iniziare a rispondere a tutto ciò da una prospettiva altra non è sufficiente denunciare la natura deflattiva del piano tedesco-europeo e chiedere di contro misure economiche “keynesiane” di generico incremento della spesa pubblica. Quest’ultima nella sua parte parassitaria e speculativa di molto incrementatasi con il varo dell’euro (moneta forte e indebitamento facile) a scapito di quella sociale non ha favorito le classi lavoratrici, il precariato, i bisogni sociali, al contrario ha contribuito alla finanziarizzazione e privatizzazione delle nostre vite mentre ceti parassitari, mafie, affaristi di grandi e piccole “opere” si sono riempiti la pancia. Bisogna iniziare a distinguere tra le due componenti -tra statale e comune- e sviluppare un’azione di controllo dal basso sulla spesa pubblica in tutti i suoi livelli, quel controllo che non è più possibile delegare alle rappresentanze istituzionali partitiche e sindacali.

    - L’accentramento della governance economica europea esige una risposta strategica alla stessa scala. Contro i tentativi di tagliare il welfare e peggiorare le condizioni di lavoro in modo differenziato, anche all’interno dei singoli paesi (come si prospetta da noi), va posto l’obiettivo di un welfare effettivamente universalistico a scala europea che inizi a rompere con la precarizzazione e la finanziarizzazione delle vite.

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Il debito degli stati prima e dopo la crisi: 

 

Paesi occidentali a confronto rispetto alla situazione debitoria:

 

Debito complessivo (pubblico e privato) degli Usa:

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