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La Grande Convergenza e il revival del colonialismo occidentale

di Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)

Schermata del 2023 07 05 18 55 391. Dal “guevarismo” alla riabilitazione del colonialismo

In un libro del 1931, Der Mensch und die Technik, un Oswald Spen­gler impegnato a combattere la Repubblica di Weimar ma soprattutto a impedire che la sua crisi avesse un esito rivoluzionario, e dunque inten­zionato a delegittimare i comunisti che intendevano riproporre l’espe­rienza bolscevica in Germania, notava che «anche i popoli “sfruttati” all'interno dei paesi europei e degli Stati Uniti», in spregio alla retorica internazionalista dei partiti marxisti (compresa la SPD), hanno in realtà a loro volta «beneficiato dello sfruttamento internazionale». Anche le classi subalterne, anche gli operai che lamentano rumorosamente la sot­tomissione del regime di fabbrica e l’estrazione di plusvalore, a guardar bene, hanno goduto e godono di un «lussuoso tenore di vita», se con­frontato con quello dei popoli extraeuropei. E questo in virtù dell’«alto salario dell'operaio bianco», un salario di lusso che «si basa esclusiva­mente sul monopolio fondato dai capitani d'industria» e dunque sulla compartecipazione ai sovraprofitti coloniali1 .

Si trattava certamente di un espediente retorico, volto a contrapporre alla versione marxista del socialismo quella versione “nazionale”, già esposta in Preupentum und Sozialismus (1919)2, che postulava un inte­resse comune e una comune responsabilità tra l’operaio e l’imprenditore, entrambi al servizio della comunità. Nelle sue parole c’era tuttavia qual­cosa di vero, dato che a suo tempo anche Lenin aveva inquadrato questo fenomeno e aveva dovuto mettere in guardia dal socialsciovinismo della socialdemocrazia, la quale con Bernstein e altri suoi esponenti aveva pen­sato già diversi anni prima di risolvere la questione sociale tramite l’espansione coloniale3.

Lenin chiamava in causa a questo proposito il ruolo delle aristocrazie operaie e cioè degli strati superiori e specializzati del mondo del lavoro, determinati a difendere i propri privilegi corporativi4. Rimane il dubbio, tuttavia, che si nasconda invece qui un problema molto più profondo e strutturale, che non può essere risolto scaricando semplicemente le colpe sulla parte meno affidabile e più “borghese” della classe operaia. Un problema di lunga durata, oltretutto, tant’è che oggi, all’incirca un secolo dopo, Zhao Tyngiang - uno dei più importanti filo­sofi cinesi contemporanei e tra i più conosciuti in Occidente - è costretto a scrivere considerazioni non troppo dissimili e non meno provocatorie, alle orecchie dei marxisti occidentali, di quelle formulate da Spengler. Se in generale le nazioni dell’area euro-americana godono di un vantaggio netto rispetto a tutte le altre, dice Zhao, anche i ceti popolari bianchi di queste nazioni possono vantare una posizione di privilegio che «li ha dif­ferenziati dai popoli sfruttati del mondo». Anche nella prospettiva delle classi subalterne, perciò, «l'interesse dei popoli europei e americani non è lo stesso di quello dei popoli del mondo»5.

In realtà, continua Zhao, «sebbene siano tutti lavoratori», sebbene condividano una posizione gerarchicamente subordinata nell’ambito delle rispettive società di appartenenza, i lavoratori bianchi e i lavoratori del Terzo Mondo «non appartengono assolutamente alla stessa classe». E qualora si cerchi di determinarne la situazione comune alla luce delle categorie marxiane, intese in maniera binaria e semplicistica - proleta­riato contro borghesia -, si cade in un equivoco e si nega il riconosci­mento della specificità coloniale o post-coloniale. Di fatto, nonostante lo sfruttamento subito nelle loro società d’appartenenza, i subalterni d’Oc­cidente «non formano ancora la stessa classe» con i proletari del Terzo Mondo in quanto hanno semmai spesso interessi in conflitto quanto quelli delle rispettive nazioni di appartenenza. E perciò, finché viene ignorato «lo sfruttamento internazionale» - e dunque la questione nazio­nale irrisolta che grava sui popoli sottomessi e la questione coloniale -, finché non ci si pone l’obiettivo di rimuovere «le regole del dominio im­perialista», anche «il concetto di classe» coniato da Marx è insufficiente e il suo uso «è estremamente sospetto». Se i lavoratori bianchi dei paesi capitalistici opulenti combattono giustamente contro la borghesia, qual è invece l’interesse prevalente dei lavoratori del mondo ex-coloniale, quello di sfuggire allo sfruttamento a danno dello sviluppo economico comples­sivo del proprio paese o quello di favorire questo sviluppo al fine di con­sentire che il proprio paese possa conseguire l’indipendenza economica? Può esserci emancipazione reale del lavoro e dei lavoratori in una nazione che è a sua volta subordinata alle grandi potenze capitalistiche perché ne è dipendente sul piano economico o tecnologico? Solo Lenin, si può dire, era riuscito a sfuggire a questa semplificazione occidentocentrica e aveva compreso questo «sistema moderno di dominio internazionale». Inno­vando drasticamente il marxismo con un’integrazione decisiva e reinter­pretando il capitalismo nel suo «stadio supremo» non più in chiave eco­nomicistica ma in una prospettiva diversa e più politica; una prospettiva che tiene conto non solo dei rapporti di dominio all’interno dei singoli Stati ma di quelli globali e cioè ridefinendolo come «imperialismo».

L’intuizione leninista è andata interamente perduta però nei «pensa­tori radicali degli ultimi anni», lamenta ancora Zhao, i quali sono tornati semmai alle originarie «idee di Marx sull'unità dei proletari nel mondo» e hanno dimenticato la persistenza dell’imperialismo. Avviene così con l’idea di un’«imposta sul patrimonio mondiale immaginata da Thomas Piketty»6, dice; ma avviene così anche nella «rivolta della “Moltitudine” contro il capitalismo» e nei «movimenti popolari collettivi autonomi volti a gestire democraticamente i “beni comuni”, immaginati da Hardt e Ne­gri» in Empire e in altri libri7. Nessuna di queste posizioni, che guardano il mondo a partire dai problemi del suo centro capitalistico bianco, «può rispondere alla domanda di Mao Zedong sulla disuguaglianza tra i “Tre Mondi”» e cioè sulla specificità del mondo ex-coloniale8. Certamente «l'uguaglianza e la democrazia» che le varie forme di marxismo occiden­tale perseguono attraverso le diverse varianti della lotta di classe «pos­sono cambiare la distribuzione della ricchezza all'interno di un paese»; e però esse «non sono sufficienti per cambiare il posto subordinato dei paesi deboli nel sistema internazionale». Così che le politiche ispirate uni­camente a questi principi astratti possono a volte persino peggiorare la situazione di questi paesi, per i quali la contraddizione fondamentale non è o non è ancora quella tra borghesia e proletariato ma è quella tra dominio imperialista e autodeterminazione nazionale. Nella situazione concreta, la lotta di classe intesa in senso classico - lavoratori contro pa­droni - può infatti indebolire, in nome della richiesta di un’«autonomia collettiva» dei ceti popolari, i paesi in via di sviluppo; delegittimandoli per via delle loro società ancora disuguali, destabilizzandone i governi e portandoli a perdere ancora più «competitività», sino a renderli ancora più dipendenti dalle potenze imperialiste. Certamente «la visione “glo­bale” dei radicali europei e americani può contribuire al miglioramento degli interessi dei popoli nel loro paese», allora. In quanto non si pone ancora la questione dell’imperialismo e non vede il problema della demo­crazia su scala internazionale, in nessun modo può però essere «utile per l'eliminazione dello sfruttamento e dell'oppressione globali», per affron­tare i quali bisogna invece porre il problema di «modificare le regole di­suguali del gioco internazionale».

Sono parole certamente scomode e urticanti per l’intellettualità euro­pea ancora progressista e legata al progetto emancipazionista. Descrivono però una situazione di crisi della solidarietà internazionalistica che è oggi molto diffusa e che investe sia i ceti intellettuali, alle prese con un grave deficit teorico (che come abbiamo visto inficia la stessa teoria marxista), che le classi popolari, le quali sono spontaneamente portate oggi a consi­derare il mondo intero come “roba propria” per interposta civiltà, i divi­dendi coloniali come diritti inalienabili e le popolazioni lontane come es­seri viventi insignificanti e inevitabilmente a disposizione. Del resto, la coniugazione della richiesta di giustizia sociale all'interno della comunità dei liberi e di forme di discriminazione verso gli esclusi non è un feno­meno nuovo9. Tutta la storia degli Stati Uniti, soprattutto nei periodi di progresso sociale come l'era jacksoniana, lo attesta (Jackson era oltretutto il “presidente del popolo” contro le élites). E che dire della nazionalizza­zione imperialistica delle masse nell’Inghilterra vittoriana di Disraeli e Rhodes? Lo aveva ben compreso un nemico delle classi subalterne come Nietzsche, il quale, all'inizio ferocemente antisemita, si accorse ad un certo punto che proprio l'antisemitismo “sociale” alla Stocker, con la cri­minalizzazione degli ebrei esclusi dalla comunità politica, si accompa­gnava all’integrazione delle classi subalterne e allo sviluppo di processi di democratizzazione nello Stato bismarckiano. E divenne così un altret­tanto feroce anti-antisemita.

È sempre stato così in ogni epoca? No, e chi ha ormai una certa età e ha vissuto le profonde trasformazioni della società e della mentalità avve­nute negli ultimi decenni può testimoniarlo. Faccio un esempio molto semplice, tratto dalla cultura popolare. Nel 1976, uno sceneggiato televi­sivo di grande impatto trasmesso dalla televisione pubblica (tratto dai ro­manzi scritti a cavallo tra XIX e XX secolo, e cioè in piena epoca impe­rialista, da uno scrittore italiano di storie esotiche d’avventura, Emilio Salgari, e trasmesso dalla televisione pubblica e dunque destinato a un pubblico di massa) esordiva con questa introduzione, scritta dal regista Sergio Sollima:

«La Compagnia delle Indie, fondata sul finire del 1500, rappresentò per oltre 250 anni lo strumento di penetrazione economica e commerciale della Gran Bre­tagna nei territori dell’est asiatico come l’India e la Malesia. Verso la metà dell’800, durante il lungo regno della regina Vittoria, la Compagnia costituiva ormai la struttura portante dell’amministrazione inglese d’oltremare e si prepa­rava a cedere le sue prerogative alla corona aprendo così la strada alla costitu­zione dell’impero britannico. Le vicende della trasformazione di un dominio commerciale in una vera e propria sovranità territoriale videro all’opera, soprat­tutto nei mari della Malesia, uomini spregiudicati pronti a usare tutti i mezzi per assicurare all’Inghilterra lo sfruttamento delle risorse naturali di quei paesi...»10.

Poco dopo, lo sceneggiato - Sandokan — proseguiva con questo dia­logo tra due personaggi, il reggente della Malesia e il governatore britan­nico Brooke:

«... “No questo non è un trattato commerciale questo è un furto; se accetto di firmare consegno tutte le ricchezze del principato alla Compagnia delle In­die”.

“Non tutte, solo l’80% ma vi diamo la possibilità di godere di ciò che vi re­sta”.

“Lei crede perché sono un malese che io non sappia che volete da noi? Le materie prime, il carbone per far camminare le vostre navi, l’antimonio...”.

“Mi consenta di fare una precisazione politica e di offrirle un buon consiglio. In pochi anni l’Inghilterra si piazzerà saldamente in questo emisfero, non crede che sarebbe un vantaggio esserle già alleati?”...»11.

Siamo di fronte a una spiegazione divulgativa ma esaustiva delle dina­miche imperialistiche della seconda metà dell'Ottocento, valide ancora nei loro aspetti fondamentali durante il XX secolo. Una spiegazione che non solo presuppone un pubblico culturalmente attrezzato e capace di dominare i concetti qui impiegati, che hanno una certa complessità ma presuppone anche un pubblico “guevarista”, sentimentalmente pronto a identificarsi con le ragioni del mondo colonizzato che lotta per la propria liberazione, come era in parte avvenuto durante la Resistenza contro il nazifascismo, e a riconoscere autocriticamente le responsabilità dell'Occidente (la tradizione di aggressione marittima anglosassone è qui chiamata direttamente in causa) e di un suprematismo bianco che deborda sul piano razziale.

 

  1. Dalla «Grande Divergenza» alla «Grande Convergenza»

Erano grossomodo gli anni in cui il Partito Comunista Italiano racco­glieva donazioni di sangue per il Vietnam. Gli anni in cui, per citare un episodio legato al mondo della musica popolare, non potendo più rien­trare nel Cile di Pinochet gli Inti Illimani trovavano ospitalità e successo in Italia. Sarebbe possibile tutto questo oggi? No: sarebbe anzi letteral­mente impensabile. Solo una percentuale residuale del pubblico televi­sivo sarebbe in grando di comprendere il significato logico del discorso che abbiamo appena visto e saprebbe collocarlo nel giusto contesto sto­rico. Soprattutto, ogni eventuale simpatia nei confronti dei popoli sotto­messi, i quali combattono necessariamente facendo ricorso alla guerra di guerriglia e anche alla pirateria - come nel romanzo e nello sceneggiato il governatore Brooke spiega sin da subito all'ufficiale di Sua Maestà britannica Fitzgerald, anticipando una tematica che sarà tipica della guerra partigiana e che ancora oggi è attualissima ma del tutto rimossa - verrebbe immediatamente criminalizzata e tacciata di intelligenza con il nemico e di filo-terrorismo (come avviene in effetti sistematicamente con la resi­stenza palestinese all’oppressione israeliana e con chiunque anche in Oc­cidente osi difenderla). Siamo infatti oggi in una fase storico-politica completamente diversa e tra le tante cose che sono cambiate rispetto a quel periodo ne è cambiata una decisiva: conclusa l’onda lunga della de­colonizzazione (e la sua influenza sui sentimenti morali), ci troviamo di fronte a un vero e proprio revival del colonialismo. Al termine di un’ope­razione di revisione della storia che dalle accademie è arrivata ai mezzi di comunicazione di massa, ciò di cui nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale le potenze industriali si vergognavano e che cercavano di rimuovere o nascondere, l’orrore di quella conquista coloniale che co­stituisce la faccia nascosta dell’Occidente, viene adesso esplicitamente riabilitato, trasfigurato, discusso nei convegni internazionali e riproposto al pubblico della società dello spettacolo nelle forme di una nuova mis­sione civilizzatrice. Una missione volta a diffondere su scala globale non più il cristianesimo o il progresso scientifico moderno, come avveniva un tempo, ma la democrazia liberale, identificata con il vertice insuperabile della civiltà umana ed eretta in tal modo a feticcio del quale imporre il culto. «Abbiamo liberato troppo in fretta questi stati, troppo in fretta e troppo semplicisticamente», diceva Popper a “Der Spiegel” già nel 1992, ed è stato «come abbandonare a se stesso un asilo infantile»12. «L’Africa è a portata di mano e sarebbe una preziosa risorsa per tutti i Paesi europei che vi hanno lasciato tracce del loro passaggio», lamenta oggi l’ex amba­sciatore Sergio Romano, intellettuale liberale tra i più ascoltati in Italia, ma purtroppo «è stata abbandonata alla Cina»13. E non si contano gli articoli e le pubblicazioni sulla medesima falsariga.

Cosa è successo? Come siamo arrivati a questo punto? La caduta del campo socialista nel periodo tra il 1989 e il 1991 è stato l’atto conclusivo di una fase della lotta di classe nella quale la dimensione internazionale e quella interna alle singole società sono state inestricabilmente intrecciate14. In questa prospettiva, la fine dell’Urss e il crollo del socialismo in Europa sono stati la premessa della crisi strutturale della democrazia mo­derna, ovvero l’antefatto di quel suo esaurimento che stiamo oggi vivendo. Paradossalmente, la presenza di un’alternativa integrale di si­stema aveva favorito l’affermazione della democrazia nel mondo capitali­stico e la trasformazione in chiave democratica del liberalismo. Da un lato, rafforzava la consapevolezza delle classi subalterne, dando loro un’identità e un mito di mobilitazione che le rendeva capaci di confliggere in maniera compatta in nome di un ideale e di difendere i loro inte­ressi e diritti. Dall’altro, aveva funzionato come un deterrente che aveva costretto i regimi capitalistici a dotarsi di efficienti sistemi di Welfare e di protezione del lavoro, al fine di redistribuire almeno una parte delle ri­sorse (ricchezza, potere, riconoscimento), favorire la diffusione del be­nessere e prevenire in tal modo ogni proposito rivoluzionario. Scuola pubblica, sanità pubblica, pensioni pubbliche, imposta progressiva, suf­fragio universale integrale: queste conquiste, che costituiscono gli ele­menti di modernità della democrazia (la quale, da parte sua, sa convivere anche con la schiavitù...), e che speriamo siano almeno in parte irrever­sibili, sono il risultato di un lungo conflitto di classe condotto dal movi­mento socialista in Europa ma sono in qualche modo anche conseguenze della Guerra fredda. Non a caso, nel momento in cui l’alternativa socia­lista ha cessato di esistere, ormai privo di avversari strategici e trovando rapporti di forza estremamente favorevoli, il liberalismo non ha avuto più bisogno di scendere a compromessi con l’avversario. Ed è iniziato così il ciclo neoliberale, con la frantumazione delle classi subalterne, lo sconvol­gimento postfordista del mercato del lavoro, il dilagare della precarizza- zione dei processi produttivi e delle stesse vite umane, la colonizzazione intensiva delle esistenze, la sperimentazione di forme neobonapartiste di potere politico, l’emergere di forme di coscienza postmoderne all’insegna dell’individualismo più competitivo. Ne è risultata, come detto, la fine della democrazia moderna - la cui parabola storica è stata assai breve ed è coincisa con i “Trenta Gloriosi” - e l’emergere di regimi che sono sì formalmente democratici ma ben diversi da essa. Regimi che rispec­chiano rapporti di forza ormai estremamente squilibrati, nei quali il con­flitto politico-sociale viene esercitato unicamente dall’alto e dai più forti, senza alcuna capacità di resistenza o controffensiva delle classi popolari.

La conclusione della Guerra fredda ha avuto però anche un’altra con­seguenza non meno importante, che di solito riceve minore considera­zione. Ha segnato cioè un salto di qualità nel disegno imperialista, consentendo alle grandi potenze capitalistiche, e agli Stati Uniti in parti­colare, di contrastare l’onda lunga della decolonizzazione e di dare inizio a un processo di sempre più intensa riscoperta del colonialismo15. Un processo che passa ancora per il controllo da parte delle istituzioni poli­tiche e finanziarie internazionali, come già nel neoimperialismo del se­condo dopoguerra. Ma che non disdegna adesso di dispiegarsi anzitutto sul terreno militare, con la rottura programmatica del tabù della guerra che era stato introdotto parzialmente alla fine della Seconda guerra mon­diale (abbiamo oggi la dottrina della “guerra preventiva”) e con il ripri­stino di quello spirito fanatico di crociata che ha sempre caratterizzato gli interventi dell’Occidente nel mondo non bianco lungo tutta l’epopea co­loniale classica (compresa quella conquista del West americano che aveva ispirato Hitler e Rosenberg). Iniziava così già nei primi mesi del 1991, con l’intervento contro l’Iraq quando ancora l’Urss era formalmente in vita, una catena ininterrotta di conflitti che passeranno poi per la Jugo­slavia, l’Afghanistan, la Libia, la Siria, e che tuttora perdurano. Conflitti nel corso dei quali l’Occidente esprimerà tutta la sua arroganza distrut­tiva, depredando territori, imponendo il proprio ordine o disordine mon­diale, sterminando spesso le popolazioni civili, e facendolo nel nome dell’irreversibilità e inarrestabilità della globalizzazione intesa come glo­balizzazione capitalistica bianca, con i suoi corollari in termini economici (commercio “libero” in favore delle potenze capitalistiche e istituzioni liberali pluripartitiche, ossia monopartitismo competitivo).

Non possono esserci dubbi sulla natura politica e non meramente eco­nomica o “tecnica” della cosiddetta globalizzazione e cioè della costru­zione di un ambiente internazionale all’insegna del libero scambio imper­niato per tutta una fase sugli accordi di Bretton Woods e sulle istituzioni che ne attuavano gli indirizzi, come la Banca Mondiale, il Fondo Mone­tario Internazionale e il GATT, e quelle che seguiranno dopo la fine del Gold Standard negli anni Settanta: si trattava per gli Stati Uniti di conso­lidare sul piano economico, ma indirettamente anche su quello politico, un blocco sovranazionale compatto e cioè un’area atlantica di conteni­mento dell’Unione Sovietica, ribadendo al contempo la leadership della nazione americana come garante dell’architettura economico-politica in­ternazionale. È un progetto che non ha trascurato il proprio lato culturale e persino estetico e che, ormai privo di ostacoli geopolitici significativi, ha potuto trovare pieno compimento proprio dopo il 1991, quando la divisione bipolare del mondo ha ceduto il passo all’unipolarismo della potenza statunitense, sancito con la Prima guerra del Golfo e con la si­multanea diffusione dell’American Way of Life come stile di vita a quel punto davvero “globale”.

Non sempre le ciambelle riescono con il buco, però. E spesso, in virtù dell’eterogenesi dei fini, le conseguenze delle azioni e dei progetti umani non sono completamente controllabili, con buona pace dei complottisti oggi sulla cresta dell’onda. Ecco così che quelle istituzioni e quelle pro­cedure che avrebbero dovuto rendere perpetuo l’ordine mondiale occidentocentrico e americanocentrico, per tutta una serie di vie tortuose hanno finito per stimolare anche processi assai diversi. In particolare - oltre a favorire la fioritura di molteplici fondamentalismi religiosi reattivi nel mondo islamico - hanno offerto ad alcuni paesi non occidentali, già protagonisti di un imponente processo di decolonizzazione, l’occasione di dare avvio a un ancor più impetuoso sviluppo autonomo; uno sviluppo che nelle nuove condizioni di crescente apertura dei mercati internazio­nali ha fatto leva su importanti vantaggi competitivi contingenti, come il basso costo del lavoro o il tasso demografico, per acquisire un vantaggio competitivo duraturo che alla lunga ha modificato i rapporti di forza in­ternazionali.

Da qui, alla fine di una fase assai travagliata, un esito molto diverso da quello preventivato dai Think Tank americani di entrambi gli orienta­menti politici: alla fine del 2021, gli equilibri mondiali sono molto diversi da quelli dei primi anni Novanta e una parte considerevole del mondo che un tempo era succube del colonialismo e dell’egemonia occidentale, la Cina in primis, è oggi padrona di sé e protagonista di una crescita senza precedenti. E, pretendendo ciò che le spetta, questa avanguardia si fa battistrada di un mondo multipolare. E all’interno dell’architettura glo­bale costruisce strutture che anticipano gli equilibri possibili del futuro (pensiamo alla Belt and Road Initiative e al suo ruolo in quello che Parag Khanna definisce un po’ ottimisticamente come l’incipiente «secolo asiatico»16): «Il modello occidentale si è rotto», commentava Pankaj Mishra17. Ebbene, tutto questo non poteva lasciare inalterato l’ambiente circostante ma doveva inevitabilmente ridurre la quota di ricchezza e di potere globale a disposizione dell’Occidente. Pensiamo a questioni diri­menti come il consumo energetico e i problemi ambientali, oltre che all’approvvigionamento delle materie prime o dell’acqua e alle quote di mercato: non abbiamo più oggi una coppia di players che agiscono se­condo precise gerarchie, gli USA e l’Europa, ma abbiamo invece nume­rosi players che mettono in discussione gli equilibri consolidati e che spezzano o possono spezzare l’asse sinora dominante. Con tutti i contrac­colpi negativi che ne derivano per le nostre società occidentali, abituate a lungo ad altissimi livelli di consumo a spese altrui, ma costrette ad un certo punto a prendere atto che le risorse a disposizione non sono più illimitate come erano state un tempo, dato che non solo esiste un’emer­genza ambientale ma che altri e nuovi protagonisti hanno ormai conse­guito un peso che non può più essere trascurato e pretendono anch’essi di accedere alla modernità e al benessere.

Ecco perciò, come spesso accade, un’inattesa sorpresa dialettica della storia umana: una controrivoluzione atlantica che, mascherata da globa­lizzazione, avrebbe dovuto contenere l’espansione di ogni alternativa di sistema al modo di produzione capitalistico, rendendo più efficiente la divisione internazionale del lavoro ma perpetuando o accrescendo il gap tra le economie tecnologicamente avanzate e il resto del mondo, ha con­dotto in realtà a un esito diametralmente opposto. Ad un vero e proprio cataclisma geopolitico che, come Domenico Losurdo sottolineava spesso18, ha rovesciato contro le intenzioni dei suoi fautori la «Grande Divergenza» che Pomeranz aveva mostrato essersi approfondita fino al Novecento inoltrato19, e che aveva a lungo riservato all’Occidente una posizione di assoluta superiorità», in un processo inverso; un processo grazie al quale il resto del mondo ha recuperato significativamente ter­reno rispetto alle ex potenze coloniali. Dando vita, in ultima istanza, a una nuova e inavvertita tappa della rivoluzione internazionale. Una rivo­luzione che - come teorizzato da Deng Xiaoping - prosegue ora con mezzi diversi e prevalentemente economici e tecnologici quella precedente rivoluzione democratica che, abbattendo sul piano militare e politico il colonialismo, era stata la premessa dell’autodeterminazione di popoli di grande civiltà storica ma a lungo considerati subumani dai bian­chi.

 

  1. La risposta occidentale alla «Grande Convergenza» e l’assenza della Sinistra

Come ha reagito l’Occidente di fronte a questa inattesa e indesiderata conseguenza delle proprie stesse azioni? Non c’è dubbio che ciò che dal punto di vista della Cina e dei paesi emergenti si presenta come una grande opportunità, per quelle potenze che pensavano di avere ormai campo libero rappresenta un problema e un’amara delusione, perché ne restringe di molto il raggio d’azione rendendo decisamente più ridotte le risorse alle quali attingere. Da qui la risposta occidentale a quella dina­mica che Richard Baldwin ha chiamato «Grande Convergenza»20. Una risposta che si è da subito tradotta nel tentativo di rimuovere ogni osta­colo al progetto della globalizzazione americana e di arrestare perciò ogni spinta decolonizzatrice. Riproponendo con la massima energia possibile un nuovo processo di ricolonizzazione del mondo che, a partire dall’im­piego e dal controllo della tecnologia più avanzata, fosse in grado di con­tenere sin dall’inizio la rivolta delle ex colonie attraverso una serie di in­terventi militari strategici; interventi che, soprattutto in Medio Oriente, ribadissero i rapporti di forza che erano stati alterati e stringessero un cerchio militare attorno ai rivali di domani.

Da qui, in maniera inestricabile, il soffocamento impietoso del ciclo progressista in America Latina, un altro continente in odore di sgancia­mento dalle gerarchie imperialistiche, attraverso il ricorso a tecniche clas­siche di “rivoluzione colorata”, come avvenuto in Brasile con Lula e Dilma o in Bolivia con Evo Morales. Da qui l’inasprirsi delle conflittualità diretta con le potenze emergenti, fino a far parlare di recente studiosi come Allison di una vera e propria «sindrome di Tucidide» foriera di nuove catastrofi21. Da qui, però, anche una nuova scoperta rivalità tra gli stessi partner occidentali di un tempo, gli USA e la “vecchia” UE, due poli che di fronte a un’improvvisa riduzione delle risorse a disposizione vedono accrescere i loro conflitti di interesse rispetto al pur notevole in­teresse comune. Da qui, infine, il ricorso a un management della crisi che, all’interno dell’Occidente stesso, scaricherà in primo luogo proprio sulle classi subalterne e sui ceti medi i costi dell’improvvisa decurtazione dei dividendi imperiali. Un management che, oltretutto, avrà gioco facile nel ricondurre la colpa di questo improvviso impoverimento e di questa dra­stica riduzione delle prospettive di vita all’approssimarsi di una minac­ciosa “rivolta dei barbari”. Una rivolta che si affaccia nell’ascesa dell’ex Terzo Mondo e nella concorrenza industriale e commerciale delle ex co­lonie, certamente. Ma che si manifesta soprattutto, in forme ancora più concrete, nell’invasione fisica che da questo stesso Terzo Mondo pro­rompe nelle nostre città attraverso le migrazioni dei popoli, orchestrate da chissà quali Quinte Colonne ma destinate comunque a concludersi con la fine della nostra civiltà e delle nostre tradizioni culturali e forse persino con una possibile sostituzione genocida dei popoli bianchi da parte di quelli di colore (la leggenda del “Piano Kalergi”22). Una nuova «marea montante dei popoli di colore» postmoderna, si potrebbe dire23.

«La giungla è tornata a crescere» e la giungla va estirpata prima che invada i terreni coltivati, ha avvertito minaccioso Robert Kagan24 con una metafora di chiaro taglio suprematista bianco ripresa più di recente in maniera abbastanza sfacciata dal responsabile della politica estera della UE Josep Borrell25. La ricolonizzazione del mondo in risposta alla Grande Convergenza, con la sua rilegittimazione della guerra e la sua esaltazione della violenza e del conflitto di civiltà, è dunque la cornice strutturale che, mentre aggredisce i popoli più deboli, sollecita e incanala al contempo il revival populista della xenofobia e della discriminazione razziale, in un Occidente che si vede oggi assediato da un mondo dive­nuto improvvisamente pericoloso e ribelle al suo guinzaglio e che si as­serraglia, perciò, a difesa della propria fortezza. E a questa degenerazione - va detto in conclusione - la sinistra ha dato purtroppo il suo contributo, sia nella sua versione moderata che in quella radicale.

È in nome del trionfo planetario della democrazia definita secondo i criteri liberali che l’imperialismo conduce oggi i suoi conflitti, scatenando l’indignazione di massa attraverso il monopolio dei mezzi di comunica­zione e mobilitando anche le emozioni contro quei paesi che, riottosi ad adeguarsi alle regole di Washington, vengono definiti come dittatoriali, autoritari, addirittura totalitari. Ed è l’ideologia dei diritti umani da di­fendere ad ogni costo dai tiranni che opprimono i loro popoli, diritti anch’essi definiti nella prospettiva liberale, che presiede a quelle gigante­sche operazioni di manipolazione che forniscono consenso alle “guerre umanitarie” e agli interventi di “regime change”. Ciò che è universale se­condo l’Occidente bianco, però, è parziale e strumentale secondo il resto del mondo: si tratta di una forma di universalismo falso e aggressivo, av­vertiva Domenico Losurdo, e cioè di un universalismo astratto e imme­diato che non riconosce nessun percorso verso lo sviluppo e la democra­zia che sia diverso da quello capitalistico e che pretende di uniformare il mondo ai propri valori. Dismesso il marxismo e con esso anche ogni ca­pacità di analisi critica, e non avendo più un’autonoma visione del mondo, di questo universalismo si è fatta principale fautrice proprio la sinistra, la quale compete oggi con la destra nell’incarnare alla massima potenza i valori dell’Occidente e nell’affermare la superiorità della vi­sione del mondo e del modello di convivenza occidentale. Sia in occa­sione della crisi in Libia che in quella della Siria, per citare solo i casi più recenti, proprio la sinistra ha più di ogni altra parte politica richiesto ad alta voce l’intervento militare, al fine di smantellare regimi ritenuti san­guinari e ostili ai diritti umani anche a costo - come verifichiamo ogni giorno ancora oggi - di scatenare una guerra civile che ha condotto a una situazione decisamente peggiore di quella precedente. Questa sinistra può anche combattere le disuguaglianze e il neoliberalismo nella metro­poli capitalistica, come abbiamo visto, ma è da tempo «assente» quando si tratta, invece, di affrontare le profondissime ingiustizie e discrimina­zioni che sono presenti nei rapporti tra le nazioni, avendo già voltato da tempo le spalle alle sorti del mondo ex-coloniale. Non diversamente dalla socialdemocrazia socialsciovinista criticata da Lenin e in generale da quei marxisti presi in giro perfidamente da Spengler, essa è perciò una «sini­stra imperiale», la quale trova la propria identità in una sorta di osceno “imperialismo dei diritti universali”.

È una dinamica che si manifesta anche su altri piani e nelle forme più diverse, come ad esempio avviene con ciò che può essere definito “neo­colonialismo climatico”: le potenze liberali capitalistiche non vogliono modificare il loro modello produttivo e gli stili di vita e di consumo delle loro popolazioni. Per questa ragione, vorrebbero scaricare il costo della transizione ecologica, che pure è assolutamente necessaria e urgente, sui paesi in via di sviluppo, ottenendo anche il risultato di impedire la cre­scita economica e politica del terzo mondo. Ieri sfruttati come colonie, oggi sfruttati per consentire ai bianchi ricchi di continuare a consumare da ricchi ma anche per consentire ai bianchi meno ricchi e persino ai bianchi poveri di consolarsi della loro miseria. La crisi ambientale ma so­prattutto il pericolo sempre in atto della guerra (con il rischio che il con­flitto tra Nato e Russia per interposta Ucraina degeneri in un nuovo ca­tastrofico conflitto mondiale) e la persistenza di profondi squilibri e di intollerabili disuguaglianze planetarie, che vedono lo sfruttamento inten­sivo di interi popoli ridotti in una condizione di schiavitù postmoderna di fatto, ci parlano dunque anche di noi. Senza una profonda autocritica - un’autocritica che guardi in faccia la questione coloniale e faccia i conti con il preesistente atteggiamento occidentocentrico di gran parte del mar­xismo occidentale - è difficile, infatti, che questa tradizione filosofico- politica possa risollevarsi dalla propria crisi, intercettare i problemi del mondo e tornare ad essere un punto di riferimento per chi ritiene ancora necessario impegnarsi per trasformare la realtà.


Riferimenti bibliografici
Allison, Graham, 2017
Destinedfor War: can America and China escape Thucydides’ Trap?, Houghton Mifflin Harcourt, Boston.
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Note
1 Spengler 1970, p. 119.
2 Spengler 1994.
3 Bernstein 1899, 1900a, 1900b, 1907.
4 Lenin 1966 (1912).
5 ZHAO 2020, passim.
6 In Piketty 2016.
7 Cfr. Hardt — Negri 2000, 2004.
8 Cfr. Mao 1991.
9 Cfr. Losurdo 2006, cap. 9.
10 Crespi 2016, pp. 159-160.
11 Tomaiuolo 2021.
12 Popper 1992.
13 Romano 2019.
14 Per un’ampia discussione di queste tematiche rinvio ad Azzarà 2014.
15 V. su queste questioni Azzarà 1999.
16 Khanna 2019.
17 Mishra 2014.
18 Cfr. Losurdo 2014.
19 Pomeranz 2000.
20 Baldwin 2016.
21 Allison 2017.
22 Camus 2011.
23 Cfr. Stoddard 1920.
24 Kagan 2019.
25 Dd avviso di Borrell, l’Unione Europea sarebbe «la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità è stata in grado di costruire: tutte e tre le cose insieme»; se questa Europa è «un giardino», il resto del mondo somiglia invece a una «giungla che potrebbe invadere il giardino», ragion per cui gli europei devono «andare nella giungla» ed «essere molto più coinvolti nel resto del mondo», perché in caso contrario «il mondo ci invaderà»: v. Ardeni 2022.

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