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sinistra

La politica dei naufragi

di Guido Mandarino

Migrants Tenerife scaledIl naufragio di Pylos e quello di Cutro sono stati l’occasione per i governi europei per ribadire la necessità di aumentare i controlli e limitare i flussi dei migranti, ovviamente per evitare il ripetersi di queste stragi. Ed è stata anche l’occasione per la denuncia ormai seriale delle insufficienze dei sistemi di soccorso e delle leggi sulla sempre più restrittiva regolamentazione delle frontiere.

Non è il caso di unirsi a questo impianto scenico. Per chi ha a cuore la vita di coloro che scappano dai loro paesi per trovare una situazione migliore non va bene la solidarietà posticcia né la denuncia della scarsa democraticità dei nostri governi.

I naufragi in mare sono una delle conseguenze delle politiche di contenimento e deterrenza dell’Unione Europea che partono da lontano e che nel Patto Europeo sull’immigrazione e l’asilo del 2020 hanno solo una tappa. Controllare e reprimere l’immigrazione irregolare, prevenire i flussi costituendo un cordone sanitario sempre più ampio e militare. È su questa legalità che nascono le tragedie del mare. Vediamone il contesto.

 

Crisi globale, migrazione globale

Già nel 2017 il rapporto dello European Political Strategy Centre del 2017 descriveva i 10 trend che caratterizzano l’odierna immigrazione (che viene fatta risalire al 2001). Curiosamente gli autori non si sono resi conto di come dal 2001, elencando “chi emigra”, il “perché si emigra”, e il “da dove” provengono i flussi, si ottiene un dato univoco e cioè che il fenomeno migratorio è diventato “universale”: riguarda uomini, famiglie, donne, bambini; si fugge dalla crisi economica, dalla carestia, dai disastri ambientali e si fugge dal cosiddetto “sud globale”.

Quello che nel rapporto non si dice, per essere sintetici, è che il sistema-mondo è arrivato al capolinea.

 

Dal “Liberal Dilemma” all’industria della gestione migratoria

In questo contesto di crisi economico-sociale globale, la risposta europea che fino ad allora era stata data, ispirata al “liberal dilemma” e alla necessità di onorare le convenzioni sui diritti umani, cede il posto ad altre soluzioni. A questo punto il flusso migratorio, da aspetto sociale che deve essere controllato, diventa oggetto di management, viene “logistificato” e, come avviene in ogni supply chain, deve fornire valore. E il valore di questa particolare supply chain, a differenza di quanto avviene per le merci non umane che prevedono passaggi logistici quanto più veloci possibili, è anche nel “permanere”. La creazione di limbi nei paesi limitrofi ai grandi paesi occidentali è funzionale alla creazione di valore per l’industria dell’accoglienza: più stai, più guadagno. I cordoni sanitari che dal 2001 e, più specificamente, dal 2016 sono andati a crearsi rappresentano dei polmoni di merce umana. Non agiscono semplicemente come filtri che lasciano passare la forza lavoro richiesta nei paesi di destinazione ma rappresentano un “magazzino” (non a caso nel migration management si parla di passaggio alla fase di warehousing) pronto ad essere utilizzato in funzione delle opportunità geopolitiche. I magazzini umani si gonfiano e si sgonfiano in funzione degli accordi tra paesi di origine, di destinazione e di transito. Ai paesi terzi vengono somministrate nozioni di capacity building per delegare l’amministrazione dei flussi e la gestione dei migranti che si stanzializzano. È questa la realtà dei flussi migratori contemporanei. Il viaggio ha da tempo abbandonato la connessione topografica “partenza-viaggio-destinazione” per diventare strutturalmente un transito indefinito nel tempo e nelle caratteristiche. Come nella logistica industriale, il dizionario di termini inglesi è necessario per comprendere il complesso circuito della gestione dei migranti.

Ed è questa la dimensione che bisogna considerare quando ci troviamo di fronte alle tragedie del mare (a cui si sommano le tragedie dei transiti montani, dei passaggi desertici, ecc.). La tragedia del warehousing pluriennale si gioca lontano dalle pagine dei giornali, si consuma ogni giorno nel lento ma inesorabile processo di selezione (anche i morti in mare, in fin dei conti, rientrano nella macabra contabilità della selezione...). Per i migranti la domanda diventa: come posso diventare “desiderabile”? Come posso essere accolto nel sistema del traffico umano che mi condurrà fino alla costa meridionale del Mediterraneo?

 

La selezione dei desiderabili

Anche su questo aspetto, è venuto il momento di vedere cosa c’è dietro la narrazione dei trafficanti cattivi. Le barriere europee all’immigrazione non soltanto favoriscono ma creano il mercato dei trasporti della merce umana. E quanto più le barriere sono alte, tanto più è redditizio il lavoro dei trasportatori. Si tratta di una catena logistica che ha agenzie locali e internazionali e le cui tariffe sono direttamente connesse con le regole stabilite dai sistemi di accoglienza e di asilo: a seconda delle categorie di desiderabili e indesiderabili cambiano i prezzi. E Là dove la bonaria mano dell’Occidente fa sentire il proprio peso, magari attraverso l’agenzia Frontex, si consuma una magia, quella di far rivivere vecchi potentati locali, tradizioni e gerarchie arcaiche. Digitale e ancestrale viaggiano mano nella mano. È quella che alcuni studiosi chiamano “internalizzazione dell’esternalizzazione”, vale a dire l’introiezione delle regole di selezione nei singoli contesti sociali come base per articolare i rapporti e le gerarchie tra i diversi gruppi sociali. In questo contesto nascono e si sviluppano meccanismi di controllo che agiscono all’interno dei gruppi di migranti: essere ammessi nella carovana di transito significa sapersi spendere bene come merce. Se sei una donna incinta, se appartieni ad una determinata etnia avrai più possibilità di essere selezionato dai landlords locali che inviano i pacchetti umani ai gestori del traffico locale e poi internazionale.

 

L’industria della legalità e la geopolitica

La categorizzazione dei migranti ne determina il grado di debolezza, di mobilità o immobilità e rivela il meccanismo sociale messo in atto dalla “legalità europea”. C’è una supply chain internazionale che viene generata dal bargain (patto, affare) che sta a monte e che vede governi locali e UE accordarsi sul controllo del flusso alla fonte. Questo patto prevede un supporto finanziario ai governi locali (la regola è: la maggior parte di questo flusso finanziario va alle politiche di controllo e repressione, quindi all’acquisto di mezzi meccanici e tecnologici, ovviamente forniti dai paesi europei), l’appoggio delle lobbies internazionali dell’accoglienza ma, soprattutto, questo tipo di accordo rinforza il legame con il partner ricco occidentale, distorce ulteriormente la struttura economico-sociale e riproduce sistemi di potere e gestione tradizionali che un certo sviluppo locale un po’ meno eterodiretto aveva parzialmente neutralizzato. I landlords, la catena logistica dei trafficanti sono parte di questa supply chain internazionale. La violenza, gli abusi sessuali e di altro tipo fanno parte del pacchetto e si consumano ben prima delle tragedie del mare. Infine, gli accordi bilaterali rompono quei deboli tentativi che il continente africano nei due decenni passati ha fatto per dare risposte continentali ai flussi migratori interni e alla questione di uno sviluppo economico meno squilibrato tramite la ridiscussione del proprio ruolo nella catena globale del valore aggiunto.

 

L’esternalizzazione

L’esternalizzazione è un fenomeno abbastanza recente, nella cui storia l’intensità aumenta in funzione del moltiplicarsi degli scenari di crisi, in particolare quelli connessi con la crisi economica e con le crisi politiche e belliche. Di fronte a questi scenari, l’Europa ha pensato di agire muovendosi in anticipo, al di là dei propri confini, per approntare una serie di misure di controllo. In questo contesto - che a rigore ancora non può essere definito di esternalizzazione - ricordiamo l’accordo Italia-Libia del 2008, l’accordo Spagna-Marocco del 2012 e quello tra UE e Turchia siglato nel 2016. Nel frattempo, nel 2014 e nel 2015, c’è stato il cosiddetto processo di Khartoum e il summit della Valletta. Una costellazione di incontri e decisioni miranti, in diverso modo, a finanziare il controllo dei flussi migratori direttamente nei paesi di transito. In molti casi si è trattato di uno scambio in cui l’UE ha fornito consistenti fondi (sempre e comunque primariamente destinati alle politiche di controllo e repressione) mentre nel caso della Turchia fino a un certo punto il bargain comprendeva anche l’accesso del paese nell’UE. I fondi, come il Fondo Europeo per i progetti di investimento, il Fondo finanziario per l’Africa (EUTF), hanno come obiettivo formale l’interruzione del traffico di esseri umani, il fornire aiuti “a casa loro” per eliminare all’origine le cause della migrazione. A questi progetti a tutto campo si aggiungono, tra gli altri, progetti specifici per la sicurezza come il G5 Sahel (che comprende Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad di area francofona) e l’Eucap Sahel (Mali e Niger) in cui talvolta vengono utilizzate tecnologie avanzate, dispositivi biometrici, ecc.

Se parliamo di esternalizzazione in senso stretto, come pratica di offshoring, a parte qualche tentativo precedente risalente all’ex- premier Blair (che a suo tempo pensava alla Tanzania), l’Australia è stata il pioniere con le deportazioni di migranti a Nauru e in Papua-Nuova Guinea (2001) mentre esempi più recenti sono la deportazione israeliana di Sudanesi ed Eritrei, in Ruanda e Uganda attuata tra il 2013 e il 2018. Ancora più recentemente abbiamo i casi di Danimarca e Regno Unito, del quale ci occuperemo dopo. E anche in questo caso si parla sempre del Ruanda (in realtà esistono altri tentativi di offshoring di cui alcuni sono già in fase di attuazione come avviene ad esempio in Niger).

L’esternalizzazione rappresenta un affare anche per le élites africane, che sgomitano per accedere ai favori europei e talvolta usano la loro posizione geografica (soprattutto se si tratta di paesi di transito) per ottenere favori maggiori. In questo gioco, la grande sconfitta è la politica africana che negli ultimi decenni ha sempre più tentato di creare accordi panafricani per resistere alla spinta delle economie forti. Il risultato degli accordi bilaterali, invece, è un’accresciuta sudditanza economica scambiata con finanziamenti scarni ed una patente di (quasi) libera azione nel contesto regionale.

Concretamente (secondo la definizione UNHCR) l’esternalizzazione riguarda il controllo dei confini (di cui i pushbacks - respingimenti - sono un’espressione ma in cui rientrano anche le disposizioni sui visti e gli accordi di riammissione) e la gestione del sistema di asilo (di cui i modelli offshore sono espressione) in cui il migrante fa richiesta di asilo in un paese diverso da quello in cui è approdato. Anche le operazioni di soccorso (e di mancato soccorso) rientrano nelle attività di esternalizzazione. Comune a tutte queste espressioni è che c’è un trasferimento di responsabilità e di esercizio del diritto in uno Stato terzo, che provvede a implementare le misure in base alla propria discrezionalità. Ma in questo trasferimento c’è un ulteriore passaggio. Innanzitutto l’implementazione delle misure di controllo diventa spesso un affare gestito da attori privati locali dei paesi di origine e di transito che provvedono a ripartire i migranti in desiderabili e indesiderabili; in secondo luogo la questione del trasferimento del diritto genera una dimensione della pura gestione (“management”) del migrante in base alle coordinate discrezionali di “desiderabilità”.

 

Il fenomeno migratorio come cardine della geopolitica. L’accordo UK/Ruanda

Con gli accordi di esternalizzazione si determina una dinamica geopolitica favorevole a entrambi gli stati che partecipano all’accordo: con l’esternalizzazione, infatti, il diritto si è magicamente trasformato in discrezionalità al servizio della geopolitica. In conseguenza, il problema dei flussi migratori si trasforma a sua volta da problema di controllo in risorsa geopolitica per gli stati destinatari. La geografia delle rotte migranti è in realtà la carta crittografata dello scontro geopolitico. Ed è in questa carta che si muovono le industrie dei trafficanti, del soccorso e della gestione umanitaria.

In questo quadro si inserisce il memorandum tra Regno Unito e Ruanda che significativamente mette insieme gestione delle politiche migratorie e accordo per lo sviluppo economico. Il protocollo non rappresenta una novità assoluta ma è il contesto geopolitico che lo rende innovativo. Dal punto di vista delle politiche di controllo della migrazione rappresenta invece un salto in una terra di nessuno, in cui i richiedenti asilo vengono considerati una merce immagazzinabile al servizio della geopolitica e in cui il diritto subisce un’ulteriore mutazione.

Il Regno Unito aveva in passato provato soluzioni analoghe di offshoring con Gibilterra, Albania e con l’isola di Ascensione trovando una forte opposizione. Il memorandum siglato nel 2022, che prevede una fase iniziale di 5 anni nei quali sono 200 i richiedenti d’asilo spediti ogni anno in Ruanda, non presenta caratteri originali o salienti. Al fine di stoppare la rete dei trafficanti e garantire la sicurezza dei migranti, così recita il memorandum, coloro che a partire dal 1° gennaio 2022 si trovano nel Regno Unito e provengono da “paesi terzi sicuri” possono essere deportati in Ruanda, dove potranno fare domanda di asilo e restare in quel paese oppure essere rimpatriati. Non è invece previsto, in caso di accoglienza della domanda, il loro ritorno nel Regno Unito. Il memorandum prevede che le misure non si applichino in caso di famiglie con minori, minori non accompagnati, richiedenti asilo ruandesi e cittadini europei. Molti sono stati i dubbi sulla legittimità del memorandum e molte sono le violazioni del diritto internazionale e della Convenzione sui diritti umani attribuite all’accordo. L’Alta Corte britannica si è espressa favorevolmente non ravvisando violazioni ma ad oggi nessun richiedente asilo è stato spedito in Ruanda. Sul fronte critico, i punti principali si concentrano sulle non sufficienti garanzie di sicurezza per i richiedenti asilo, sulla “scarsa democraticità del governo di Kigali” (quando si dice che l’ironia ci mette sempre lo zampino!) e, soprattutto, sull’inaccettabile delega della responsabilità in materia di diritti umani ai paesi terzi, già poveri, con risorse scarse e con tratti xenofobi. In particolare, molti esperti sottolineano come i tratti autoritari e repressivi dei governi locali vengano intensificati proprio dall’approvazione di memorandum come questi che legittimano il ruolo di agente democratico svolto dal Ruanda. Questi, in sintesi, i “pro” e “contro” ufficiali. Nel memorandum, in realtà, non è contenuta alcuna informazione specifica sul come vengano eseguite le procedure per la richiesta di asilo, sullo stato dei rifugiati in Ruanda, su cosa accade per coloro a cui l’asilo viene rifiutato e su quali siano le condizioni previste per coloro che invece vengono accolti.

A fronte dei dubbi sull’efficacia del piano, delle violazioni dei trattati internazionali, della fumosità sulle disposizioni concrete e, infine, dei dati quantitativi inconsistenti del piano rispetto al flusso reale dei migranti, al numero di rifugiati e dei richiedenti asilo, proviamo ad analizzare questo piano inquadrandone il contesto specifico.

 

Richiedenti asilo: impacchettati, imballati, spediti, etichettati e tracciati

Innanzitutto il piano di asilo rappresenta un modello di warehousing senza precedenti. In esso sono contenuti tutti gli elementi destinati a rendere impossibile per il migrante che ha ottenuto l’asilo uscire dalla dimensione depersonalizzante della pratica di esternalizzazione. In Ruanda, infatti, gli asilanti a) saranno sottoposti ad una situazione protratta di restrizione della mobilità, b) si troveranno in una situazione di permanente dipendenza dal sistema di accoglienza e di asilo, c) saranno perlopiù confinati nei campi (come ad esempio il rapporto UNHCR ha evidenziato per i rifugiati già presenti in Ruanda nel 2022). Quello che è importante sottolineare in questo caso, è che la pratica del warehousing non significa formalmente una violazione del diritto e non è semplicemente l’esercizio di un’azione repressiva ma è una pratica che ha luogo anche nel caso in cui i diritti vengano formalmente garantiti. Essa è la condizione di possibilità per la violazione permanente della dignità umana anche in condizioni di rispetto della legalità.

 

Ruanda: un agente fidato per il grande business

Il Ruanda è ormai da tempo un agente che opera come peacekeeper indipendente in un’ampia fascia dell’Africa centrale. In assoluto è il quinto paese per importanza a fornire forze militari per le missioni UN e il secondo in Africa dopo l’Etiopia. Dal 2020, però, ha esercitato il suo compito di controllo e pacificazione anche indipendentemente dalle azioni ONU. Nella Repubblica Centrafricana e in Mozambico la Rwandan Defence Force si è distinta per la disciplina e l’efficacia degli interventi. In particolare, a Capo Delgado in Mozambico ha sconfitto una formazione jihadista proteggendo l’azione della Total nella realizzazione degli impianti di estrazione del gas offshore. Operazione, questa, avvenuta con il sostegno finanziario diretto della Francia e dell’UE.

Nella sua attività al di fuori dei propri confini, il Ruanda ottiene nelle trattative bilaterali condizioni economiche e fiscali di favore per le proprie aziende, acquisisce i diritti di sfruttamento e trattamento dei prodotti minerari e di commercializzazione. Insomma un ruolo pacificatore e stabilizzatore che il Ruanda, piccolo paese popoloso con scarse risorse ed una elevata densità demografica, ambisce a rivestire per ottenere all’estero le risorse che gli mancano internamente. È questo il significato del “Brand Ruanda”: uno stato che nell’ultimo decennio ha segnato risultati economici positivi, un esempio per Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale e per gli stakeholder internazionali che sono presenti nel paese.

Una carta d’identità da primo della classe che però risponde poco alla realtà. Innanzitutto perché 1) prodotti agricoli come tè e caffè di cui il Ruanda è produttore sono esposti a forti speculazioni sui prezzi e questo negli ultimi anni ha prodotto pesanti ricadute sulla bilancia commerciale, 2) il forte indebitamento “da intervento umanitario” che nei decenni precedenti ha costituito il volano di crescita adesso grava in modo preoccupante sulle casse statali, 3) il livello di sfruttamento agricolo è vicino ai livelli massimi, 4) i mercati agricoli e minerari sono soggetti a forte volatilità, 4) l’inflazione comprime il potere di acquisto, 5) il ruolo dell’agricoltura permane strutturalmente forte inibendo l’ambito ruolo del paese di diventare sede della trasformazione mineraria e così, di accedere al settore più redditizio della supply chain dei minerali. Infine, le ricadute sociali di questa curva positiva in forte decrescita sono evidenti. E la presenza di nuovi flussi di rifugiati (peraltro del tutto estranei al contesto sociale locale) costituirà un elemento di attrito come già avviene in Uganda.

 

Il significato strategico del memorandum UK/Ruanda sulla migrazione e lo sviluppo economico

L’accreditamento del Ruanda come bravo allievo nel contesto internazionale viene comunque ben ripagato: Kigali può esercitare il suo ruolo di potenza locale ufficialmente ma, soprattutto, può continuare ad agire indisturbata nelle regioni congolesi di Kivu e Ituri in parte direttamente ma, soprattutto, attraverso l’M23, una potente milizia finanziata direttamente e apertamente dal governo ruandese, autrice di immani massacri sul territorio congolese proprio in questi ultimi mesi. Questi incessanti massacri hanno almeno due obiettivi: operare indisturbati nel controllo geopolitico locale e proseguire l’azione strategica di risalire nella catena del valore aggiunto globale dell’industria mineraria creando con l’aiuto di aziende occidentali (tra cui l’inglese Power Resources International) l’infrastruttura per la raffinazione dei metalli rari, in primis del coltan, e ottenere polveri pure il cui valore aggiunto è decisamente superiore a quello degli anelli inferiori della catena, a partire da quello dell’estrazione. Tra gli obiettivi ne aggiungiamo uno: se si osservano i dati sull’esportazione di coltan, il Ruanda è nei primissimi posti al mondo...pur non producendolo. Lasciamo al lettore la risoluzione di questo enigma.

Il bargain con il Regno Unito è decisivo. E decisivo lo è anche per quest’ultimo, che rilancia il proprio impegno post-coloniale nella decisiva partita del dopo-Brexit e per l’economia sostenibile (che prevede la sostituzione dei motori a combustione con la propulsione elettrica a batteria) e per la digitalizzazione globale: due momenti dell’economia futura in cui i metalli rari diventano decisivi.

Abbiamo voluto tracciare questo contesto innanzitutto perché questi grandi giochi sono direttamente correlati con il piano di asilo UK/Ruanda. In secondo luogo perché la correlazione tra geopolitica e gestione dei flussi migratori si condensa in questo momento storico in un accordo particolarmente odioso perché crea - al di là dei numeri che sarà in grado di generare - un precedente pericoloso in cui esplicitamente la questione dei richiedenti asilo è completamente slegata da una soluzione del problema delle persone coinvolte. Con il pacchetto Ruanda si esplicita una concezione delle politiche migratorie puramente strumentale alla strategia geopolitica dei cosiddetti paesi di destinazione. Le tragedie dei transiti, avvengano in mare o meno, costituiscono e costituiranno un episodio marginale, frutto di una “scelta irresponsabile” dei migranti che hanno deciso a loro pericolo di tentare la sorte. In realtà in questo discorso, proferito anche in occasione della tragedia di Cutro dalla presidente del consiglio, non c’è alcun cinismo ma la lucida lettura che vede nei barconi alla deriva un’anomalia da risolvere nel global bargain in corso.

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