Print Friendly, PDF & Email

fuoricollana

Il vento dell’odio e l’Europa, che fare?

di Antonio Cantaro

Una interruzione sine die della politica e del diritto. Le parole usate come proiettili. E i proiettili come parole. Hamas Netanyahu, Netanyahu Hamas. Guerra d’odio alla massima potenza. L’ideologia unionista non è un antidoto. È necessaria un'Europa autonoma, neutrale, mediterranea

IMG 20231110 163346.jpgIn tempi di opposti e manichei fondamentalismi ci sforziamo, sin dal numero zero del nostro web magazine, di tornare ai fondamentali. Primo. La maggior parte delle guerre in corso tra Stati, tra popoli, dentro i popoli, sono sempre più guerre d’odio. Secondo. La guerra israelo-palestinese, ancor più di quella russo-ucraina, è guerra d’odio alla massima potenza. Terzo. Nessuna comunità è immune dal cadere nel baratro delle guerre d’odio, compresa l’Europa che pure nel secondo dopoguerra era risorta sotto l’egida del “mai più la guerra tra noi”. Quattro. L’ideologia europea (‘unionista’) è lungi dall’essere un antidoto alle odierne guerre d’odio. Quinto. Non sarà oggi, ma è quantomai urgente lavorare da subito a un’altra Europa che, insieme ad altri attori della politica internazionale, contribuisca alla ricostruzione di un ordine mondiale di giustizia e pace: un’Europa autonoma, neutrale, mediterranea.

 

Il confine dell’odio

Tanti storceranno il naso. Come si fa a negare – si obietterà – di fronte a quel che accaduto il 7 ottobre che, da una parte, c’è il male e, dall’altra, c’è il bene? Come si fa a negare che è stato l’odio palestinese ad aver oltrepassato il confine tra Gaza e Israele per colpire le più innocenti delle vittime? Da una parte, ha scritto Domenico Quirico, centinaia di giovanissimi ragazzi in festa, musica, balli riuniti per un festival e, dall’altra, giovani con coltelli e kalashnikov, il “kit per il paradiso”, il massacro e il martirio (La Stampa,12 ottobre: Israele-Gaza, il confine dell’odio). Qui c’è solo una verità, diversamente da quanto sosteneva nel 1938 David Ben-Gurion, uno dei fondatori dello Stato di Israele: «Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità.

Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono. Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente noi siamo gli aggressori, loro quelli che si difendono».

 

C’era una volta il conflitto politico

Quel 1938 è sideralmente lontano. E lo è proprio perché il conflitto politico non abita più da tempo il confine tra Gaza e Israele. Il 7 ottobre 2023 dei miliziani di Hamas hanno ‘semplicemente’ infierito su giovani israeliani innocenti, senza alcun obbiettivo politico. Brutalmente, punto e basta. Per noi. Per i palestinesi che stanno al di là del muro (e non solo per i miliziani di Hamas), quei giovani che ballano e cantano incarnano un occidente – ha osservato ancora Domenico Quirico – ricco, potente, tracotante. Incarnano una istantanea di vita della gioventù occidentale, indifferente ai loro morti sino al punto da impiantare “nella lora terra” una festa, un “rave”, simbolo di quella presunta “globalizzazione della felicità” che quotidianamente si celebra in Nord America, in Europa, in Australia, in Giappone. Un concentrato del male, una scaglia dell’odio occidentale piantato in Israele. Odio contro odio, il punto di vista degli abitanti di Gaza. E dopo, ancora odio contro odio, il punto di vista (dell’Israele) di Netanyahu.

 

Guerre, a tutte le latitudini

Se fosse ‘solo’ così sarebbe certo difficile uscirne, ma non impossibile. L’odio è ‘sentimento’ presente, da sempre, nei rapporti tra gli uomini (ad alimentarlo, oggi più di ieri, una diffusa infelicità e paura). E Netanyahu e i capi di Hamas non sono eterni. Ma il problema è che l’“odio bruciante” (disgusto, rabbia, disprezzo) che esige l’annientamento dell’altro è oggi tutt’altro che un sentimento circoscritto ai rapporti tra palestinesi e israeliani. Il problema è che l’odio bruciante non è più da tempo solo la conseguenza delle guerre, ma una delle cause principali di esse. Lo si evince dalla quantità delle ‘guerre in senso tecnico’, una sessantina, in corso nel mondo. Lo si evince dalle latenti guerre civili in cui siamo, a tutte le latitudini, quotidianamente ‘impegnati’. L’odio è il sentimento dominante dei nostri tempi. L’utilizzo di parole ostili, denigratorie, violente, è diventata la cifra del modo di essere e di esistere di larga parte del mondo, dell’umanità planetaria. La guerra è dentro di noi, siamo continuamente sollecitati a sentimenti negativi (malessere, rabbia, paura, inquietudine, frustrazione), a comportamenti aggressivi verso coloro che riteniamo responsabili per la nostra assenza di benessere o verso coloro che avvertiamo come una potenziale minaccia per esso.

 

Il vento dell’odio

Siamo preoccupati di coltivare pensieri ostili più che occupati in emozioni positive, progetti, attività costruttive. Il vento dell’odio “si sente dappertutto, è palpabile, è attorno a noi”, osservava Andrea Camilleri in una trasmissione Rai di qualche anno fa. Ma perché non riusciamo più a ‘trattenere’ questa ‘cattiva passione’? Sappiamo che l’odio è vertiginosamente aumentato con l’avvento della Rete. Sono le piattaforme social ad essere sempre più luoghi di intolleranza e violenza verso chi ha diversa origine etnica, differente credo religioso e politico, diverso orientamento sessuale (hate speech). Non c’è da stupirsene. Nella digitalizzazione le relazioni vengono spogliate dell’impatto passionale (le giuste passioni) che è presente nella dimensione fisica. L’interazione mediata dal dispositivo priva i suoi protagonisti di un necessario punto di riferimento nel processo di apprendimento dei propri stati emotivi e nel comprendere quelli degli altri. Disinteresse, analfabetismo emotivo, sensazione di onnipotenza alimentata dalla protezione per l’anonimato che scivola in impoverimento del linguaggio, in analfabetismo cognitivo. Stereotipia comunicativa e non appropriatezza semantica che impediscono sia la comprensione del messaggio sia di sentire le emozioni che procurano le parole ascoltate e di scegliere quelle da pronunciare (T. Iaquinta, Le trappole dell’odio tra pandemia e guerra. Riflessioni pedagogiche su un tempo avverso).

 

Le parole come proiettili, i proiettili come parole

Un’interruzione sine die del confronto, delle ‘istituzioni’ che lo mettono in forma, delle ‘leggi’ della politica e del diritto. Le ‘parole’ – poverissime, al massimo un centinaio – usate come ‘proiettili’. E i proiettili’ usati come parole. Hamas Netanyahu, Netanyahu Hamas. La guerra d’odio alla massima potenza. Colpire il cuore del nemico attraverso azioni e gesti pianificati. La vendetta che nega la propria e altrui umanità, quella mistica della punizione collettiva sottesa in queste settimane a tanti ‘discorsi’ dei media, dei falsi apostoli del politicamente corretto. Mistica del divieto dell’hate speech, formalmente sanzionato nei nostri ordinamenti giuridici. Il divieto per gli altrui discorsi d’odio, l’immunità per i propri. La sostituzione della didattica della pace, del riconoscimento del conflitto per andare oltre, con la didattica della guerra, con l’annientamento dell’altro che eternizza e sublima l’odio. Una condizione che ci fa apparire desiderabile persino l’urticante detto “se vuoi la pace, prepara la guerra”. Ma quale pace, quale guerra se Israele va cancellato dalla faccia della terra e i bambini di Palestina altro non sono che dei futuri, “certi”, terroristi?

 

La tragedia mediorientale. Un prodotto della storia europea

Le grida di dolore di Papa Francesco scivolano come l’olio negli orrori quotidiani in cui sguazzano notiziari televisivi e talk show. Che fare? Che fare qui e ora, da europei? Innanzitutto, prendere atto che ciò che la vecchia Europa ha fatto nel secondo dopoguerra lungi dall’essere un antidoto, è stato un carburante delle guerre d’odio. Le premesse sulle quali risorgono in Europa gli Stati nazionali e le prime Comunità sovranazionali lasciavano, in verità, sperare in altri sviluppi. Parte delle classi dirigenti erano consapevoli della necessità di fare i conti con la fine del colonialismo, con l’Africa. Per fare due nomi, Mattei in Italia; Monnet in Francia. Scartabellando nelle memorie del secondo, ricorda Isidoro Mortellaro, vi si trova l’invito di uno dei suoi collaboratori all’EURATOM «di dedicare una statua a Nasser, come federatore dell’Europa». Una buotade rivelatrice dell’opportunità storica di declinare la ribellione al neocolonialismo «come atto decisivo per costringere gli Stati europei a ritrarre il loro artiglio sul mondo», a progettare la futura casa europea non solo nel segno degli interessi e di un gretto funzionalismo (I. Mortellaro, Tra due secoli, La Meridiana, 2011).

Voci e sensibilità dimenticate, come ripetutamente sottolineato da un raffinato storico della memoria. Gli ingredienti fondamentali della crisi mediorientale sono, per Leonardo Paggi, un prodotto della storia europea. Di tutto questo v’è «traccia assai debole nella coscienza della opinione pubblica. La legge votata nel 2005 sul “ruolo positivo” della colonizzazione francese non è un incidente di percorso». Mentre In Italia «è ancora prerogativa di un ristretto manipolo di studiosi l’impegno a documentare, con inoppugnabili prove di archivio, lo sterminio di massa, al limite del genocidio, perpetrato dalla colonizzazione fascista in Libia alla fine degli anni venti» (L. Paggi, Ripensare il mediterraneo come compito dell’Europa, 2008).

 

Colonialismo e antisemitismo

Un oblio del passato coloniale che insieme alla guerra di civiltà invocata oltreoceano negli ultimi decenni ha riattizzato e riciclato in Europa radicati e plurimi focolai di razzismo mai estinti. Eppure, avvertiva Leonardo Paggi, è stato proprio uno scrittore israeliano come Amos Oz a ricordare che il conflitto arabo-israeliano chiama in causa due vittime dello stesso oppressore: «L’Europa che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura-scriveva Oz – è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia, e infine sterminato in massa gli ebrei». Colonialismo e antisemitismo, le due grandi derive catastrofiche della storia europea dal 1875 al 1945 che si intrecciano e si condizionano reciprocamente.

 

Maastricht, il mediterraneo ‘dimenticato’

Gli ingredienti fondamentali della crisi mediorientale sono, insomma, per Oz, un prodotto della nostra storia, a partire dalla svolta che si determina all’indomani della prima guerra mondiale in ragione di due fattori diversi e tuttavia strettamente concomitanti: a) la spartizione dell’area tra Francia e Inghilterra in omaggio agli accordi Sykes-Picot del 1916, che stracciano l’impegno coevo per la ricostituzione di un’unica grande nazione araba, e che approdano alla creazione diffusa di un regime mandatario di tipo classicamente imperiale; b) un flusso emigratorio degli ebrei che si fa per la prima volta ininterrotto e massiccio per il dilagare dell’antisemitismo prima nell’Europa orientale e poi in Germania.

Assumendo una prospettiva concretamente storica sulle origini del conflitto attuale lo scrittore ebreo può sostenere una legittimazione della presenza ebraica in Palestina, che mettendo da parte la tesi rocambolesca del ‟ritorno” in Palestina dopo diciannove secoli di esilio insiste invece sul ‟rischio della sopravvivenza”. Ebrei e palestinesi si trovano in una situazione simmetrica: il loro conflitto è uno scontro tra due diritti egualmente validi, diventando proprio per questo tragedia. Senza citarla Oz sembra richiamare quasi alla lettera la interpretazione hegeliana dell’Antigone di Sofocle come raffigurazione di uno scontro tra inconciliabili ‟potenze etiche contrapposte”. Dalla assenza di una possibilità di superamento del conflitto scaturisce la tesi del compromesso inevitabile, da intendersi non come il prodotto di una astratta mediazione della politica, ma come approdo di un riconoscimento reciproco, di una accettazione dell’altro, inevitabilmente dolorosa perché in entrambi i casi lesiva della propria identità, e tuttavia non per questo meno essenziale in ordine all’obbiettivo primordiale: la preservazione della vita (Amos Oz tra politica e letteratura)

Questo peso della storia è stato nel Vecchio continente tutt’altro che metabolizzato e rielaborato. La prospettiva tracciata a Maastricht di un Europa che si proietta nel mondo non muove dal riconoscimento del Mediterraneo come elemento costitutivo e inalienabile della propria identità storica ed iniziativa in modo corrispondente alla nuova fase del processo di globalizzazione innescata dalla fine del bipolarismo e dai nuovi processi di mondializzazione che tolgono al Mediterraneo il suo carattere di “mare interno” e lo aprono agli influssi dell’Africa, dei paesi dell’Asia centrale, di un Medioriente che sempre più guarda nella direzione di India e Cina. Mentre il “mare nostrum” tornava a configurarsi come un teatro decisivo per le sorti della pace e della guerra, le classi dirigenti dell’Unione si illudevano di “guadagnare tempo”, pensando al Mediterraneo come semplice area di partenariato, di cooperazione, di libero scambio. Al contrario di quello che sarebbe stato necessario per non continuare a pensare l’Africa e il medio oriente come «qualcosa di distinto e di diverso da sé», il “grande allargamento”, dopo la caduta del muro di Berlino, è andato in direzione esattamente opposta: spostare sempre più a Nord e a Est il baricentro, tornare, senza nemmeno averne contezza, al passato mitteleuropeo.

 

L’Unione geopolitica, l’ennesima ideologia consolatoria

Decenni di errori in cui l’Unione ha fatto finta di non vedere l’odio che cresceva a Est e a Sud dei suoi confini (e al suo interno). La confusa e inadeguata reazione al conflitto israelo-palestinese è tutt’altro che un incidente di percorso. E ancor peggio è l’estemporaneo e opportunistico attivismo verbale della presidente della Commissione Von der Leyen affidato a comunicati stampa e tweet di acritico appoggio al governo israeliano incuranti di ogni riferimento all’obbligo di rispettare il diritto internazionale umanitario (anche quando Israele ha iniziato l’assedio di Gaza, bloccando acqua, viveri, carburante ed elettricità destinati alla popolazione civile della Striscia di Gaza). La Commissione Von der Leyen, autodefinitasi, sin dall’inizio del suo mandato, “Commissione geopolitica” ha già nel corso del conflitto russo-ucraino fatto venire allo scoperto il carattere retorico e velleitario di questa autorappresentazione, una sorta di ideologia consolatoria funzionale a coprire l’assenza di un’autonoma visione del mondo e di una politica estera consapevole dell’attuale disordine internazionale, delle sue cause remore, di quelle prossime, delle sue responsabilità.

 

Provincializzare l’Europa

L’Unione continua a perseverare nell’amputare la sua memoria, tanto quella più antica (coloniale) quanto quella più recente (neocoloniale, di regione economica di un più vasto sistema atlantico, di subalterno allineamento all’ “amico americano”). Il problema, a sottolinearlo è sempre Leonardo Paggi, non è solo quello di riconoscere le proprie colpe. Dagli studi post-coloniali viene oggi una importante indicazione di metodo: “provincializzare l’Europa”, ossia maturare la consapevolezza del carattere non paradigmatico della nostra esperienza evolutiva e, anzi, in certi casi delle sue dirette implicazioni catastrofiche. La storia del Mediterraneo procede nel xx secolo nei suoi aspetti più distruttivi di pari passo con il dilagare dei nazionalismi turco, greco, balcanico, ebraico, arabo. In Palestina, in Libano, a Cipro, nel Maghreb, nella ex Jugoslavia, il Mediterraneo è tuttora dilaniato da conflitti che trovano la origine nella proliferazione di quelle che sono state chiamate le identità assassine. La stessa crisi dello stato postcoloniale, e il suo approdo generalizzato a forme di potere autoritario, chiama in causa l’idea tutta europea che solo attraverso la formazione di una unità statale centralizzata possa essere garantito, fuori dal Vecchio continente, lo sviluppo economico e il progresso sociale.

 

Un’Europa autonoma, neutrale, mediterranea.

È fuori discussione – è la conclusione di Leonardo Paggi – che solo nel quadro di una sua propria politica mediterranea l’Europa può riguadagnare spazi di autonomia rispetto ad una tradizione atlantica che sembra ormai sapersi perpetuare solo come legittimazione esteriore di un ricorso sempre più frequente alla forza delle armi. Un’Europa neutrale, come tante volte postulato nell’ultimo decennio da Sergio Romano. Coloro che difendono la obbligatoria continuità dello spazio atlantico credono, invece, di affrontare il cambiamento di struttura del mondo sulla scorta di provvedimenti di polizia, di chiusura delle frontiere, di riabilitazione di forme più o meno velate di protezionismo, di un’Europa separata dalla “culla d’Europa”. Al contrario, è doveroso pensare alla costituzione di una soggettività politica comune all’insieme dei paesi che compongono il vecchio continente a partire da un’Europa che riassuma integralmente sul piano culturale e politico la sua millenaria e “naturale” proiezione nel “mare nostrum”. Un’Europa autonoma e mediterranea, protagonista attiva di un ordine multipolare di giustizia e pace tra i popoli.

 

Pessimismo dell’intelligenza versus volontarismo magico

Un orizzonte tutt’altro che a portata di mano e che il pessimismo dell’intelligenza induce al momento a escludere come attuale. Il primum esistenziale-politico per noi è, infatti, il pessimismo dell’intelligenza. La denuncia, senza sconti, dell’assenza complice dell’Unione sul piano della memoria storica, della sua “politica”, delle sue “politiche”. Dopo viene l’ottimismo della volontà. Un ottimismo che non ha nulla a che spartire con il “volontarismo magico” dei nipotini degenerati dell’Europa delle nazioni e dell’Europa federalista. Il nostro non è il costituzionalismo dei poteri costituiti che stanno trascinando in una guerra infinita e permanente tante parti del pianeta, ben oltre – temiamo – la denuncia bergogliana della “guerra mondiale a pezzi”. Noi vogliamo continuare a coltivare l’ambizione di dare voce ai popoli, alle loro emozioni organizzate, alle loro giuste passioni di giustizia e di pace. A quel costituzionalismo dei governati che oggi chiede nell’immediato un vero cessate il fuoco tra palestinesi e israeliani. L’unico antidoto, al momento, per arginare il vento dell’odio. Poi si convochi, sotto l’egida dell’Onu e degli Stati europei, una Conferenza internazionale di pace sulla questione israelo-palestinese.

Add comment

Submit