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sinistra

Palestina, cuore del mondo

di Nicola Casale

1.49597.jpgLa Tempesta di Al Aqsa ha provocato molti turbamenti sia in quel che resta della sinistra anti-capitalista sia in molti militanti che avevano conservato sulla pandemia una lucidità di classe. Una vera e propria Sindrome di Hamas, come la definisce questo articolo https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/26619-raffaele-tuzio-la-sindrome-di-hamas.html che ne descrive brillantemente sintomi ed effetti. C’è effettivamente da interrogarsi su come mai soggetti che hanno rifiutato di dare credito a ciascuno dei dettagli politico-mediatici-scientifici agitati per gestione pandemica, vaccini, ecc. abbiano preso per buoni tutti i dettagli informativi tesi a dimostrare che l’azione della resistenza palestinese non fosse altro che un terroristico massacro di civili (ulteriore prova di come il problema non sia dell’informazione in sé, ma di come si crede in ciò in cui si ha bisogno di credere, in ragione della propria condizione materiale, di coscienza, ecc. che non è solo la condizione di classe, ma anche l’ambito generale sociale, economico, politico in cui si vive: tanto per dire, anche i giovani palestinesi che vivono da noi si alimentano della nostra stessa informazione, dei social, ecc., eppure ne traggono conclusioni diametralmente opposte e vanno in pazza a rivendicare con veemenza free Palestine… pur non essendo militanti di Hamas e senza necessità di prenderne le distanze).

Come ben detto nell’articolo, se anche si fosse trattato solo di un atto terroristico non avrebbe, in nulla, cambiato l’ordine dei problemi, ossia quelli di un popolo costretto a reagire, spesso con atti disperati (che solo tali solo per l’enorme asimmetria di armamenti), a una lunga, sistematica, brutale oppressione che non conosce limiti di alcuna natura. Ma non di questo si è trattato, bensì di una vera e propria operazione militare, fatta con i mezzi poverissimi che è possibile reperire nel quadro spaventoso di controllo militare e di intelligence esercitato da Israele, e messa in atto da tutti i gruppi di resistenza tranne Al Fatah.

A questo proposito si può leggere, tra i tanti articoli che chiariscono la questione, questo https://giubberosse.news/2023/10/30/20-giorni-di-tempesta/. Non è un invito a condividerne l’impostazione politica, ma a tenere conto delle informazioni utili a comprendere che cosa sia la Tempesta di Al Aqsa: un’operazione militare, lungamente preparata e scatenata in un preciso momento politico. Hamas ha dichiarato che l’operazione era stata progettata in dimensioni più limitate di quanto poi avvenuto. 1.500 combattenti avrebbero dovuto attaccare istallazioni militari vicine al confine di Gaza e cercare di prendere 20-30 ostaggi militari per proporre uno scambio, mettendo in conto una reazione di Israele proporzionata a questo attacco limitato e che molti dei combattenti sarebbero rimasti sul terreno. Le dimensioni sono diventate più ampie, secondo Hamas, perché la resistenza incontrata è stata inferiore a quella prevista (sotto la pressione dei partiti dei coloni il grosso delle truppe israeliane erano state spostate, infatti, in Cisgiordania per appoggiare l’ulteriore estensione degli insediamenti lì) e perché un numero considerevole di giovani non organizzati dai gruppi della resistenza sono entrati dai valichi aperti e hanno condotto in proprio azioni militari e di presa di ostaggi. Anche i combattenti rientrati a Gaza sono stati 1.400, con perdite inferiori a quelle previste. Ma questo non muta il fatto che si sia trattato di operazione militare lungamente preparata e messa in atto in un dato momento politico.

C’è in questo, da un lato, disperazione di un popolo seviziato quotidianamente da 75 anni, ma, dall’altro, una straordinaria capacità di collocare la propria azione di resistenza nell’ambito di un quadro politico, locale e mondiale, che, potenzialmente, può offrire degli spiragli per tentare di scuotersi definitivamente dall’oppressione. Per lo meno, si cerca con lucidità di volgere a proprio vantaggio quel quadro, senza, naturalmente, poterne avere in anticipo la certezza.

 

In quale quadro si colloca la Tempesta?

1. La soluzione dei due stati, nella versione Rabin-Arafat di territori in cambio di pace, si è rivelata per i palestinesi una vera truffa. Non solo non hanno il proprio stato, ma continuano a essergli sottratti territori, con un’opera di continua pressione fatta con o senza leggi, e soprattutto con la violenza dell’esercito e dei coloni. Con gli accordi di Abramo era stato rispolverato l’obiettivo politico di Rabin-Perez (trasformare Israele in un pivot economico-finanziario dell’intera regione, con il passaggio da stato puramente coloniale in stato con i caratteri propri dell’imperialismo moderno, capitalista), con la differenza, tuttavia, che questa volta non solo non si parlava di cessione di territori ai palestinesi e costituzione di un loro stato, ma semplicemente la questione palestinese veniva cancellata con il chiaro intento di cancellare i palestinesi come nazione, espresso platealmente dal trasferimento della capitale di Israele a Gerusalemme. I primi paesi che hanno aderito agli accordi non hanno minimamente richiamato la questione palestinese e le trattative avviate dall’Arabia Saudita ugualmente la evitavano. Per i palestinesi si profilava il completo abbandono da parte di molti importanti paesi arabi. L’accordo Arabia Saudita-Israele sembrava ormai imminente. Era urgente intervenire per bloccare questa deriva nel totale isolamento, anche perché altri paesi arabi sul cui appoggio i palestinesi avrebbero potuto contare sono stati smantellati (Iraq, Libia, Sudan) o trascinati nel baratro di crisi infinite (Tunisia, Siria, Libano) o fortemente indeboliti (Egitto), grazie alla distruzione creativa del Medio Oriente (operata dalle bombe di Clinton e Bush e il deturnement obamiano delle primavere arabe).

Gli accordi di Abramo erano anche diretti contro l’Iran, bestia nera dell’imperialismo nella regione. Con gli accordi si profilava un’alleanza tra Israele e paesi arabi in funzione anti-Iran. L’Iran ha reagito, da un lato approfondendo la sua posizione anti-Israele, lavorando, soprattutto grazie a Soleimani, alla costruzione dell’Asse della resistenza, e, dall’altro, cercando, e trovando, sempre più sponda in Russia e Cina fino all’adesione ai Brics e alla ripresa di rapporti non conflittuali con l’Arabia Saudita. I palestinesi possono, almeno sulla carta e nelle dichiarazioni politiche (ma anche nei finanziamenti e nel supporto militare) contare su questo asse (Hamas s’era inizialmente schierata contro Assad in Siria sperando di guadagnarsi meriti presso gli Usa, per poi doversi ricredere ed entrare nell’Asse). Oggi, perciò, era divenuto urgente bloccare il processo di isolamento nel momento in cui, almeno sulla carta, si hanno degli alleati che, alla bisogna, potrebbero impegnare Israele in appoggio alla resistenza palestinese.

2. Una lunga crisi politica all’interno di Israele che si somma (ed è anche effetto) all’indebolirsi della determinazione al combattimento da parte di una società israeliana che è molto mutata dagli anni eroici in cui tutti abbracciavano quotidianamente un fucile ed erano pronti a utilizzarlo in ogni momento. Ora, una parte degli israeliani è persino più radicalizzata di allora (i coloni, sostenuti da un’ideologia religiosa per giustificare la presa di possesso di tutta la Palestina e di espulsione di tutti i goyim), un’altra parte continua a essere pienamente complice dell’oppressione dei palestinesi, anche perché è l’unica base su cui può fondarsi l’esistenza di una società ricca e potente da cui derivare i propri privilegi sociali, economici, di divertimento, ecc., ma aspirerebbe a vivere finalmente in pace, a non essere continuamente armati e in guerra. Quando i palestinesi rialzano la testa entrambe le parti non esitano a esigere la loro brutale repressione armata, ma la domanda è: difronte a una lunga guerra quanto resisterebbe questa unità? Si può discutere su questo, ma, non c’è dubbio sul fatto che la resistenza palestinese abbia valutato anche questa (momentanea?) debolezza interna di Israele per scegliere il tipo di azione e il momento in cui metterla in atto.

3. Lo schieramento politico-finanziario-militare che fornisce a Israele il proprio sostegno (senza del quale, come ha detto Erdogan, Israele scomparirebbe in tre giorni) sta subendo una sempre più evidente sconfitta nella guerra contro la Russia (almeno in questa fase della guerra, destinata sicuramente a durare anche nel caso in cui la Russia conseguisse tutti i suoi obiettivi in Ucraina). Perciò vive un momento di difficoltà politiche e militari. Inoltre, ciò crea la possibilità che questa volta, ci sia una reazione diversa da parte della Russia, finora estremamente morbida (se non peggio…) e concessiva con Israele.

4. Non solo l’Occidente sta subendo quella sconfitta, ma dal resto del mondo si moltiplicano i segnali di ribellione alla stabilità fondata sui suoi interessi economici, finanziari, monetari, politici, culturali, ecc. Mettere all’ordine del giorno la questione palestinese potrebbe, quindi, suscitare un appoggio maggiore da parte dei paesi che già stanno prendendo le distanze dagli sponsor di Israele, e che potrebbero essere sollecitati a prendere le distanze anche da Israele con un più aperto favore verso i palestinesi.

 

Obiettivi conseguiti e reazioni scatenate

L’operazione militare del 7 ottobre ha già conseguito alcuni risultati importanti:

1. ha rimesso all’ordine del giorno la questione palestinese agli occhi del mondo e, soprattutto, degli arabi e tutti gli islamici;

2. ha inferto un duro colpo al potere di deterrenza di Israele, dimostrando che può subire sconfitte anche da parte di formazioni militari con scarse dotazioni di scarse armi e impossibilità persino di addestrare liberamente i propri combattenti;

3. ha costretto gli Usa e i loro alleati a schierarsi apertamente con Israele, dismettendo ogni pretesa di essere neutrali nei conflitti israelo-palestinesi e israelo-arabi;

4. ha costretto il resto del mondo ad assumere posizioni sempre più apertamente filo-palestinesi, anti-israeliane e anti-occidentali, accrescendo, per converso, il prestigio di tutta quella parte di mondo che già ha ingaggiato con l’Occidente dei propri conflitti.

L’aspetto terribilmente drammatico è che per conseguire questi obiettivi, che non sono la soluzione, ma semplici premesse che contengono, in potenza e non in certezza, la possibilità di avviare un percorso che porti alla soluzione del problema palestinese, i morti palestinesi debbano contarsi a migliaia. Ma anche in questo, però, va onestamente colta una differenza tra il semplice dolore per la sorte delle loro vite e la rabbia che invece va crescendo tra le masse arabe e islamiche. Questa rabbia contiene oggi anche una speranza, quella di poter finalmente sconfiggere quel mostro onnipotente che sembrava essere il dispositivo militare israeliano, come l’azione del 7 ottobre ha mostrato e come fa sognare il fatto che potenze emergenti, come Russia e Cina, nonché parti crescenti del resto del mondo si schierino sempre più apertamente dal lato dei palestinesi. Su questo aspetto vede bene https://comedonchisciotte.org/la-lotta-palestinese-ci-crea-imbarazzo-noi-popolo-zombie-occidentale-non-riusciamo-a-comprenderla/ quando nota che la resistenza vincente della sfigata Russia alla Nato sta suscitando una ripresa alla determinazione a lottare contro l’oppressione e lo sfruttamento da parte delle masse diseredate del mondo saccheggiato dall’imperialismo.

L’obiettivo che plausibilmente la resistenza palestinese si pone ora è quello di continuare a resistere, costringendo Israele a una lunga guerra che potrebbe provocarne il logoramento sul piano militare, politico, economico, di consenso interno e internazionale. Meglio, ovviamente, se entrassero in azione anche altri gruppi militari in grado di impegnare Israele su altri fronti.

L’obiettivo che si pone Israele è di condurre un’aggressione potente, veloce e altamente distruttiva, che ripristini la sua onnipotenza militare, e che realizzi subito o compia un primo decisivo passo per la completa espulsione dei palestinesi da Gaza, e, in prospettiva ravvicinata, anche dalla Cisgiordania dove aumentano le azioni violente dei coloni e dell’esercito, mentre l’ANP di Abu Mazen provvede a reprimere i palestinesi che vi si oppongono o solidarizzano con la resistenza di Gaza. Con ciò ripristinerebbe la sua deterrenza a fronte di tutto l’ambiente che lo circonda, e dissolverebbe la questione palestinese per sempre, allo stesso mondo in cui il colonialismo europeo ha dissolto la questione dei nativi in Usa, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Questo ambiente gli diverrebbe ancora più ostile, ma il nuovo senso di sconfitta diffuso tra le masse arabe potrebbe, col tempo, e con l’aiuto della potenza complessiva dell’imperialismo permettere di ripristinare la trama di rapporti con i governi (che, peraltro, non li hanno abbandonati neanche difronte al massacro in atto...) e stabilire finalmente Israele sulla cima di una nuova stabilità politica , economica e militare dell’intera area.

Israele ha il pieno appoggio degli Usa e di tutti i paesi imperialisti, che, ora più che mai, non possono rinunciare al loro avamposto in Medio Oriente, quanto mai necessario anche per interrompere la tendenza che si è aperta, con l’aiuto di Cina e Russia, a pacificare i rapporti tra i vari paesi per promuovere il loro sviluppo. Ciò è inaccettabile per l’imperialismo in quanto provocherebbe una revisione della sottomissione politica, economica e finanziaria ai propri interessi, che prevedono nella regione un unico paese sviluppato, Israele, economicamente e militarmente dominante su un insieme di paesi compressi nel sottosviluppo, e perciò frammentati, in guerra tra loro e con stati deboli, facilmente manovrabili, e, per questo, costretti a dipendere dalla svendita delle risorse energetiche minerali, almeno fino a quando non si realizzerà l’abbandono di esse con la transizione verde, che, a sua volta, renderebbe ancora più improbabile, in quanto più costoso, lo sviluppo di quei paesi (e di tutti quelli sotto-sviluppati). Per questo hanno fatto un salto nella loro presenza militare schierando navi, aerei, missili e truppe per difendere l’azione di Israele, minacciando l’intervento diretto contro chiunque volesse unire la sua forza militare alla resistenza palestinese. Con ciò, è vero, hanno perso ogni ruolo di neutralità e svelato definitivamente il loro ruolo di parte, approfondendo ancora di più l’ostilità delle masse arabe e islamiche (e africane, asiatiche, sudamericane…) contro tutto l’Occidente collettivo, ma ciò rientra, ormai, in una tendenza inevitabile per cercare di conservare il dominio ricorrendo sempre di più ad azioni coercitive (sanzioni, ricatti, ostacoli di ogni natura) e di crescentemente esplicite minacce militari.

L’operazione militare della resistenza palestinese Tempesta di Al Aqsa fa, quindi, molto conto sulla solidarietà e l’appoggio internazionale, a partire dalle masse arabe e islamiche, e sul fatto di inserirsi in un moto generale di buona parte del mondo a limare le unghie (non certo a distruggerlo) del dominio imperialista, che mai come ora sembra un obiettivo a portata di mano avendo l’appoggio di potenze emergenti come Russia e Cina. E non potrebbe essere diversamente: nessuno con un minimo di intelligenza potrebbe mai pensare che i soli palestinesi possano mai sconfiggere Israele con i suoi potenti angeli protettori. La domanda è, perciò: otterranno davvero questo appoggio?

 

Sostegno internazionale

Qui si apre un capitolo che allungherebbe troppo questo scritto. Tocca ridurlo all’osso, scontando qualche semplificazione.

Vanno emergendo sullo scenario mondiale due schieramenti. Secondo i paesi imperialisti, auto-definentesi le democrazie, contro di essi si ergono i nuovi imperialismi russo e cinese. Di nuovi imperialismi parlano anche i molti sinistrati adusi a criticare a parole l’imperialismo, salvo condividerne tutti i nemici (Gheddafi, Assad, gli ayatollah, Putin, ecc.) e buona parte degli obiettivi (pandemia, vaccini, green pass, transizione verde, identità di genere, neutralità della scienza e della tecnologia, ecc.), naturalmente con argomentazioni genuinamente indipendenti... Siamo davvero davanti al banale ripetersi del 1914, quando le potenze imperialiste si contendevano la spartizione del mondo, oppure a qualcosa di diverso e di molto più profondo?

La tendenza che si sta sviluppando oggi a creare uno schieramento che si auto-denomina multi-polarista scaturisce dalla necessità dell’intero mondo costretto finora nel sotto-sviluppo o (come Cina e Russia) nel semi-sviluppo condizionato a pro dei profitti e degli extra-profitti imperialistici, a esigere, per motivi strutturali non più rinviabili, il proprio pieno diritto allo sviluppo, che può essere conseguito solo con la libera acquisizione e uso delle forze produttive moderne indispensabili per fondarlo. Alla sua testa si collocano stati, partiti e personaggi che aspirano a rendere i propri paesi capitalisticamente più forti, e perciò meno dipendenti e condizionati, ma le loro politiche meno acquiescenti nei confronti dell’imperialismo risentono della forte pressione di enormi masse stanche di doversi confrontare con la miseria e l’oppressione in un mondo che dispone ormai di forze produttive che potrebbero fornire a tutti il necessario benessere.

Le intenzioni degli stati e dei governi multi-polaristi è di procedere a piccoli passi, pacifici e progressivi, verso una revisione dell’ordine mondiale, accrescendo le forze fino al punto di poter esercitare una sorta di moral suasion sull’imperialismo affinché si adegui alla nuova realtà e rinunci pacificamente ai suoi privilegi. Ciò comporta, da un lato, la promessa alle proprie popolazioni, soprattutto alle classi sfruttate, di miglioramenti delle condizioni di vita, derivanti dalla revisione dell’ordine mondiale, ma, dall’altro, l’invito a rimanere in una condizione di passività politica, a fidarsi del proprio stato e ad attivarsi solo quando esso lo ritiene opportuno e nelle modalità da esso decise. Per le masse questo piano risulta accettabile. Esso si fa carico di una loro precisa rivendicazione e lo fa con modalità che sembrano consentire il minimo sforzo di attività o, peggio, di auto-attivizzazione. Se esso potesse realizzarsi fino in fondo per le masse sarebbe una cuccagna. Ma si può realizzare con queste modalità? L’imperialismo può rinunciare ai suoi extra-profitti, al suo dominio nello sviluppo e nel possesso delle forze produttive avanzate, al suo strapotere finanziario, al suo dominio in tutti i campi, grazie alla crescente moral suasion delle sue vittime? Sicuramente no, e lo si vede con lo sviluppo di ricatti, minacce militari, sanzioni, guerre per procura, guerre civili fomentate in ogni dove, ecc. Fino a quando, perciò, le masse potranno lasciare le proprie aspirazioni nelle mani di questa strategia dei propri stati? Fino a quando potranno rinunciare alla propria auto-attività per conseguire davvero la distruzione dell’oppressione imperialista?

La Palestina è un test drammatico di questo dilemma. Essa è veramente il cuore del mondo. Lì si sta svolgendo la lotta contro il colonialismo israeliano che richiama in piccolo il colonialismo imperialista che opprime grande parte del mondo. È anche per questo significato politico altamente simbolico che l’imperialismo non può rinunciare a schiacciare i palestinesi e consolidare il ruolo colonialista di Israele, essenziale per consolidare la presa imperialista sull’intera regione, fondamentale per le sorti del dominio imperialista sull’intero mondo. Le sue truppe sono lì per dimostrare la determinazione a ingaggiare una guerra devastante contro qualunque soggetto provi a intervenire in sostegno dei palestinesi. Se Houthi, Hezbollah, milizie irachene alzassero il livello della loro attività, le armate della Nato non esiterebbero a colpirle, sia pure a debita distanza (le portaerei Usa stazionano a distanza di sicurezza dai missili di Hezbollah, probabilmente in grado di affondarne qualcuna). A quel punto l’Iran difficilmente potrebbe sottrarsi a intervenire a sua volta. Se non lo facesse, infatti, si piegherebbe a una dura sconfitta politica. Se la Nato, a sua volta, intervenisse contro l’Iran, Cina e Russia potrebbero assistere inermi a una sua sconfitta? Insomma, il rischio di un conflitto globale è davvero alto. D’altronde anche un conflitto limitato tra Iran e Israele potrebbe facilmente degenerare in conflitto nucleare, con le bombe atomiche di Israele e la capacità iraniana di colpire i siti nucleari di Dimona.

Usa & Co. puntano sul fatto che Iran, Russia e Cina eviterebbero di superare la soglia del rischio del conflitto generalizzato, ma questo potrebbe rivelarsi un azzardo e la guerra che ne conseguirebbe non necessariamente volgerebbe a vantaggio della Nato, ciò che hanno capito anche i (rari) circoli realisti di Washington dopo le brucianti lezioni ricevute da una Russia che ha dimostrato superiorità militare (qualità e quantità di armi, ma anche di strategia e tattiche), solidità economica, stabilità del consenso interno e capacità di intrecciare una rete di sostegno internazionale. L’imperialismo ha bisogno, dunque, di più tempo per riorganizzare le sue forze (cercando, nel contempo, di frazionare lo schieramento avverso) prima di affrontare una guerra globale, mentre Russia e Cina, a loro volta, non hanno alcun interesse a interrompere, con un conflitto globale, la loro lenta ma costante crescita e lo sviluppo di un fronte sempre più ampio di paesi attratti dalle prospettive di sviluppo che potrebbero scaturire dalla revisione dell’ordine mondiale.

Da questa duplice empasse potrebbe, alla fine, generarsi un compromesso sul conflitto israelo-palestinese.

 

Compromessi?

Qualunque compromesso per essere accettato da imperialismo e Israele dovrebbe perpetuare la presenza colonialista di Israele, e, perciò, la sua primazia complessiva rispetto al resto dei paesi circondari e, soprattutto, la sua libertà nel rapinare i palestinesi e opprimerne la resistenza. Infatti, Israele ha, dopo il colpo del 7 ottobre, l’assoluta necessità di ripristinare in pieno la sua deterrenza, non può accontentarsi di nulla di meno di una bruciante sconfitta della resistenza palestinese, meglio se accompagnata dalla soluzione finale ai danni di tutto il popolo palestinese. Il mancato conseguimento di una piena vittoria esporrebbe Israele a una crisi del suo ruolo nella regione e persino a una crisi interna (un compromesso che, per esempio, prevedesse il blocco degli insediamenti e addirittura il loro anche parziale smantellamento, potrebbe apparire accettabile a una parte degli israeliani, ma sarebbe inaccettabile alla molto influente e determinata parte dei coloni e di chi l’appoggia, dal che il rischio di una vera e propria guerra civile interna). La sua deterrenza, tuttavia, verrebbe ripristinata solo grazie all’aiuto diretto della Nato, quindi, in realtà, una deterrenza inferiore e condizionata rispetto a quella precedente, in cui il ruolo dei suoi alleati, pur fondamentale, era più defilato.

Per i palestinesi potrebbe esserci, forse, la fine del genocidio in corso, sempre che il compromesso fosse raggiunto prima del suo esito finale, e una rinnovata promessa dei due stati, da conseguire con nuove interminabili negoziazioni. La loro questione nazionale rimarrebbe irrisolta, i pochi territori da loro abitati continuerebbero a essere dominati da Israele, i rifugiati resterebbero nella permanente attesa di ritorno confinati in campi sparsi ovunque, e, soprattutto, continuerebbe il tremendo squilibrio di forze tra loro e Israele che, al mutare degli equilibri internazionali a favore dell’imperialismo, potrebbe tranquillamente riprendere e portare a termine l’opera di pulizia etnica ai loro danni.

Qualunque compromesso comporta, insomma, che i palestinesi continuino a essere soggiogati.

I palestinesi possono salvarsi da questa devastante prospettiva, perciò, solo con una vera escalation del conflitto, da un pieno coinvolgimento nella guerra a loro fianco degli arabi, degli islamici, dell’Iran, e, dietro di essi, di Russia e Cina. Ognuno degli stati teoricamente coinvolgibili si guarderebbe bene dal finire in un conflitto dagli esiti incerti. Cosa può smuoverli? Solo la mobilitazione delle masse. Il ruolo di questa è, perciò, decisivo. La sorte dei palestinesi è nelle mani di tutte le masse arabe, islamiche, e del resto del mondo che simpatizzano per la loro causa. Nella loro determinazione a premere sui propri stati per intervenire attivamente, e nella loro determinazione a provocare una crisi dei propri stati nel caso si rifiutassero di farlo.

Lo stesso dilemma nel rapporto tra le aspirazioni delle masse e i propri stati si propone per la questione più generale, che fa da sfondo a quella palestinese, ovvero il riequilibrio economico a favore dei paesi bloccati nel loro sviluppo da parte di chi detiene le leve di comando economico, finanziario, politico e militare sui mercati mondiali. Nessuna moral suasion potrà convincere l’imperialismo a rinunciare neanche a una piccola quota degli extra-profitti che lucra dal suo dominio. Pur di non perderlo è pronto a scatenare (e sta già scatenando) tutti i mezzi che possiede per bloccare sul nascere ogni tendenza revisionista della gerarchia mondiale di potenza e della divisione internazionale del lavoro a sua esclusiva convenienza, fino al punto di trascinare il mondo in un nuovo conflitto mondiale degli esiti potenzialmente distruttivi della vita sul pianeta. Il tentativo di promuovere la riforma con le buone maniere è destinato a sicuro fallimento e se le masse più o meno (come quelle russe e cinesi) diseredate non vorranno (o non potranno…) abbandonare la lotta, dovranno necessariamente abbandonare la fiducia nei propri stati e fare un salto deciso nella propria auto-attivizzazione.

Sì, la Palestina è il cuore del mondo, di uno scontro destinato ad allargarsi e che è, in ultima istanza, generato dal bisogno sempre più impellente delle classi sfruttate, di popoli oppressi, di paesi trasformati in stati falliti, di conseguire il loro diritto a disporre delle forze produttive necessarie al proprio sviluppo, che gli vengono negate da chi le possiede in forza della dimensione dei suoi capitali, della sua finanza, degli apparati militari, del potere dispotico di controllo dei mercati mondiali, ecc. Il ruolo della mobilitazione delle masse diviene, perciò, sempre più decisivo. I palestinesi non possono che augurarsi che questo avvenga il più in fretta possibile, pena soccombere sotto il cappio o sotto la ghigliottina che è l’unica destinazione loro riservata dall’imperialismo.

In teoria un ruolo ugualmente decisivo potrebbe essere svolto dalle classi sfruttate dei paesi imperialisti, la cui mobilitazione potrebbe fermare o indebolire la politica d’oppressione dei propri stati. Ma ciò, al momento, non accade ed è inutile aspettarsi continuamente che stia sul punto di accadere. Le classi sfruttate dei paesi imperialisti, pur provando disgusto per le angherie ai danni dei palestinesi, non muovono un dito per trasformare il disgusto in protesta attiva. Troppe e troppo forti sono le co-interessenze tra sfruttamento imperialistico e condizioni materiali delle classi sfruttate. Non della sola aristocrazia operaia, ma dell’insieme delle classi sfruttate, perché, per esempio, c’è una bella differenza tra essere disoccupato in Italia ed esserlo in Bangladesh o nella stessa Cina. E questa differenza è dovuta proprio al fatto che i paesi imperialisti sottraggono agli altri una massa di valore che gli consente ancora di finanziare un insieme di condizioni che rendono più accettabile la situazione di sfruttamento al loro interno, o che la rendono almeno più accettabile che nel resto del mondo.

Su questo si dovrebbe aprire un lungo capitolo, perché non è che tutto vada bene per l’imperialismo, da una crisi economica irrisolta (la cui ri-esplosione fragorosa può essere sedata solo con nuove gigantesche iniezioni di moneta da parte delle banche centrali), alla difficoltà di attuare una serie di piani, come quelli maturati con la pandemia (per esempio, tutto il mondo aspira alla digitalizzazione ma non è più sicuro che questa avanzerà alle condizioni e con i profitti delle sole multinazionali imperialiste, come pura avanza il processo alla moneta digitale, ma … si allontana la possibilità che possa essere unica a livello mondiale e saldamente controllata dalle capitali finanziarie occidentali, solo la dittatura mondiale in tema pandemico propugnata dall’Oms sembra ancora nella possibilità di avverarsi), alla necessità di dover ricorrere a emergenze continue e a quella di realizzare una società del controllo asfissiante proprio per prevenire e reprimere possibili rivolte, ecc. Ma quel che conta, in questa sede, è sapere che nulla di serio verrà, in questo momento, da parte delle classi sfruttate, in quanto classi, per fermare la mano assassina dei propri stati e dei loro proxy, e le pur meritevoli azioni di boicottaggio di nuclei di portuali e le azioni di protesta di alcuni sindacati in vari paesi non cambiano, purtroppo, questo quadro generale.

Ciò non toglie che una quantità crescente di individui possa trasformare la propria indignazione in protesta e in sostegno aperto alla lotta dei palestinesi, come in parte sta avvenendo nelle piazze occidentali (anche se finora sono piene soprattutto di palestinesi, arabi e islamici). Anche questo potrebbe essere di grande utilità nel conflitto in atto, per farlo pendere contro Israele e l’imperialismo e per inserire dei granelli di sabbia nel vorticoso meccanismo di oppressione e aggressione armata contro i palestinesi.

Questo è l’unico terreno su cui è urgente, qui in Occidente, apportare il massimo contributo. Per far crescere la mobilitazione e per cercare di fare emergere con chiarezza la posta in gioco, cioè che la natura del conflitto è la resistenza dell’intero popolo palestinese al colonialismo imperialista che vuole sottrargli ogni briciolo di terra, piegarlo ed espellerlo, utilizzando tutti i mezzi a disposizione, compreso il sistematico terrorismo dello stato israeliano, per conservare il pieno dominio su tutta la regione e l’intero mondo.

Ai palestinesi non vanno impartite lezioni su come e cosa dovrebbero fare per resistere, ma va data, mai come ora, piena e incondizionata solidarietà.

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