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sebastianoisaia

La classe impossibile secondo Nietzsche – e secondo Marx

di Sebastiano Isaia

fnLa “dignità del lavoro” è uno dei più stolti
vaneggiamenti moderni. È un sogno di schiavi.
E questa necessità sfibrante della vita, che si
chiama lavoro, dovrebbe essere “dignitosa”?
(F. Nietzsche).

La dignità dell’uomo e la dignità del lavoro, sono
i miseri prodotti di una schiavitù che vuole
nascondersi a sé stessa (F. Nietzsche).

L’aforisma 206 di Aurora, il saggio pubblicato da Friedrich Nietzsche nel 1881, ha per titolo La classe impossibile. A quale classe sociale si riferisce l’autore, e perché la considera impossibile? Per avere una prima risposta non dobbiamo fare altro che leggere i suggestivi passi che seguono: «Povero, lieto e indipendente! – queste cose insieme sono possibili; povero, lieto e schiavo! – anche queste sono possibili, – e agli operai, della schiavitù della fabbrica, non saprei dire niente di meglio, posto che essi non avvertano in generale come un’infamia, il venir adoperati in tal modo, ed è quel che accade, come ingranaggi di una macchina e, per così dire, come tappabuchi dell’umana arte dell’invenzione!» (1). La classe impossibile di cui parla Nietzsche è dunque quella operaia, e, per essere ancor più precisi, si tratta della classe operaia del Vecchio Continente: «Gli operai in Europa d’ora innanzi dovrebbero dichiararsi come classe un’impossibilità umana». E come singoliindividui? Il tema non è sviluppato dall’autore e certamente non intende approfondirlo chi scrive, ma semplicemente sfiorarlo. Tra poco vedremo che la specificazione geosociale della nietzschiana “questione operaia” ha un preciso significato – e d’altra parte allora solo l’Europa vantava una forte, moderna e politicamente organizzata classe operaia.

Come abbiamo visto, nell’aforisma in oggetto Nietzsche parla degli operai in termini che, almeno in apparenza, ricordano molto da vicino Karl Marx, dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 in poi. E qui forse ha un senso anche ricordare che quando il filosofo di Röcken parla, in generale, di “socialismo” e di “sovversivismo” egli si riferisce al “socialismo” e al “sovversivismo” che nulla a che fare hanno con il comunista di Treviri, mentre invece molto a che vedere hanno con il «socialismo piccolo-borghese» di Proudhon, il «socialismo di Stato» di Lassalle (2) e l’anarchismo di Bakunin (3), ossia con tutte quelle posizioni politico-ideologiche che Marx si trovò a combattere sul terreno politico e dottrinario. Non bisogna peraltro sottovalutare il notevole influsso che Richard Wagner (4) ebbe sul giovane Nietzsche, ed è probabilmente dal primo che il secondo trasse molte informazioni intorno al “comunismo”, al “socialismo” e al “materialismo”, nonché dalla lettura (1868) della Storia del materialismo di F. Lange. È molto probabile che Nietzsche «non ha mai letto neppure una riga di Marx e di Engels» (5). Ma ritorniamo all’aforisma 206.

In che senso per il nostro filosofo gli operai europei danno corpo a una «classe impossibile»? Leggiamo: «Puah! Credere che attraverso un salario più elevato possa essere cancellata la sostanza della loro miseria, cioè la loro condizione di impersonale asservimento. Puah! Lasciarsi convincere che attraverso un potenziamento di questa impersonalità si possa, all’interno del congegno meccanico di una nuova società, trasformare in virtù l’infamia della schiavitù! Puah! Avere un prezzo, per il quale non si è più persone, ma si diventa ingranaggi […] nell’attuale follia delle nazioni che vogliono anzitutto produrre il più possibile ed essere il più possibile ricche». Qui l’accostamento di Nietzsche a Marx appare ancora più giustificato – e “imbarazzante”…

Com’è noto, per Marx la “questione operaia” non ha al suo centro il livello (alto, medio, basso) del salario, ma la stessa natura salariale (cioè capitalistica) del lavoro, ed è in questo peculiare senso che quella operaia è una questione sociale generale nell’accezione più radicale del concetto, in quanto essa chiama in causa il rapporto sociale di produzione che rende possibile la società capitalistica. «Il salario reale può rimanere immutato, anzi può anche aumentare, e ciò nonostante il salario relativo può diminuire. […] Quantunque l’operaio disponga di una maggiore quantità di merci che non prima, il suo salario però è diminuito in rapporto al guadagno del capitalista. […] Se dunque con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale. […] La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (6). Cosa fondamentale, ad «avere un prezzo» non è semplicemente il lavoro, ossia la peculiare capacità lavorativa che il lavoratore aliena in cambio di un salario, ma l’intera esistenza del lavoratore («La forza-lavoro di un uomo consiste unicamente nella sua personalità vivente», osserva Marx), e questo Nietzsche sembra quantomeno intuirlo: «non si è più persone, ma si diventa ingranaggi». Partendo da diverse e opposte posizioni concettuali e politiche (anche se parlare di politica nel caso del filosofo che ci occupa è alquanto forzato), Marx e Nietzsche riaffermano il carattere maledetto del lavoro, e provano a destrutturare e demistificare il pensiero (sia religioso che laico) che nel corso dei secoli ha cercato di inserire il lavoro (sfruttato) nella dimensione dell’eticità. Il lavoro come l’attività che più delle altre conferisce dignità alla vita delle persone: questa è oggi una credenza condivisa pressoché da tutti, e chi prova a svelarne il contenuto disumano e ultrareazionario, finisce inevitabilmente per passare come il solito personaggio eccentrico che non riesce a far pace con la realtà – con la sola realtà considerata possibile. Essere eccentrici in questa epoca storica che ha come suo centro il dominio capitalistico, è certamente molto rischioso ma anche molto stimolante dal punto di vista intellettuale, emotivo e psicologico.

«Un apologista classico del lavoro fu nell’ultimo decennio del secolo Emile Zola, che proclamò in un discorso: «Io ebbi un’unica fede, un’unica forza: il lavoro. Mi sostenni soltanto con l’enorme lavoro impostomi. […] Lavoro! Tenete presente, signori, che esso costituisce l’unica legge del mondo. La vita non ha alcun altro scopo, alcuna altra ragione di esistenza, e noi tutti nasciamo soltanto per dare il contributo nella nostra parte di lavoro e per poi scomparire» (7). Il lavoro come fine in sé, non come mezzo. Senza considerare l’indifferenza per la natura sociale di questo lavoro, concepito come una vera e propria religione, come una missione – e un’ossessione. Quando si dice un cattivo maestro! Un maestro affetto da “cineseria intellettuale”, avrebbe chiosato Nietzsche. Scrive Karl Löwith: «Soltanto spiriti rari come Nietzsche e Tolstoj hanno riconosciuto il falso pathos e l’implicito nichilismo che caratterizzano questa valutazione del lavoro» (8).

Nietzsche spregiava con tutte le sue forze la “religione del lavoro” che si era affermata negli Stati Uniti: «La loro frenesia di lavoro – il vero vizio del Nuovo Mondo – comincia già per contagio a inselvatichire l’Europa e a diffonder su di essa una straordinaria ottusità. Già ci si vergogna di riposare; quasi si prova rimorso per una meditazione un po’ lunga. Si pensa con l’orologio alla mano, come si mangia a mezzogiorno con gli occhi sul bollettino della borsa, si vive come se si temesse continuamente di “perdere” un affare. “Meglio fare una cosa qualsiasi che nulla”. Anche questo principio è una corda che può servire ad ammazzare cultura e gusto. E come davanti a questa frenesia di lavoro manifestamente periscono tutte le forme, così vanno alla malora anche il sentimento della forma e l’orecchio e l’occhio per afferrare la melodia dei movimenti. […]La caccia del guadagno costringe continuamente l’intelligenza a spremersi fino all’esaurimento, in un perpetuo dissimularsi o ingannare o prevenire gli altri: adesso la vera virtù consiste nel far qualche cosa in minor tempo che un altro. […] Se vi è ancora un piacere alla vita socievole e alle arti, è il piacere che si procurano gli schiavi morti di fatica» (9). Sul fondamento di questa stanchezza esistenziale è sorta una floridissima industria del cosiddetto tempo libero: cultura, arte, intrattenimento, turismo, e quant’altro ristori e titilli il corpo e la mente, e tutto rigorosamente e orgogliosamente di massa: com’è bella la democrazia capitalistica! La polemica antiamericana Nietzschiana avrà molto e duraturo successo tanto a “destra” quanto a “sinistra”.

«Ebbene; una volta era il contrario: era il lavoro che dava rimorso. Un uomo ben nato nascondeva il suo lavoro se la miseria lo costringeva a lavorare. Lo schiavo lavorava oppresso dalla convinzione di far qualche cosa di spregevole… “Fare” era già per se stesso spregevole. “Non vi è nobiltà e onore che nell’ozio e nella guerra”: suonava la voce del pregiudizio antico!» (10). Forse non sbagliamo di molto se affermiamo che il cuore di Nietzsche si riscaldava al suono di quel «pregiudizio antico».

Per Nietzsche «l’abisso tra uomo e uomo, classe sociale e classe sociale […], ciò che io chiamo pathos della distanza, è proprio di ogni epoca forte» (11). L’epoca borghese è un’epoca debole, secondo il filosofo della distanza, perché essa concede troppo spazio a idee egualitarie e a pratiche sociali di stampo “democratiste” che tendono a eliminare le differenze: «gli estremi stessi si cancellano sino a somigliarsi». Di qui, la sua polemica nei confronti del cristianesimo («Siamo uguali al cospetto di Dio e lo saremo nel Regno dei Cieli») e del socialismo egualitario, entrambi espressioni del «movimento di décadence» – «Indipendentemente dal fatto che io stesso sono un décadent, sono anche il suo contrario» (12). La prospettiva dalla quale Nietzsche osservava la società del suo tempo non gli consentiva di vedere, dietro la giustamente criticata massificazione ideale, morale e psicologica degli individui, «l’abisso sociale» di cui parlava Marx come fondamento oggettivo della riduzione degli individui a una sola dimensione, per dirla con Marcuse (13), quella che li rende abili alla vita nella società capitalistica.

Dalla sua prospettiva, aristocratica (14) sul piano dell’interpretazione storica e filosofica dei fatti, come su quello della loro ricezione etica, Nietzsche non concepiva nemmeno nei termini di una mera ipotesi la possibilità di una società che non fosse fondata sull’asservimento di una classe dedicata al nutrimento dei padroni, degli artisti e degli uomini valorosi preposti alla difesa dell’ordine costituito, e quindi invitava gli operai europei a non prestare orecchio al «piffero dei socialisti acchiappatopi, che vi vogliono eccitare con assurde speranze, che vi ordinano di essere pronti e niente altro che questo, pronti dall’oggi al domani, cosicché non facciate altro che aspettare qualcosa dall’esterno, e per il resto viviate come avete sempre vissuto, […] in attesa che alla fine sorga il giorno della bestia triumphans». Anche qui il Nostro presta, suo malgrado, la penna alla verità: la classe subalterna non deve aspettare nessuno, e deve piuttosto farsi essa stessa speranza e promessa di un futuro a misura d’umanità. Per dirla in termini marxiani, il proletariato deve costituirsi in classe indipendente sul piano politico: «L’emancipazione del proletariato deve essere opera dello stesso proletariato».

Per il filosofo tedesco la generalizzazione della condizione operaia a tutta l’umanità, come auspicavano i livellatori socialisti e le utopie social-cristiane del suo tempo («Tutti poveri e fratelli in Dio»), era una prospettiva che bisognava evitare a ogni costo, e anche in questo aveva, a mio avviso, perfettamente ragione. Ecco perché Nietzsche reagì con ironico sarcasmo al messaggio che l’Imperatore Guglielmo I inviò al Reichstag nel 1881, nel quale questi affermava: «Siamo tutti lavoratori!»: «Come anche il più pigro di noi è adesso vicino al lavoro e all’operaio! La gentilezza regale che si trova nelle parole: “Siamo tutti operai!” sotto Luigi XIV sarebbe stata cinismo e mancanza di decoro» (15).

Com’è noto, per Marx il capitalismo aveva avuto una funzione storicamente rivoluzionaria e progressiva proprio perché aveva creato per la prima volta nella storia le condizioni materiali (ossia le premesse oggettive) per fare uscire l’umanità da una dimensione esistenziale fatta di sfruttamento, di dominio, di violenza, di miseria, di crisi economiche e sociali. Noi purtroppo ci troviamo ancora immersi, anzi: sempre più immersi, in questa pessima dimensione. Lungi dal voler “livellare” la condizione degli esseri umani, per Marx si trattativa piuttosto di elevare l’umanità al suo più alto e autentico concetto, e per questo egli sostenne che il comunismo praticato in una società economicamente e socialmente non sviluppata avrebbe, presto o tardi, riprodotto «la vecchia merda borghese», in una sorta di coazione a ripetere del dominio (16).

Detto en passant, anche in rapporto a Sigmund Freud Nietzsche mostra di saperla assai più lunga circa la genealogia della morale e dei costumi (a cominciare da quelli connessi alla sessualità) attraverso la domesticazione degli istinti – mentre esibisce un eccesso di biologismo e di arcaismo antropologico (probabilmente ripreso da Carl Gustav Jung) a proposito della «Logica del sogno» (17). Mi scuso per la divagazione “psicologica”.

Sto forse cercando di insinuare che Nietzsche e Marx si davano la mano? Tutt’altro! Intendo semplicemente dire che la lancia critica nietzschiana penetra facilmente nella carne dei livellatori socialisti, in quella dei credenti nel cristianesimo delle origini e di tutti i “buonisti“ e i moralisti del XIX secolo (e dei secoli successivi!), ma che si spezza miseramente contro il pensiero critico-rivoluzionario di Marx.

A questo punto del discorso la posizione nietzschiana ci appare alquanto contraddittoria, almeno per come ho cercato di delinearla fin qui: per un verso il filosofo-psicologo non immagina possibile l’emancipazione degli operai (europei) attraverso l’emancipazione dell’intera umanità (insomma, Nietzsche non è Marx, e questo lo abbiamo ampiamente documentato!), e per altro verso egli si augura che questi stessi operai mettano fine alla loro condizione infamante e disumanizzante. Vediamo come il Nostro cerca di sciogliere la contraddizione: «Ognuno [ogni operaio] dovrebbe pensare dentro di sé: “Meglio emigrare, in selvagge e fresche regioni del mondo cercar di divenir padrone e, soprattutto, padrone di me stesso, […] purché finisca questa indecente condizione di schiavitù”» (18). Qui sembra che la soluzione nietzschiana abbia un carattere “individualista”, ma probabilmente non è così, o non è semplicemente così.

Se abbiamo capito bene, Nietzsche invita gli operai europei a un esodo, come quello che vide gli ebrei abbandonare l’Egitto dei faraoni; in realtà egli pensa a un processo di colonizzazione come quello che travagliò la sua tanto amata Grecia Antica; pensa infatti a «entusiaste spedizioni di colonizzatori». Ogni rimando al colonialismo e all’imperialismo ottocentesco qui sarebbe del tutto fuori luogo, di più: sarebbe semplicemente ridicolo. Riprendiamo piuttosto la lettura: «Essi [gli operai] dovrebbero introdurre nell’alveare europeo l’epoca dei grandi sciami migratori, quali finora non si erano mai visti, e, attraverso questa azione di libertà di emigrazione in grande stile, protestare contro la macchina, contro il capitale e contro la scelta che adesso li minaccia, quella cioè di dover diventare o schiavi dello Stato o schiavi di un partito sovversivo. […] Le virtù dell’Europa con questi operai se ne andranno in giro al di fuori dell’Europa […] Che manchino pure, allora, le “forze del lavoro”! Forse si rifletterà allora sul fatto che ci si abitui a tanti bisogni solo dal momento in cui divenne così facile soddisfarli – e alcuni bisogni si tornerà di nuovo a disimpararli! Forse allora si faranno venir qui dei Cinesi: e questi porterebbero con sé il modo di vivere e di pensare che si conviene a laboriose formiche. Anzi, essi potrebbero nel complesso aiutare ad infondere nel sangue di questa inquieta Europa, che si sta logorando, qualcosa della calma e contemplatività asiatica e – cosa di cui c’è maggiore necessità – qualcosa della asiatica resistenza e stabilità» (19). Non è escluso che quest’ultimo accenno alla “resilienza” asiatica possa suonare bene all’orecchio di qualche ammiratore nostrano del Celeste Imperialismo Cinese. Certo, c’è da prendere in considerazione pure il vecchio pregiudizio occidentale del cinese come bestia da soma che si accontenta di una scodella di riso: quale parte del bicchiere vogliamo vedere?

Svuotare la «madre Europa», ormai diventata una «vecchia donna ammuffita», di operai indigeni, e riempirla di lavoratori cinesi, i quali sarebbero culturalmente e antropologicamente tagliati per una vita da schiavi salariati e da ubbidienti sudditi dello Stato (magari attraverso la mediazione di un «partito sovversivo»): è questa, dunque, la soluzione della “questione operaia” in Europa secondo il Nietzsche del 1881? È questa la sua bizzarra (diciamo pure provocatoria) “utopia”? Così sembrerebbe. Rimane da capire a quale luogo, reale o immaginario, pensava Nietzsche come nuova patria degli operai europei impossibilitati, «come classe», a rimanere nel Vecchio Continente; e poi, per fare cosa, per vivere come, esattamente? In ogni caso, qui ritorna al mio anticapitalistico orecchio il tema dell’autonomia di classe: l’emancipazione degli operai deve essere opera degli stessi operai, non dello Stato o di qualche partito – fosse anche quello «sovversivo». Sempre per dirla in termini marxiani, i lavoratori stessi si costituiscono in partito, in soggetto politico, in potere rivoluzionario. Ovviamente nulla di questa riflessione è da attribuire a Nietzsche, che mi permetto di usare, per così dire, per impostare la mia riflessione.

Scriveva Nietzsche nella sua fase precocemente crepuscolare: «Io non vedo che cosa si voglia fare con l’operaio europeo. Egli sta troppo bene per non pretendere ora un poco alla volta di più, per non pretendere con sempre maggiore esagerazione: alla fine ha il numero dalla sua. È completamente finita la speranza che si costituisca qui una specie d’uomo modesta e facilmente contentabile di sé, una schiavitù nel senso più blando del termine, in breve una classe, qualcosa che abbia immutabilità». Come si vede, il concetto nietzschiano di classe non è solo diverso da quello che aveva in testa Marx, ma opposto: per il filosofo di Röcken classe sta per gregge, per accozzaglia di lavoratori pacificamente asserviti ai padroni e allo Stato, mentre per il comunista di Treviri solo costituendosi in classe i lavoratori perdono la pessima condizione di gregge, di amorfa accozzaglia incapace di una volontà autonoma. La classe marxiana non è riconducibile a un concetto meramente sociologico, tutt’altro.

Riprendiamo la citazione: «Si è reso l’operaio militarmente abile: gli si è dato il diritto di voto, il diritto di associazione: si è fatto di tutto per corrompere quegli istinti sui quali si poteva fondare una cineseria operaia: così che l’operaio già oggi sente e fa sentire la sua esistenza come uno stato di bisogno (in termini morali come un’ingiustzia…). Ma cosa vogliamo? domandiamo ancora una volta. Se si vuole uno scopo, è necessario volere i mezzi: se vogliamo schiavi – e occorrono! –, non bisogna educarli da signori» (20). Gli operai presentano il conto a una classe dominante fin troppo arrendevole con i suoi sottoposti: dopo il metaforico dito, adesso gli operai rivendicano la mano, per poi magari domani pretendere l’intero corpo sociale. E, cosa ancora più esiziale al mantenimento della civiltà, la quale presuppone «una cineseria operaia», si è fatto di tutto perché gli operai elaborassero una loro “coscienza di classe”, un loro pensiero politico: in queste condizioni è la stessa esistenza di una classe di lavoratori, cioè di operai-schiavi, a essere impossibile. La classe operaia era andata così avanti in termini di autocoscienza, di sensibilità sociale e di raffinatezza civile, che ormai era diventata insostenibile la sua esistenza come classe sfruttata sacrificata sull’altare dell’ozio fecondo.

I passi citati sopra dimostrano soprattutto quanto poco Nietzsche avesse compreso l’intima natura del dominio sociale in epoca capitalistica; domino che si fonda sulla “libera” contrattazione tra chi vende capacità lavorative e chi desidera comprarle per usarle produttivamente – cioè con profitto. Egli non comprese che la «cineseria operaia» si dà nella moderna società borghese in termini diversi, rispetto alle epoche precapitalistiche, e cioè soprattutto attraverso la corruzione degli istinti di classe degli operai, per usare il linguaggio nietzschiano. La borghesia ha cercato in tutti i modi di dare ai proletari una Nazione, una Patria, dei valori universali per cui vivere e combattere, dei beni materiali da difendere e moltiplicare, in modo che essi avessero qualcosa da perdere (e non solo le marxiane catene) e da guadagnare in questo capitalistico mondo, e non nell’altro – nel Regno dei Cieli o nel Regno della Libertà, la sola dimensione sociale che rende possibile il respiro dell’«uomo in quanto uomo» (21). Già Marx ed Engels notarono la formazione di un’aristocrazia operaia, di uno strato sociale proletario “imborghesito” che si nutriva di ideali piccoloborghesi e che rendeva oggettivamente possibile la fondazione di quell’ideologia riformista che alla fine riuscirà a conquistare “il cuore e la mente” dei lavoratori.

L’impossibilità marxiana è declinata in tutt’altro modo. La condizione di operaio salariato è umanamente impossibile, e inconcepibile, perché la sua possibilità presuppone e pone sempre di nuovo condizioni sociali disumane. Ma il carattere disumano della condizione operaia si proietta come un’ombra maligna sull’intera società, su tutti i suoi strati sociali, ed è esso stesso l’espressione di una più generale disumanità che ha come fondamento rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Non si dà la possibilità di una vita (individuale e collettiva) umana, nella società disumana e disumanizzante, e l’aforisma nietzschiano qui brevemente commentato viene a dirci proprio questo, anche alle spalle del suo aristocratico autore, il quale peraltro, poco più che trentenne, scriveva i bei passi che seguono: «Non si può essere felici finché intorno a noi tutti soffrono e si infliggono sofferenze; non si può essere morali fintantoché il procedere delle cose umane viene deciso da violenza, inganno e ingiustizia; non si può neppure essere saggi fintantoché l’umanità non si sia impegnata nella gara della saggezza e non introduca l’uomo alla vita e al sapere del più saggio dei modi» (22).


Note
(1) F. Nietzsche, Aurora, pp. 167-168, Newton, 1988.
(2) «A questo proposito, non avrà il suo peso la circostanza che l’unico importante esponente della socialdemocrazia tedesca in qualche modo conosciuto da Nietzsche fosse Lassalle? Dalle lettere scambiate nel 1867-68 tra Gersdorff e Nietzsche sappiamo che i due giovani amici nutrivano grande simpatia per Lassalle» (M. Montinari, Su Nietzsche, pp. 96-97, Editori Riuniti, 1981. «Il socialismo e i suoi mezzi. – Il socialismo è il fratello minore dell’ormai superato dispotismo, di cui vuol diventare erede; le sue aspirazioni son dunque reazionarie nel senso più profondo. Esso desidera infatti una pienezza di potere statale quale solo il dispotismo ha posseduto, anzi supera tutto il passato nella sua aspirazione all’annientamento formale dell’individuo; il quale egli si presenta come un ingiustificato lusso di natura, che dev’essere corretto e trasformato in un adeguato organo della comunità. […] Quando la sua voce roca irromperà nel grido di battaglia: “Quanto più Stato possibile!”, questo grido in un primo momento sarà più rumoroso che mai; ma presto proromperà, con forza tanto maggiore, il grido opposto: “Quanto meno Stato possibile!”» (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, 1878, I, p. 255, Newton, 1988). Come la stragrande maggioranza degli intellettuali del suo tempo (e del nostro!), Nietzsche assimilava senz’altro il socialismo allo statalismo. Per Marx (e per chi scrive) statalismo e liberismo sono le due facce di una stessa escrementizia medaglia chiamata Capitalismo. Chi vede nella critica nietzschiana una profetica accusa ai danni del “socialismo reale” (Cina inclusa), deve sapere che per il sottoscritto quest’ultimo non era (e non è) che un reale capitalismo – più o meno di Stato. Contro lo statalismo di qualsiasi matrice ideologica la critica nietzschiana ha ragione da vendere.
(3) Nella sua autobiografia, «Wagner narra della sua esperienza rivoluzionaria del 1849 a Dresda e soprattutto del suo incontro con Bakunin. Come non supporre che anche qui, attraverso colloqui con Wagner, si siano aperte per Nietzsche altre fonti di conoscenza del socialismo nella Germania del tempo» (M. Montinari, Su Nietzsche, p. 97).
(4) «Richard Wagner […] non fu certo patriota nel senso dello stato-potenza, ma piuttosto socialista, utopista culturale mirante ad una società senza distinzione di classi, liberata dal lusso e dalla maledizione dell’oro, fondata sull’amore; insomma il pubblico ideale sognato per la sua arte. Il suo cuore era per i poveri contro i ricchi. La sua partecipazione ai moti del ’48, che gli costò un tormentoso esilio di dodici anni, fu da lui sin dove possibile sminuita e rinnegata più tardi, quando si vergognava del suo “nefando” ottimismo e si sforza di scambiare la realtà concreta dell’impero bismarckiano con l’attuazione dei suoi sogni. Egli ha percorso il cammino della borghesia tedesca: dalla rivoluzione alla delusione, al pessimismo e all’intimismo rassegnato all’ombra del potere» (T. Mann, Dolore e grandezza di Richard Wagner, discorso tenuto da Thomas Mann il 10 febbraio del 1933 all’Università di Monaco). La «maledizione dell’oro» di cui parla Mann ha molto a che fare con quell’antisemitismo che Nietzsche schifò, insieme al nazionalismo tedesco, per tutta la vita. «Estraneo come sono, nei miei istinti più profondi, a tutto ciò che è tedesco, tanto che solo la vicinanza di un tedesco mi ritarda la digestione, il primo contatto con Wagner [nel 1868] segnò anche il primo momento della mia vita in cui respirai a fondo: lo sentii, lo venerai come un paese stranero, come antitesi, come protesta vivente contro tutte le “virtù tedesche”. […] Cosa non ho mai perdonato a Wagner? Di aver accondisceso ai tedeschi – di essere diventato un tedesco dell’impero… Dovunque la Germania arrivi, guasta la civiltà» (F. Nietzsche, Ecce homo, p. 246, Newton, 1989).
(5) «Con che diritto possiamo affermare di Nietzsche che tutta la sua opera fu una polemica contro il marxismo e il socialismo, quando è evidente che egli non ha mai letto neppure una riga di Marx e di Engels? Noi crediamo tuttavia di poterlo affermare, e ciò perché ogni filosofia, nel suo contenuto e nel suo metodo, è determinata dalle lotte di classe del suo tempo» (G. Lukács, La distruzione della ragione, p. 312, Einaudi, 1959). La critica lukacsiana del pensiero aristocratico di Nietzsche è a mio avviso troppo imbevuta di ideologismo di stampo determinista (vedi Diamat), per poterci dire qualcosa di attendibile, di fecondo, di non stereotipato, riguardo al filosofo tedesco. In ogni caso, il Nietzsche «precursore intellettuale del nazionalsocialismo» (Lukács) è una volgare sciocchezza che può esistere solo in una testa bacata dall’ideologia. Più volte il filosofo tedesco si espresse chiaramente contro il nazionalismo (soprattutto quello tedesco), la teoria della razza e l’antisemitismo del suo tempo. Scrive il già citato Mazzino Montinari: «Lukács critica Franz Mehring per avere questi una volta affermato che il nietzscheanesimo poteva costituire per i giovani di provenienza borghese una tappa nel passaggio verso le idee socialiste. […] Per Lukács invece il contenuto della filosofia di Nietzsche si riduce alla lotta contro la “concezione proletaria del mondo. Dove era questa concezione del mondo, perché Nietzsche potesse conoscerla e combatterla”? Lukács lo ha detto: senza conoscerla, Nietzsche la combatteva. […] Nietzsche non si spinse mai ad una conoscenza scientifica né dell’economia politica borghese, né del movimento operaio europeo. Di Marx, Nietzsche lesse probabilmente a mala pena il nome: per di più la sua fonte era particolarmente cattiva, giacché si chiamava Eugen Dühring! Ma proprio in Dühring Nietzsche vede un esponente del comunismo e dell’anarchismo – i due termini sono per Nietzsche interscambiabili – e sotto la suggestione di Dühring lesse il Manuale di economia politica di Carey, e a questo si riduce praticamente tutto quanto Nietzsche ha fatto per conoscere la questione per eccellenza del suo tempo, la cosiddetta “questione sociale”. Così non può meravigliarci di vedere Nietzsche concentrare la sua polemica antisocialista sulla questione dell’”eguaglianza”, che ai suoi occhi era la rivendicazione principale del movimento socialista, […] e doveva pur esserci un motivo se Marx, nella Critica al programma di Gotha, demoliva la “rigatteria delle frasi antiquate sull’uguaglianza” correnti ancora nelle file del socialismo tedesco e se proprio quel Dühring, la cui concezione astratta dell’eguaglianza veniva criticata da Engels alcuni anni dopo, ebbe tanta fortuna nella socialdemocrazia tedesca. […] Il fatto è che non il socialismo era il bersaglio centrale della polemica antiegualitaria di Nietzsche, bensì il cristianesimo» (M. Montinari, Nietzsche, pp. 94- 98). E infatti, per molti aspetti la critica nietzschiana del cristianesimo appare fuori tempo massimo, ossia del tutto superata, ma solo se considerata dal punto di vista della teoria critico-rivoluzionaria, dalla prospettiva dell’anticapitalismo radicale – che poi è il solo anticapitalismo possibile.
(6) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 64-68, Newton, 1978. «Il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù e di una schiavitù che diventa sempre più intollerabile nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori» (K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, p. 49, Savelli, 1975).
(7) Cit. tratta da K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, p. 430, Einaudi, 1988.
(8) Ivi.
(9) F. Nietzsche, La Gaia scienza, 1882, 207-208, Rusconi, 2017.
(10) Ivi.
(11) F. Nietzsche, Crepuscoli degli idoli, 1888, p.179, Newton, 1989.
(12) F. Nietzsche, Ecce homo, pp. 227-228.
(13) «La democrazia di massa creata dal capitalismo monopolistico ha foggiato i diritti e le libertà ch’essa concede a sua propria immagine e somiglianza e nel suo proprio interesse; […] le deviazioni sono facilmente “contenute”, e il potere accentrato può permettersi di tollerare (e magari perfino difendere) il dissenso radicale fintanto che questo si uniforma alle regole e ai modi stabiliti. […] La democrazia capitalistica di massa è in grado di autoperpetuarsi in misura forse maggiore di qualsiasi altra forma di governo e di società; e ciò è tanto più vero quanto più essa si fondi non sul terrore e la scarsità, ma sull’efficienza e sulla ricchezza, e sulla maggioranza della popolazione soggetta e governata (H. Marcuse, Saggio sulla libertà, 1969, pp. 79-81, Einaudi, 1969). Altro che epoca debole!
(14) «Una cultura [o civiltà] superiore può nascere solo dove esistono due diverse caste sociali: quella di chi lavora e quella di chi ozia, di chi è capace di vero ozio; o, con un’espressione più forte, la casta del lavoro nella costrizione [o lavoro forzato] e quella del lavoro libero» (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, p. 239). Qui Nietzsche non fa che ribadire la concezione aristocratica esposta da Aristotele nell’Etica Nicomachea: «I cittadini non devono praticare una vita da operaio o commerciante (vite ignobili e contrarie alla virtù) né dovranno essere contadini quelli che aspirano a diventare cittadini (perché la nascita della virtù e l’esercizio delle funzioni politiche esigono libertà dagli impegni di lavoro quotidiano)» (Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, 1999). Come ai pensatori “aristocratici” d’ogni tempo, anche a Nietzsche la divisione classista della società e la divisione sociale del lavoro che necessariamente ne deriva apparivano del tutto conformi alla natura umana che aspiri a vivere civilmente, ed è da questa prospettiva che, come abbiamo visto, egli critica l’ipocrisia del cristianesimo, della democrazia progressista e del «socialismo piccolo-borghese» (Marx). In lui il Dominio sociale si esprime, per così dire, liberamente, senza alcun infingimento, senza avvertire il bisogno di nascondere dietro discorsi “umanitari” e “progressisti” la dura realtà dei fatti, l’eterna esistenza di padroni e di sfruttati. La sua critica della modernità borghese è talmente esplicita nella sua apologia del Dominio senza tempo, da apparire, più che “inattuale”, ingenua, fin troppo ingenua.
(15) F. Nietzsche, La gaia scienza, 1882, p. 153.
(16) «Questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda. […] Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in “una volta” e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica» (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 33-34, Editori Riuniti, 1972).
(17) F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, p. 48, Newton, 1988.
(18) F. Nietzsche, Aurora, p. 168.
(19) Ivi, p. 169.
(20) F. Nietzsche, La volontà di potenza, 1888, p. 348, Newton, 1989. La Volontà di potenza non è il titolo di un’opera scritta da Nietzsche, ma un concetto (largamente travisato da epigoni e detrattori) e un progetto letterario, che egli non portò mai a termine, concepito come «tentativo di una nuova interpretazione del mondo». Il libro che porta quel titolo è stato costruito assemblando i cosiddetti Frammenti postumi. Nel 1906 vide la luce la prima edizione della Volontà di potenza, «arbitrariamente costruita da Elisabeth [sorella di Nietzsche] e Peter Gast con una preordinata e tendenziosa utilizzazione dei frammenti postumi» ( A. Venturelli, Cronologia della vita e delle opere, in Aurora, p. 25). Bisogna dunque approcciarsi con la massima cautela e criticità di spirito «all’opera che Nietzsche mai scrisse» (M. Montinari, Su Nietzsche, p. 51).
(21) Com’è noto, per Marx l’umanissimo salto dal Regno della necessità al Regno della libertà si avrà solo quando il lavoro perderà ogni carattere coattivo e normativo, e acquisterà i caratteri di una libera espressione dell’individuo, di un’attività esercitata liberamente alla stregua di altre attività non finalizzate direttamente alla creazione di valori d’uso strettamente indispensabili alla conservazione della nuda vita degli individui. L’umanizzazione del lavoro potrebbe rendere piacevole e gioiosa questa vitale e serissima attività. Non dimentichiamo che per i bambini non c’è niente di più serio del gioco…
(22) F. Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth, 1876, E. S. T., 1992.

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