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Re-istituire la soggettività. Il Basaglia che rimuoviamo

di Andrea Muni

franco basaglia 1Quale soggettività restituire? Basaglia e Foucault

Restituire la soggettività significa restituire uno spazio vuoto. Uno spazio fisico, sociale e istituzionale, dove sia finalmente possibile intessere relazioni non alienate e (pre)normate; uno spazio reale dove costruire un’esperienza di sé e degli altri appena un po’ meno progettuale e calcolabile di quella oggi forzosamente inoculata nei corpi umani dalle varie discipline “dolci” del neo-liberalismo. Ma non solo, in un senso più teorico la “soggettività” e la “restituzione” che ci interessano chiamano anche in causa lo spazio, il vuoto, prodotti dall’oscillazione di due operazioni reciproche e fondamentali:

1) Un certo qual masochismo – che Basaglia stesso menziona esplicitamente nelle Conferenze brasiliane – di cui le istituzioni e coloro che le incarnano dovrebbero imparare a riscoprire il gusto. Uno spazio di restituzione della soggettività che interessa quella che potremmo chiamare – con un’espressione a effetto – l’autodistruttività dell’istituizione.

DOMANDA: Io vorrei che lei approfondisse il problema del ruolo dello psichiatra e dello spazio che egli deve dare alla sua autodistruzione, dato che la distruzione della situazione significa rompere con la struttura borghese e con il potere che questa ha sul controllo della salute.

BASAGLIA: Il problema che lei pone mi sembra molto giusto perché il problema della distruzione del manicomio non può avvenire che attraverso gli operatori che lavorano nel campo della salute, e quindi è una situazione effettivamente un po’ masochista, autodistruttrice. […] I movimenti, i partiti e i sindacati che vogliono la trasformazione di una società non possono sopportare che il proletariato e il sottoproletariato siano trattati in questo modo nelle istituzioni dello Stato.

Deve quindi iniziare una mobilitazione per la trasformazione di queste strutture. Devono essere i partiti, i sindacati a proporre alternative al problema del controllo. Naturalmente psichiatri e operatori saranno verificati da questo movimento che monta; allora non si parlerà più di masochismo, di autodistruttività ma si parlerà di un’alleanza costante e continua fra la classe che lotta nelle sue organizzazioni e lo psichiatra che ha cambiato padrone, nel senso che ci sarà un’alleanza nel portare avanti un discorso che sarà certo tecnico, ma anche politico.

(F. Basaglia, Conferenze brasiliane)

2) L’altro grimaldello per schiudere lo spazio vuoto di una “restituzione” della soggettività è il lavoro genealogico che tutti – malati, normali e curanti – possiamo mettere in campo collettivamente e individualmente per ricostruire la storia dei saperi e delle pratiche che hanno forgiato un’esperienza della soggettività (la nostra) il cui valore fondamentale è quello di funzionare politicamente come metro, come pietra di paragone per la selezione sociale.

Per fare spazio a un’altra esperienza della soggettività è necessario, in primo luogo, disfare la storia di quella soggettività che da due secoli funziona come discrimine tra il normale e l’anormale, tra il sano e il patologico. Per aprire lo spazio di una restituzione “a venire” della soggettività è necessario disannodare uno per uno i fili che intessono la funzione-soggetto.

Questa funzione è paradossalmente e nello stesso tempo sia il modello cui guardano le pratiche disciplinari di normalizzazione della nostra società, sia il loro effetto politico fondamentale.

Con un’espressione a effetto potremmo chiamare questo secondo macrotema genealogia della soggettività, o quale soggettività restituire, quale distruggere?

Questa ingombrante esperienza della soggettività – questa serie di automatismi logici che scattano non appena è pronunciata o pensata la parola io – sono stati forgiati nell’aria malsana delle più basse e violente fucine ideologiche degli ultimi due secoli di capitalismo. Non è questa soggettività – affatto! – quella che si tratterebbe di restituire. La soggettività-metro, la funzione-soggetto, è piuttosto la nemesi della soggettività che ci interessa, ed è proprio per questo che bisogna assaporare – non affrettarsi a “capire” – il paradosso celato nella frase coniata da Pier Aldo Rovatti come titolo del suo libro su Basaglia: Restituire la soggettività.

Con un gioco di parole si potrebbe dire che – per metterci sulla buona strada e sprofondarci meglio nel paradosso – dovremmo forse pensare la restituzione della soggettività come una re-istituzione della soggettività stessa.

Una re-istituzione che deve passare cento volte al proprio setaccio critico l’altra soggettività, quella che funziona come metro di normalizzazzione, medicalizzazione e selezione sociali.

Le scienze dell’uomo, considerate in ogni caso come scienze dell’individuo, non sono nient’altro se non l’effetto di tutta questa serie di procedure [disciplinari, volte ad applicare la funzione-soggetto agli esseri umani]. E, d’altra parte, potete osservare che sarebbe assolutamente falso […] rivendicare i diritti originari dell’individuo contro qualcosa come il soggetto, la norma o la psicologia. L’individuo, infatti, è da subito, e proprio a causa dell’esistenza di questi meccanismi, soggetto normale, soggetto psicologicamente normale. Di conseguenza, la desoggettivazione, la denormalizzazione, la depsicologizzazione implicheranno, di necessità, la distruzione dell’individuo in quanto tale. La disindividualizzazione dovrà procedere di pari passo con le altre tre operazioni di cui vi parlo.

(M. Foucault, Il potere psichiatrico)

Ma come si è potuta produrre questa sottrazione/imposizione di soggettività? Questo standard minimo di soggettività, questo prototipo, questa idea platonica che deve – per lo meno – essere approssimata da tutti coloro che ambiscono a far parte a pieno titolo della nostra società e ad avere dei diritti.

Questa esperienza della soggettività ha una propria genealogia, certamente complessa e stratificata, ma di cui si possono osservare con pazienza i lenti – spesso impercettibili – mutamenti storici. Si può puntare ad esempio i riflettori sulla rivoluzione industriale e sulla nascita dello Stato borghese, osservando come tutte le discipline – manicomio e psichiatria compresi – siano a vario titolo degli effetti politici della mobilitazione totale del corpo e del tempo della classe operaia che il capitalismo scatena a partire dalla rivoluzione industriale. Il corpo improduttivo dell’operaio salariato diviene di colpo il più grande pericolo, il ricettacolo di ogni male della società – trasformandosi al contempo anche nella più potente e più spontanea arma della nascente lotta di classe. L’operaio ubriacone, l’operaio pigro, l’operaio svogliato, quello che fa troppo l’amore, quello rissoso, quello che la butta troppo sul ridere o in rissa, l’operaio che – in generale – spende le proprie migliori energie fuori dalla fabbrica: è un cattivo operaio. Questo cattivo operaio è cattivo dal punto di vista della produzione, ma immediatamente – come per magia – lo diventa anche dal punto di vista morale e medico. Egli diviene presto qualcuno che usa di sé in modo folle, in modo non-normale, non-conforme… ma a rispetto a che cosa?

Dopo il luddismo dei primissimi dell’Ottocento, gli operai capiscono rapidamente che tutto l’interesse che ai piani alti si va costruendo a proposito della loro salute, della loro morale e del loro benessere, non è che un nuovo inquietante step del controllo e della repressione che il capitalismo va tessendo attorno ai loro corpi. Negli illegalismi e nell’immoralità proletaria e sottoproletaria – quella stessa che già comincia a essere medicalizzata dalla nascente psichiatria moderna – la borghesia ottocentesca vedrà il nuovo grande pericolo politico, il nuovo grande rifiuto popolare allo sfruttamento di massa. I famosi corpi docili, di cui Foucault parla in Sorvegliare e punire, non nascono sotto i cavoli. È per questa via moralistica a salutistica che – Foucault lo afferma non meno esplicitamente di Basaglia – la borghesia illuminata del tempo applica al popolo la propria morale e la propria scienza. Morale e scienza borghesi a cui le élite di questa classe si conformeranno molto meno di quanto non sarà letteralmente costretta a fare la classe operaia – vittorianesimo.

Tra i flash di questa storia della soggettività non si può non menzionare quello che concerne la famiglia, intesa come istituzione e come primo luogo di socialità e relazione. L’esempio della famiglia è tra i più interessanti perché la sua compiuta mononuclearizzazione si realizza molto tardi: è un fenomeno che, in alcune parti d’Europa e d’Italia, abbiamo appena finito di toccare con mano (e che nel mondo, per fortuna, è ancora ben lontano dal potersi dire compiuto). La mononuclearizzazione della famiglia – sopratutto quella più tarda, che interesserà le famiglie proletarie e sottoproletarie – va di pari passo con la borghesizzazione, la medicalizzazione e la psicologizzazione di questa istituzione. La cattura ideologica della famiglia – intesa come istituzione e nucleo fondante della società – da parte di pedagoghi, sessuologi e psichiatri, rimane ancora oggi uno dei grandi impensati della nostra cultura recente.

 

Una questione di classe. Medicalizzazione, patologizzazione e moralizzazione delle classi subalterne

Il Basaglia che rimuoviamo probabilmente sarebbe sconvolto dalla solerzia con cui si “previene” e si “cura” oggi la diversità. Gli anormali sono reperiti, selezionati e trattati con una precocità che cinquant’anni fa era semplicemente inimmaginabile. Questo fenomeno ha evidentemente un lato positivo e uno negativo. Dal punto di vista della medicina preventiva e di prossimità si tratta senz’altro di un successo, che va nella direzione di un importante attutimento delle manifestazioni “maggiori” della follia. Allo stesso tempo però un simile “vantaggio” è bilanciato dal fatto evidente che, per ottenere un simile successo, è stato necessario intessere nell’ultimo mezzo secolo una sempre più capillare e microfisica presa in carico istituzionale delle più disparate devianze e anomalie. Dall’abuso della prescrizione di psicofarmaci, al boom delle terapie comportamentiste e fino al recente ritorno di fiamma di una certa borghesia “illuminata” per la psicoanalisi, nell’ultimo mezzo secolo la psicologizzazione e la medicalizzazione delle nostre esistenze è a dir poco esplosa.

Il caso più eclatante è certamente quello degli psicofarmaci, utilissimi per far dormire sonni tranquilli a coloro che li prescrivono troppo facilmente. Ma gli esempi sono molti: dalla preoccupazione sempre più morbosa che i genitori nutrono riguardo a possibili anomalie mentali e comportamentali dei propri figli, fino all’eccesso di zelo che induce alcuni professori a sovra-interpretare come patologia ogni forma di dissenso o rifiuto manifestati dagli alunni verso quell’istituzione semi-totale che si chiama scuola. O ancora, possiamo pensare ai bei “giri” in cui si rischia di finire non appena, una volta nella vita, magari perché ubriachi o perché sotto shock, si compie qualche atto di microcriminalità o una banale resistenza pubblico ufficiale.

Per re-istituire questo spazio vuoto (leggi “la soggettività”), dovremmo allora forse prima di tutto fare i conti col fatto angoscioso che essa non è sottratta soltanto ai folli, soltanto dal farmaco o dai TSO. Questo spazio è sottratto a ognuno di noi. E spesso l’agio con cui accettiamo di convivere con questa sottrazione, con questa amputazione reale, misura il grado del nostro inserimento e della nostra posizione sociali.

Il procedimento è dunque inverso: lo status di folle, e il conseguente trattamento (oggi più farmacologico che detentivo), non è che l’extrema ratio, l’ultimo step di una sottile trafila disciplinare incaricata di “iniettare” nei corpi parlanti la normalità della funzione-soggetto. Questo è anche il punto di un filosofo esplicitamente marxista come Althusser, non meno di quanto non sia stato il punto di Basaglia e Foucault.

Come tutte le evidenze, comprese quelle che fanno sì che una parola “designi una cosa” o “possieda una significazione” (e quindi comprese le evidenze riguardanti la “trasparenza” del linguaggio), questa “evidenza” per cui voi e io siamo dei soggetti – e che non sembra fare alcun problema – è un effetto ideologico, è l’effetto ideologico elementare. È in effetti la specificità dell’ideologia quella di imporre (senza averne l’aria, poiché si tratta di “evidenze”) le evidenze come evidenze che non possiamo non riconoscere, e di fronte a cui abbiamo l’inevitabile e naturale istinto di esclamare a noi stessi (a voce alta, o nel “silenzio della coscienza”): “È evidente! È così! È vero!”.

(L. Althusser, Apparati ideologici di Stato)

Dalle forme istituzionali più manifeste, come la Giustizia, a quelle più sottili come il Servizio sociale, dalla Famiglia alla Scuola, dall’Esercito al Servizio civile, dalla Chiesa al matrimonio, dalla psicologia sociale alla burocrazia, dalle prigioni alle università, dai social ai ruoli ormai tristemente para-istituzionali di consumatore e di persona in cerca di lavoro, il folle è colui/colei che nessuna di queste discipline è riuscita a normalizzare, a rendere calcolabile. Questo non è un merito, né un demerito del folle: è ciò che lo rende un sintomo, un ingranaggio difettoso che scivola di disciplina in disciplina fino a essere inghiottito nel caldo ventre dell’annullamento della soggettività per mezzo del farmaco.

Il folle è ancora oggi così temuto perché i suoi sintomi non gli consentono di inscenare bene la funzione-soggetto. E questo fa di lui, a sua volta, un sintomo della non-necessità e della relatività di questa funzione, di questo metro, che ci hanno insegnato a chiamare io, la mia soggettività. Il folle rivela, spesso involontariamente e antieroicamente, la non-normalità delle nostre normalità e l’arbitrarietà di ciò che le regola. Questa è la sua reale pericolosità per la società.

Il folle, ancora oggi, rivela esistenzialmente e senza aspirazioni politiche un’orrenda verità, ossia che spesso la vita davvero non ha altro senso, altro valore, che la follia. Questo è il (non) sapere del folle, un (non) sapere capace di gettare nell’orrore tutti coloro che si rifiutano ostinatamente di fare i conti con la mancanza (o, almeno, con la precarietà) di senso del nostro stare al mondo. Una persona che ha perso tutti i propri affetti, per esempio, perché non dovrebbe lasciarsi morire di ubriachezza e vagabondaggio? Perché dovrebbe essere ritenuta malata se lo fa? Non tutto il dolore si può curare. Non tutta la sofferenza psichica è una malattia. Non tutta la vita biologica deve necessariamente essere vissuta. Su questo, nelle Conferenze brasiliane, il Basaglia che rimuoviamo è perentorio: curare la sofferenza umana, certo, si può, si deve, ma il problema dell’istituzione psichiatrica oggi (ancora oggi) rimane prima di tutto quello di non aggravarla con il proprio intervento. Il problema vero di questa istituzione è che ha rinunciato a cambiare la società, che non crede più all’idea che la società possa davvero essere “curata” dai folli, non meno di quanto i folli possano essere “curati” dalla società.

 

“… quando abbiamo scoperto, che non eravamo mai stati malati”

Tornare oggi a leggere le Conferenze brasiliane non è solo consigliabile, è urgente. Le frasi autoironiche, perentorie e politicamente schierate scandite da Basaglia durante il suo viaggio in Brasile, sono misteriosamente scomparse dalla bocche e dalle manifestazioni pubbliche della maggior parte sui odierni epigoni. È impossibile non chiedersene la ragione. Così come è impossibile non chiedersi che fine abbia fatto quell’istanza autodistruttiva invocata da Basaglia. Quel masochismo che lo psichiatra e tutti coloro che partecipano di istituzioni ancora oggi profondamente borghesi, classiste e selettive non dovrebbero mai cessare di giocare contro sé stessi, contro la parte di loro stessi che manda a regime – e che rende reali – tali istituzioni.

Il gesto che re-istituisce la soggettività non è dunque un gesto che i sani devono fare nei confronti dei malati, non è un’elargizione liberale erogata dall’istituzione nei confronti dei corpi che essa annichilisce farmacologicamente o fisicamente. La restituzione della soggettività interessa piuttosto una postura, uno stile di vita – che non basta definire “accogliente”.

Re-istituire la soggettività deve significare allora rinunciare a stabilirne i criteri, le regole, i margini. Ma fino a dove? Fino a che punto? Fino all’anarchia? No di certo. Anche se è divertente notare la rapidità con cui pensiamo subito all’anarchia non appena osiamo immaginare di attenuare minimamente le procedure totalitarie attraverso cui le persone, ancora oggi, non appena fanno qualche passo falso “accedono” a circuiti istituzionali da cui spesso non si esce mai più.

Per cominciare a giocare questa re-istituzione potremmo allora in primo luogo evitare di considerare necessariamente folli e pericolosi tutti i drogati, i pervertiti e i violenti. Potremmo poi, in secondo luogo, considerare che stare male è una condizione normale dell’essere umano neoliberale (e non solo). E infine, potremmo soffermarci a riflettere sul fatto che il dolore e la sofferenza non sono sempre sintomi, febbri da essudare, a volte sono soltanto il tragico capolinea di una vita.

Leggere le Conferenze brasiliane oggi significa anche tornare a meditare sul fatto che la vita non ha necessariamente senso; sul fatto che una vita senza affetti, spesso, davvero non vale la pena di essere vissuta se non nella follia. È per questo che è giusto, sacrosanto, ma al contempo insufficiente, ogni discorso che si limita a riproporre la questione della recovery dal punto di vista delle condizioni materiali e artificialmente sociali del reinserimento.

Sarà forse romantico e insieme provocatorio, ma davvero non so quanti folli – curati da psichiatri di oggi – potrebbero ancora dire, come fece il genio di Alda Merini nella sua immortale poesia dedicata a Basaglia

[…] ma la cosa più inaudita, credi,

è stato quando abbiamo scoperto

che non eravamo mai stati malati

(A. Merini, A Franco Basaglia)

Il Basaglia che rimuoviamo è allora, forse, quello che oggi denuncerebbe la definitiva morte politica del portato rivoluzionario della sua Legge e della sua battaglia. Senza la pretesa di attribuire alcuna soggettività rivoluzionaria al folle, senza cadere nello stupido gioco di eroicizzare la follia, la lotta al manicomio e alla reclusione dei folli di Franco Basaglia aveva la consapevolezza di essere un momento parziale, regionale, di una più grande battaglia per la liberazione e l’uguaglianza sociale degli sfruttati e degli oppressi. Una battaglia che, allo stato attuale della nostra società, sarebbe francamente un po’ ipocrita – o peggio, sintomo di un preoccupante diniego – negare sia stata purtroppo completamente perduta. Fare finalmente i conti con tutto questo, per finire con un po’ di ottimismo, potrebbe essere l’unico modo per riuscire un giorno a re-istituire, insieme alla soggettività, anche il gusto masochista di questa battaglia. Il gusto per un battaglia che non ha smesso di esistere soltanto perché non se ne parla più.

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