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manifesto

La finanza malata d'ipertrofia

Salvare il sistema finanziario globale? Troppo tardi. Ormai è «troppo grande per salvarlo»

Saskia Sassen

Il valore globale dei «prodotti finanziari» è parecchie volte il Pil mondiale. È troppo. La sfida reale non è salvare il sistema ma definanzializzare le economie, argomenta Saskia Sassen

wall streeet toro collassatoQuello che viene impropriamente chiamato «gruppo dei venti» (G20) si è riunito a Londra il 2 aprile 2009 per discutere su come salvare il sistema finanziario globale. È troppo tardi. La prova è che non abbiamo le risorse per salvare questo sistema - neanche se volessimo. È diventato «troppo grande da salvare» (non «troppo grande per fallire», come si dice per giustificare il soccorso ai colossi bancari, ndt): il valore degli assets finanziari globali supera di parecchie il Prodotto interno lordo (Pil) globale. La vera sfida non è salvare questo sistema, ma definanziarizzare le nostre economie, come premessa per superare il modello attuale di capitalismo. Perché mai il valore degli assets finanziari dovrebbe ammontare quasi al quadruplo del Pil complessivo dell'Unione europea, e ancor più per quanto riguarda gli Usa? Che vantaggio hanno i comuni cittadini - o il pianeta - da questo eccesso?

La domanda si risponde da sola. Esplorare più a fondo i meccanismi nascosti del sistema finanziario che ha portato il mondo a questa crisi significa anche intravedere un futuro oltre la finanziarizzazione. Il compito che il G20 dovrebbe affrontare non è salvare questo sistema finanziario, ma cominciare a definanziarizzare le principali economie in misura tale che il mondo possa andare verso la creazione di un'economia «reale» capace di garantire sicurezza, stabilità e sostenibilità.

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marxiana

Innovazioni e crisi finanziaria

di Marcello De Cecco

L’argomento qui trattato è stato oggetto di una lezione che il prof. De Cecco ha tenuto presso la facoltà di Economia “R. Goodwin” di Siena il 25 febbraio.-Con un commento di Antonio Pagliarone

venezia cocaGli pfandbriefe, dice un dizionario dei termini finanziari sono letteralmente, dal tedesco, ‘lettere o certificati di cauzione’. Sono un tipo di bond emesso dalle banche tedesche specializzate nei mutui immobiliari: in pratica le banche che prestano denaro a chi vuole comprare una casa raggruppano i crediti che hanno con i loro clienti, creano delle maxiobbligazioni, e le frazionano poi in piccole tranche di titoli che ricollocano sul mercato per gli investitori. Questi tipi di bond rappresentano il segmento più largo del mercato dei debiti privati tedeschi e sono considerati della massima sicurezza.

Gli pfandbriefe sono dunque un esempio eminente di cartolarizzazione e di impacchettamento di mutui immobiliari, in uso da qualche secolo. Una innovazione finanziaria, per quanto riguarda non la Germania ma gli Stati Uniti, sono certamente le mortgage backed securities, che risalgono invece solo a qualche decennio, e che non mostrano molta differenza rispetto agli pfandbriefe.

In tutta la loro lunga storia gli pfandbriefe sono stati, dunque, un mezzo di investimento di assoluta solidità e tranquillità per i risparmiatori tedeschi. Ciò dipende non solo dal nome delle banche che li emettono e vendono, ma specialmente dalla solidità dei mutui che sono impacchettati in bonds e ridotti in certificati di piccolo importo da vendere ai risparmiatori. E dalla tradizionale severità della vigilanza bancaria.

E’ notevole, tuttavia, che il principale operatore su tale mercato sia ora in condizioni di virtuale insolvenza, tanto che il governo tedesco ha appena varato una apposita legge che permetterà la nazionalizzazione delle banche per essere in grado di salvarlo .

Che cosa è accaduto?

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liberazione

Il liberismo è una fantasia

di Riccardo Bellofiore


Dopo il fallimento di tutte le strategie messe in campo nell'ultimo decennio, oggi la sinistra, in specie in quella "comunista", ha bisogno di andare a fondo nell'analisi. Cosa non scontata né semplice, perché significa rimettere in discussione letture del capitalismo contemporaneo e dei rapporti di classe politicamente inefficaci, oltre che rozze e ripetitive in molti casi. E rimettersi in discussione fa paura, come evidenzia lo stato desolante della discussione politica dentro e fuori Rifondazione Comunista dopo le elezioni, in cui ci si divide sull'inessenziale e non si affrontano i nodi di fondo.

In un recente articolo (Liberazione, 29 ottobre 2008) Luigi Cavallaro utilizzando la visione del capitalismo di Hyman P. Minsky - un autore, scrive, "il cui nome si ode nuovamente in questi giorni" - ci mette in guardia da chi riduce la crisi recente a conseguenza di una euforia irrazionale e non della "furia liberalizzatrice" degli ultimi due decenni. Le citazioni di Minsky ormai sono una valanga. Dal marzo 2007 si è tornato a parlare dell'approssimarsi di un "momento Minsky", e poi del rischio di un "collasso Minsky" del capitalismo. Questo sorprendente interesse alla riflessione dell'economista statunitense è venuta da subito da opinionisti tanto neoliberisti quanto social-liberisti, e non solo da circoli eterodossi.

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aprileonline

Ok, il prezzo è giusto. Cause e rimedi per l'inflazione

Domenico Moro

Un recente  articolo di Paolo Savona, "economista etico" e le sue contraddizioni fanno da spunto per una riflessione sul concetto di mercato e soprattutto di "libero" mercato

Non lo sapevamo ma siamo noi la causa del nostro male. Ce lo rivela l'economista Paolo Savona dalle colonne del Messaggero. Se l'inflazione cresce, indipendentemente dall'andamento delle materie prime, la colpa è della "gente", che chiede di frenare l'azione del libero mercato, e dei sindacati, contrari alle liberalizzazioni, come quelle contenute nella direttiva Ue Bolkestein. Così, ci rimangono, secondo Savona, due soluzioni. La prima è stringere la cinghia e ridurre drasticamente i consumi (sic!), aspettando che il mercato riallinei i prezzi alla domanda, e la seconda è...l'etica.

La Chiesa dovrebbe, insieme ai media e ai gruppi dirigenti, affermare un sistema di valori etici che conducano al rispetto del "giusto prezzo". Un principio che la dottrina cattolica insegna da oltre un secolo ma, fino ad ora, con scarsi risultati. Chissà perché. Comunque, secondo Savona, solo un mercato etico può funzionare, mentre ogni eventuale azione regolatrice, anche sui prezzi, dello Stato è destinata al fallimento, perché...il mercato è il mercato e va lasciato alla sua autoregolazione.

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centrorifstato2

Te la do io l'America! Note sulla mutazione del sistema politico italiano

Isidoro D. Mortellaro

emigrati1(1)Americanizzazione: un termine pesante assai. Proprio come il Novecento, che ne è stato marchiato a fuoco sin nel nome, American Century, affibbiatogli a quasi metà del cammino, nel 1941, da Henry Luce. E pesante è il ruolo che esso ha giocato nelle ultime elezioni italiane – e ora nell’interpretazione del cataclisma - soprattutto a sinistra.

Qui, come clava, è stato volenterosamente impugnato, agitato e usato da tutte le parti. Non proprio nel dibattito politico e culturale: esilissimo e certo non votato a imperitura memoria. I colpi si sono concentrati, piuttosto, nella affannosa difesa del proprio spazio o nella astiosa damnatio dell’altrui. E in questa devastante resa dei conti gli antagonisti si sono mossi da opposte sponde in sincronica, culturale concordia: sia che fosse Veltroni a magnificare il proprio distacco dall’eterna guerra civile europea, da un vecchio che non muore, da logore casacche («Gli occhi degli italiani hanno visto troppo odio e divisioni in questi anni… non ci sono due Italie separate da muri invisibili.

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manifesto

Incubi economici allo specchio di un fragile senso di comunità

Luigi Cavallaro

Proiettando sui «nemici» esterni le cause dell'impasse europea, Giulio Tremonti nel suo libro «La paura e la speranza» interroga implicitamente anche la sinistra sulla sua capacità di trasformare le differenze in elementi di complessità interna alla struttura sociale I timori di cui parla Tremonti nel suo pamphlet sono quelli che hanno in larga parte determinato gli esiti delle elezioni di aprile e derivano da politiche economiche sbagliate, che hanno eretto

corrente espressionismo 09Dell'ultimo libro di Giulio Tremonti si è parlato molto, specie da quando la vittoria del Popolo della libertà alle elezioni del 13 e 14 aprile ne ha fatto uno strumento non solo per «interpretare il mondo» ma, per continuare nella metafora, potenzialmente anche per «trasformarlo». È un libro - va detto subito - che vale la pena leggere, e con attenzione. Nel diluvio di pamphlettistica d'infima qualità, dedita pressoché esclusivamente a puntare l'indice indignato sui privilegi e le malefatte delle varie «caste», La paura e la speranza (Mondadori, pp. 112, euro 16) recupera la vocazione originaria del pamphlet come luogo in cui il chierico distilla il proprio sapere e ne fa strumento di «battaglia intellettuale e morale» per il popolo cui è organico.


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Così infatti procede Tremonti: con stile conciso, icastico, fatto di proposizioni brevi che si succedono rapide come aforismi.

Né è casuale che, ciononostante, esse riescano a descrivere nitidamente il «mondo grande e terribile» che abbiamo davanti, proprio come un lampo che squarcia l'oscurità della notte: al contrario, è una conseguenza del fatto che, per Tremonti, la realtà ha una «durezza» (vorremmo dire: un'oggettività) che non si piega alle interessate «interpretazioni» di chi è al governo o all'opposizione.

«La meteorologia non fa il tempo, non decide quando splende il sole o quando piove, ma aiuta a navigare. I marinai sanno che non si governa il mare ma la nave, che si manovrano le vele e non il vento», scrive il ministro dell'Economia: e in questa affermazione si coglie lo scarto che separa la concezione del mondo racchiusa in questo libretto da quella vagamente new age che ha ispirato (e ispira) l'intellettualità «liquida» post-sessantottina, nella sua variante modernizzatrice propria degli «integrati» come in quella millenaristica degli «antagonisti».

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manifesto

Il gran burattinaio del mercato

Christian Marazzi

«L'era della turbolenza» di Alan Greenspan. La guerra compiuta dalla Federal Reserve per far prosperare il capitalismo neoliberista ovunque nel mondo

 greenspan0225 l 719090Le memorie di Alan Greenspan, il mitico e odiato ex-presidente della Federal Reserve, L'era della turbolenza (Sperling & Kupfer), sono presentate al pubblico in settembre, il giorno prima della riunione della banca centrale americana nella quale il suo successore, Ben Bernanke deve decidere cosa fare per gestire la crisi dei prestiti ipotecari subprime, iniziata il 9 agosto. Sembra quasi che Greenspan voglia esortare la Fed a tagliare i tassi di interesse rapidamente e in modo aggressivo, come lui ha sempre fatto nei momenti di crisi finanziaria negli anni della sua presidenza, tra il 1987 e il 2006.

Ma la situazione è cambiata, dice Greenspan in un'intervista al Financial Times del 17 settembre: «Siamo in un periodo molto più difficile di quando ero io presidente. In quegli anni non eravamo preoccupati di una rinascita inflazionistica, ma ora bisogna esserlo. Occorre essere molto più prudenti nell'abbassare i tassi in risposta alle crisi».

E infatti il titolo del suo libro avrebbe potuto essere L'era della disinflazione, perché il tema centrale di questo lavoro riguarda il modo in cui il capitalismo liberista dell'ultimo quarto di secolo è riuscito, tra euforia e paura, tra crescita e bolle speculative sempre più ricorrenti, a sconfiggere l'inflazione, a ridurre i tassi di interesse e a prosperare nel mondo.


Una guerra per il libero mercato


Greenspan non attribuisce a se, né al suo predecessore Paul Volker o ad altri banchieri centrali, il merito della vittoria sull'inflazione degli anni del fordismo e delle lotte operaie sul salario, ma alle forze intrinseche e impersonali del capitalismo, dall'integrazione economica globale, alla deregolamentazione dei mercati, alla rivoluzione tecnologica.

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comedonchisciotte

CAPITALISMO E LIBERTA': GIU' LA MASCHERA

di Stephen Ledman

friedmanlarge16 novembre 2006: muore l’economista Milton Friedman. La fine di un’era. Un fiume di elogi gli fanno da eco. Wall Street Journal: "Pochi nella storia dell’umanità hanno offerto un tale contributo al raggiungimento della libertà umana" (le stesse parole che Friedman utilizzò nel discorso in onore di Reagan, il giorno del decesso). L. Summers, economista ed ex Segretario al Tesoro (sulla pagina Op Ed del New York Times): "muore un "eroe""! Financial Times: "L’ultimo dei grandi economisti". Terence Corcoran, editore del National Post Canada: i "liberi mercati" perdono "l’ultimo leone". Business Week Magazine:"muore un grande", apprezzando la sua dottrina secondo cui "la cosa migliore che possa fare un governo è quella di dare all’economia i soldi di cui ha bisogno e mettersi quindi da parte".

Raramente ha ricevuto tanto encomio qualcuno così indegno se si considera lo sfacelo umano che il suo retaggio ha disseminato ovunque. Egli riteneva che il governo avesse il solo ed unico ruolo di "proteggere la nostra libertà dai nemici (esterni)… e dai nostri concittadini (così come) rafforzare le trattative private, (salvaguardare la proprietà privata) ed incentivare i mercati competitivi". Qualsiasi altra cosa messa nelle mani pubbliche si traduce in una forma di socialismo, che per un fondamentalista del libero mercato, quale è stato Friedman, è pura blasfemia. Secondo lui, il mercato funziona meglio se libero da regole, imposizioni, tasse onerose, barriere doganali ed "interessi radicati". Il migliore governo, in pratica, non è altro che quello che fa andare meglio gli affari privati. Democrazia e "governo del, con e per il popolo"? Un’assurdità.

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manifesto

La produttività bassa e stagnante c'entra molto poco con i salari troppo bassi

Fernando Vianello

bce francoforteIl mondo va davvero alla rovescia, se a sollevare la questione dei bassi salari sono i banchieri centrali e i ministri delle Finanze. Ha cominciato Bernanke, parlando alla Camera di Commercio di Omaha, Nebraska, il 6 febbraio 2007. La diseguaglianza dei redditi, ha osservato, è la grande molla del progresso economico; troppa diseguaglianza, tuttavia, può essere pericolosa, perché erode il consenso intorno al modello sociale: «Se non poniamo qualche limite ai rischi di cadere in basso sopportati dagli individui colpiti dal cambiamento economico, l'opinione pubblica può divenire meno disposta ad accettare il dinamismo che è così essenziale al progresso economico».

Dell'imponente redistribuzione del reddito ai danni del lavoro dipendente ha preso atto anche il Comitato dei ministri delle Finanze europei (Ecofin), che ha affermato pubblicamente che ai lavoratori va riconosciuto il «dividendo» della crescita.

Il presidente di turno dell'Ecofin, il tedesco Steinbruek, ha rilasciato una dichiarazione che riecheggia le parole di Bernanke: «Se negli anni... si registra una perdita netta dei salari mentre esplodono i profitti delle imprese, arriveremmo a una crisi di legittimità del modello dell'economia sociale di mercato». Per parte sua, il commissario Ue agli affari economici, Almunia, aveva precedentemente dichiarato che «La parte dei salari nel reddito globale degli stati è oggi al livello più basso da molti anni, e questa è una situazione insostenibile» (Il Sole-24Ore, 27 febbraio 2007).

Nella lezione inaugurale tenuta alla riunione annuale della Società italiana degli economisti (Torino, 26-27 ottobre 2007) il governatore della Banca d'Italia ha richiamato l'attenzione sul fatto che i salari italiani sono più bassi, e non di poco, dei salari francesi, tedeschi e inglesi: fra il 30 e il 40 per cento, calcola il governatore, se parliamo delle retribuzioni medie orarie, a parità di potere d'acquisto, nell'industria e nei servizi privati. Ma di una redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori Mario Draghi non ha parlato. Diversamente che nel resto del mondo, egli ritiene, che in Italia i salari sono bassi e stagnanti perché bassa e stagnante è la produttività.

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proteo

C’è un “pensiero unico” in economia politica?

Critica della critica del “pensiero unico”

Rémy Herrera

briganti fondo magazine1. Introduzione

Sforziamoci, prima di intraprendere questo periplo attraverso l’economia politica, di allacciare il filo conduttore del nostro discorso alla realtà del mondo, la cui evidenza è così brutale da bucare gli occhi. Col rischio, deliberatamente accettato, di sembrare di privilegiare il percetto sul concetto e cadere di colpo dal logos al pathos, contempliamo per un istante quello che il mondo ci fa vedere delle sue differenze. Innanzitutto esistono, altrove e lontano, in periferia, al Sud, immense città di lamiera, di fango e di polvere, la spoliazione generale, le carenze e l’insicurezza, la violenza delle condizioni di vita e di lavoro di masse gigantesche e anonime di uomini e donne, e bambini, umiliati e offesi. Quello che abbiamo inoltre sotto i nostri occhi, che lo vogliamo o no, qui, ma sempre lontano, al centro, al Nord, dei fantasmi erranti del XIX secolo, migliaia di uomini e donne senza casa, vecchi abbandonati, “intoccabili” dai volti deformati dalla miseria, privati di tutto e disumanizzati. Questa visione partigiana e sentimentale, soggettiva, sembra accordarsi abbastanza bene con l’obiettività neutra e rigorosa della statistica. Il 20% della popolazione mondiale più ricca disporrebbe dell’ 83% del reddito totale, mentre il 20% dei più poveri supererebbe appena l’1%(1). Il PIL pro capite sarebbe di 22.770 dollari nelle “economie a reddito elevato” (925 milioni di abitanti), contro 3.230 dollari per il resto del mondo, Africa, America latina, Asia, Europa dell’Est (5 miliardi di abitanti), dove 3 miliardi di persone, ossia la metà della popolazione del pianeta, vivono con meno di 3 dollari al giorno(2). Lo scarto nei redditi tra i dirigenti di compagnie multinazionali e operai del settore informale potrebbe corrispondere a un rapporto di uno a svariate decine di migliaia negli Stati Uniti, dove la struttura di ripartizione del reddito è quasi disuguale quanto quella dell’India(3).

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manifesto

 La finanziaria della precarietà

Riccardo Realfonzo

neoliberismo2Quanti auspicavano una sterzata che facesse virare la prua del governo verso lo sviluppo e l'equità restano delusi: il ministro Padoa Schioppa è riuscito a far passare anche quest'anno una finanziaria di «rigore» e «risanamento».

Va da sé che non siamo in presenza di una manovra aggressiva come la precedente, dal momento che ora - grazie all'ampio extragettito - il profilo di abbattimento del debito delineato nel Dpef può essere confermato senza scossoni, anche a dispetto delle minori aspettative di crescita del Pil. Insomma, i conti pubblici vanno bene, ma piuttosto che investire massicciamente sul rilancio economico e sociale la manovra si limita a sedare le contestazioni dei ministri di sinistra mediante qualche marginale e perlopiù circoscritta operazione redistributiva.

Non importa che persino Sarkozy bolli di dogmatismo la Commissione europea e nella sua finanziaria opti per la sola stabilizzazione del debito; non importa che la sinistra lanci l'allarme sulle emergenze sociali; Padoa Schioppa sembra non accorgersi del disastro (anche di consensi) e conduce il governo lungo il sentiero del «risanamento» (un mito politico sulla cui inconsistenza abbiamo insistito: si veda il sito www.appellodeglieconomisti.com).

D'altra parte i falsi miti di Padoa Schioppa, e in generale dei «moderati» dell'Unione, non si limitano alle finanze pubbliche: c'è anche il dogma della «flessibilità» che rischia di determinare i contenuti del collegato alla finanziaria dedicato al protocollo welfare e quindi anche al precariato.

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manifesto

I quattro cavalieri della globalizzazione

Gli eredi del neoliberismo della prima ora perseguono strade diverse per salvare il libero mercato. Ma tendono però a chiudere gli occhi sul fallimento del progetto «globalista», respingendo i progetti di deglobalizzazione portati avanti dai movimenti sociali

Walden Bello

globalization1Quando lo scorso anno due studi hanno descritto come il centro di ricerca della Banca Mondiale avesse sistematicamente manipolato i dati per dimostrare che le riforme neoliberiste sul mercato stessero promuovendo la crescita e riducendo la povertà nei paesi in via di sviluppo non ci fu nessuna reazione di sorpresa da parte dei «circoli» intellettuali, economici e politici che si occupano di politiche dello sviluppo. Gli sconvolgenti risultati dell'analisi svolta dal Robin Broad dell'American University e il rapporto di Angus Deaton della Princeton University e dell'ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Ken Rogoff erano l'ultimo atto del collasso di ciò che è stato chiamato Washington Consensus.

Imposto ai paesi in via di sviluppo attraverso la formula dei programmi di «aggiustamento strutturale» finanziati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, il Washington Consensus ha regnato fino ai tardi anni '90 quando fu evidente che l'obiettivi perseguito - crescita sostenuta, riduzione della povertà e dell'ineguaglianza - era lungi dall'essere raggiunto. Ed è proprio alla metà di questo decennio che il «consenso» viene meno. Il neoliberismo rimane sempre lo «standard», ma molti economisti e tecnocrati hanno ormai perso fiducia in esso.

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 nonluoghi

Mercato e democrazia : A Trento il Festival dell'economia (liberista)

di Zenone Sovilla

mercatodemDa oltre un ventennio, in un crescendo che sfiora l'apoteosi, assistiamo a celebrazioni quotidiane del mercato senza regole e del primato dell'impresa. Una macchina propagandistica impermeabile a ogni indicatore di sofferenza: dalle vittime dell’inquinamento ai crac finanziari. Nei Tg si riferisce spensieratamente dell’ennesimo bollettino sui cambiamenti climatici e un attimo dopo si esalta la crescita del mercato dell’auto. Qualunque pensiero critico è assente o soverchiato dall'incessante rumore di fondo della propaganda mercantile.

Bene. A Trento hanno pensato che tutto ciò non bastasse.

Per glorificare la dimensione economica della vita umana ci vuole un bel festival. Detto, fatto: nel 2006 la prima edizione. La Provincia autonoma vi ha destinato 600 mila euro, altri 100 mila vengono dal Comune di Trento e ai rimanenti 450 mila pensa una serie di sponsor privati con in testa Banca Intesa [250 mila] e le assicurazioni Generali [150 mila]. Nel comitato promotore non manca l'Università di Trento e in quello organizzatore trovano posto Il Sole 24 ore [giornale della Confindustria] e l'editore Laterza. Quest'anno ci sono tutte le premesse per replicare in grande stile, dal 30 maggio al 3 giugno, la simpatica kermesse: una sfilata di Vip del liberismo e dintorni, da Romano Prodi a Pietro Ichino. Possibilmente, però, in salsa agrodolce e «politicamente corretta»: il Trentino, si sa, è margheritino. Ecco affiorare l'impronta del noto gruppo di economisti de Lavoce.info: il coordinatore scientifico del festival è Tito Boeri, docente di economia alla Bocconi (come altri protagonisti del festival) secondo il quale l’obiettivo è «spiegare l’economia a tutti». Proprio così: spiegare.