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pensieriprov

La Repubblica al capolinea

di Sandro Arcais

dsc 0386Con l’avvento di Draghi si chiude un ciclo e se ne apre uno nuovo. Come ha affermato Lucio Caracciolo

Questo governo è spartiacque. Fine di un non-regime, quello successivo alla Prima Repubblica, seguito per trent’anni da un declino tendente al caos.

Se Draghi fallirà, fallirà l’Italia. Se riuscirà, avremo un’altra repubblica. Presidenziale di fatto se non di diritto, perché la selezione dei ministri di questo esecutivo è funzionale al trasferimento di Draghi al Quirinale

Detto in altra maniera, più colorita, con Draghi si è sotterrato il corpo ormai in avanzato stato di putrefazione della Repubblica nata dalla Resistenza e basata sulla Costituzione e si sancisce anche in Italia la vittoria schiacciante del capitale nella sua decennale lotta di classe dall’alto contro il lavoro.

Con Draghi, si chiude il lungo ciclo apertosi con la nascita della Repubblica (se non prima, sin dal collasso della monarchia, l’8 settembre 1943) in cui il “quarto partito” evocato da De Gasperi, sconfitto nella lotta per la guida del nuovo stato nato dalle ceneri della monarchia fascista, intraprende una sorda e paziente guerra di condizionamento e contenimento dei progetti dei vittoriosi partiti di massa, in particolare di quello cattolico. Le loro casematte sono i ministeri e le istituzioni finanziari, la grande impresa privata e le sue organizzazioni sindacali, i sostanziali e pesanti appoggi esterni, inglesi, soprattutto, e statunitensi.

Questo lungo ciclo può essere diviso in almeno cinque fasi:

  1. una prima fase che si conclude grosso modo intorno alla fine degli anni Cinquanta, in cui il “quarto partito” riesce a imporre alla repubblica nata dalla Resistenza e fondata su una avanzata Costituzione di stampo keynesiano, una politica economica e sociale sostanzialmente liberista;
  2. una seconda fase, che si apre e si chiude tragicamente con la eliminazione di due dei suoi massimi rappresentanti, Enrico Mattei e Aldo Moro; fase che, pur nei suoi limiti, errori, insufficiente consapevolezza, contraddizioni e forse velleità, tese a una maggiore coerenza della costituzione reale con la Costituzione formale e alla definizione dell’interesse nazionale e al suo perseguimento, anche attraverso la costruzione di un sistema economico “misto” caratterizzato dalla decisiva presenza delle industrie di Stato; l’unica fase della breve storia della Repubblica in cui l’Italia ha espresso una classe dirigente;
  3. una terza fase, iniziata formalmente nel 1981, con il divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro, che determinò e diede il via al processo che portò al raddoppio del rapporto tra il debito pubblico italiano e il suo pil; in questa fase, il “quarto partito” tese la sua trappola, il debito pubblico, appunto, in cui i dirigenti politici di seconda generazione della Repubblica si infilarono non è dato sapere se consapevolmente o meno;
  4. una quarta fase, il cui inizio fu segnato dall’inchiesta giudiziaria di Mani Pulite, in cui avvenne l’azzeramento di un’intera classe dirigente erede di quella che aveva avviato e guidato la seconda fase; questa fase è caratterizzata dalla competizione tra i giovani rampolli scalpitanti e pieni di belle speranze europeiste, globaliste e “grandimpresiste” provenienti sia dall’area cattolica che comunista e Silvio Berlusconi, rappresentante di un ceto imprenditoriale medio e piccolo che se pensa che le spese in servizi pubblici siano sostanzialmente degli sprechi e che i dipendenti pubblici siano tutti dei fannulloni, tuttavia non vuole rinunciare alla protezione e alla spesa a debito dello stato; è la fase dello smantellamento dell’economia mista, delle privatizzazioni delle industrie e delle banche controllate dallo stato, delle liberalizzazioni e deregolamentizzazioni, delle grandi riforme strutturali nella pubblica amministrazione, nel lavoro, nella scuola, dell’apertura del ricco mercato italiano alle multinazionali attraverso lo strumento della tv commerciale, dell’improvvisa invasione pubblicitaria, della ri(n)voluzione culturale e dei costumi;
  5. una quinta fase, che si apre nel 2011 con la cacciata di Berlusconi dal governo, per ordine della BCE e per esecuzione di Giorgio Napolitano, caratterizzata dal susseguirsi di governi tecnici, semi-tecnici, tecnico-politici, politico-tecnici, politico-barricaderos; in questa fase monta la disaffezione nel paese per l’Europa delle regole, dell’austerità, della deflazione, fino all’esperimento populista, velleitariamente antieuropeista e fallimentare del governo giallo-verde.

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Uno dei protagonisti delle due ultime fasi è stato sicuramente Mario Draghi, come Direttore Generale del Tesoro dal 1991 al 2001, governatore della Banca d’Italia dal 2005 al 2010. Tra il 2002 e il 2005 l’intermezzo nel settore privato: è vicepresidente per l’Europa della banca d’affari Goldman Sachs. La grande banca d’affari americana è il trampolino di lancio verso la carica di governatore della BCE dal novembre del 2011 al 2019. Due anni di interludio, ed eccocelo Presidente del Consiglio.

Draghi alla guida dell’Italia rappresenta la vittoria definitiva del “quarto partito” nella sua lunga, silenziosa, paziente, carsica lotta contro la Repubblica nata dalla Resistenza. Alle classi dirigenti forgiate nella lotta clandestina contro fascismo e nazismo ci sono voluti dieci-quindici anni per impratichirsi delle leve dell’amministrazione del Paese e rivendicarne la guida diretta. Al “quarto partito” e ai suoi alleati internazionali ci sono voluti trent’anni per disfarsi dell’anomalia economica italiana (la sua economia mista) e altri trent’anni per capire che era giunto il momento di uscire dal riparo sicuro e ombroso dell’ufficio del tecnocrate ed esporsi nel governo politico diretto del paese.

Draghi rappresenta questo grande evento epocale nella tutto sommato breve storia del nostro Paese.

Ma Draghi non è Italia: Draghi è Italia dentro Europa, ed entrambe dentro la sfera imperiale degli Stati Uniti. Secondo Carlo Pelanda, Draghi

È un pari dell’impero, non ha bisogno di chiedere all’impero. Ha sempre lavorato nel sistema dell’élite, ne è parte. È uno dei cavalieri della tavola rotonda in un contesto Camelot. (vedi qui)

Secondo me, il professor Pelanda confonde gli Dei con i loro Sacerdoti, oppure i Grandi Sacerdoti con i loro Scribi. Mario Draghi è uno dei Sacerdoti della religione capitalistica, le cui radici sono disegnate nel grande affresco di Max Weber e le cui caratteristiche sono tratteggiate genialmente in pochi fulminanti tratti da Walter Benjamin. Mario Draghi ne ha l’integrità adamantina e ascetica, magari nella versione gesuitica, l’ascetismo totalmente intramondano, la totale dedizione imperturbabile di fronte alle sofferenze derivanti dalle pratiche della sua religione, la granitica certezza che tali sofferenze non ne determineranno la dannazione, dal momento che, per definizione, dalla celebrazione e glorificazione degli Dei non può derivare la dannazione per il celebrante. Ed è così che Mario Draghi non ha esitato a partecipare e dare il suo attivo contributo da Governatore della BCE al massacro e all’umiliazione di un popolo, quello Greco, nella fase centrale del suo mandato. Come, nel film Mission, l’alto prelato inviato del Papa non indietreggia di fronte alla necessità di appoggiare le pretese ingorde di Portoghesi e Spagnoli e di infliggere inaudite sofferenze alla piccola tribù di indios amazzonici, in nome della sopravvivenza della millenaria missione sulla terra della Santa Romana Chiesa cattolica e apostolica e del suo culto.

Ma l’Italia non è la Grecia. Non nel senso che Draghi sia stato fulminato da chissà quale amor patrio per i destini dell’Italia e degli Italiani, amor patrio che l’ha spinto a rispondere alla chiamata della Patria in pericolo e bla bla bla. Si senta in proposito il lapsus freudiano che ha tradito Draghi durante il suo discorso al Senato per la fiducia, dove ci viene svelato che il paese Italia, dal punto di vista del nostro capo del governo, è “vostro” (cioè nostro) e non “suo”. L’Italia non è la Grecia nel senso che quest’ultima può essere sacrificata alle mire espansionistiche del capitale tedesco e francese sull’altare della tenuta del sistema finanziario europeo e quindi del capitalismo occidentale. L’Italia no, perché sacrificare l’Italia significa destabilizzare un intero continente, un intero progetto, soprattutto ora che il capitalismo occidentale e il suo strumento politico, gli Stati Uniti (o viceversa: gli Stati Uniti e il loro strumento ideologico ed economico, il grande capitale), è impegnato (sono impegnati) a riorganizzare il serrate le fila per affrontare la sfida cinese. La missione affidata a Draghi dal cenacolo dei Gran Sacerdoti del Capitalismo Occidentale non è salvare l’Italia, bensì tentare di rimettere in sesto per quello che gli è possibile l’Italia, per usarla per salvare la disunione europea dalla riemergente competizione franco-anglo-tedesca per l’egemonia sul continente europeo.

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Dalla riproduzione del sistema [capitalistico] … si può trarre una duplice tendenza: il capitale non solo tende a crescere rispetto al reddito, … ma tende anche, e soprattutto, a centralizzarsi sempre in meno mani. (Emiliano Brancaccio, Catastrofe o Rivoluzione)

… il primo progetto di società [quello socialdemocratico keynesiano, ndr] enfatizza processi di riforma e di innovazione delle forme di vita compatibili con la crescita e il benessere a livello mondiale, e il valore della diversità dentro un modello policentrico. Il secondo [quello capitalistico neoliberista], invece, si fa portavoce della competitività e crescita delle aree forti, e dell’austerità, sobrietà e decrescita delle aree povere e da impoverire. (Bruno Amoroso, Figli di Troika)

Alla luce delle due citazioni vanno lette, secondo me, le parole del prof. Sapelli a commento dell’ascesa di Draghi:

La chiamata di Draghi non ha ragioni nella politica europea, bensì nel processo di centralizzazione capitalistica. … Il punto è non far crollare la fornitura, la supply chain, del Veneto, dell’Emilia … Bisogna salvare una catena industriale di grandissima qualità, rodata da 40 anni di interconnessione, che non si può sostituire. (Intervista a La Verità del 15 febbraio 2021)

Nell’intervista, il professore si riferisce alla stretta interconnessione che lega l’industria automobilistica tedesca alla produzione di componentistica basata soprattutto nelle due regioni citate. In quest’ottica, la soluzione Draghi va oltre l’Italia e va oltre la Germania e risponde alle esigenze di sempre maggiore concentrazione e interconnessione del grande capitale europeo. Messe in questa prospettiva, assumono tutto il loro significato le parole del neo capo del governo italiano quando afferma la necessità (ineluttabilità) di:

condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione.

È il processo di concentrazione del capitale, che lo chiede. E i popoli europei, volenti o nolenti, devono accettare e assecondare tale processo. Il governo del mercato. La tomba della democrazia.

Sempre nell’intervista già citata, il prof. Pelanda afferma che Draghi

Fa parte di un mondo, sin da quando era giovane, che si pone il problema di governare bene un sistema. (…) rappresenta il primato della tecnica sulla politica, … lavora per tenere il sistema in equilibrio

Draghi (e Pelanda) non vedono altro sistema possibile, e se lo vedono il loro compito principale è combatterlo e distruggerlo. E, dopo averlo distrutto, cospargerlo di sale in modo che non possa più dare vita a una qualche alternativa. Draghi l’ha fatto negli anni Novanta, giocando un ruolo di primo piano nel legare l’Italia al vincolo esterno teorizzato da Guido Carli (vedi in proposito l’articolo pubblicato su Patriottismo Costituzionale), vincolo che limitasse le leve di governo autonomo dell’economia della classe politica italiana, giocando un ruolo da protagonista nella caduta del governo Berlusconi, e infine oggi imponendo una troika interna al paese. Il problema Draghi non è il suo europeismo, bensì la sua religione capitalista. Il problema non è l’Europa, bensì l’Europa plasmata sulle esigenze di concentrazione del grande capitale finanziario e industriale. E anche se i Draghi e i Pelanda fanno di tutto per cancellarne ogni traccia, un’altra Europa è esistita, ed era decisamente migliore di questa loro che sta trionfando oggi.

L’Europa (e l’Italia) di Draghi sarà l’Europa delle crescenti disuguaglianze territoriali e sociali, della «crescita delle aree forti, e dell’austerità, sobrietà e decrescita delle aree povere e da impoverire», dell’ulteriore declino e deriva del Sud verso il mondo del caos rappresentato dalla costa settentrionale dell’Africa e della crescente interconnessione del nuovo triangolo industriale lombardo-veneto-emiliano con la Germania e l’Europa centrale. Teniamoli d’occhio questi indicatori, perché non saranno incidenti di percorso, conseguenze non volute, bensì la consapevole e necessaria conseguenza, gli inevitabili danni collaterali necessari a tenere il «sistema in equilibrio»: in tale sistema, accumulazione e centralizzazione delle risorse implicano il loro continuo spostamento dalla periferia al centro. Ecco perché Salvini è così contento di Draghi, ed ecco perché quello attuale pare un governo lombardo piuttosto che italiano.

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In un interessante articolo pubblicato su Voci dalla Germania, l’intellettuale austriaco Wilhelm Langthaler afferma che

in Italia è in corso una grande lotta di classe

e ha ragione, anche se non specifica tra quali classi. Per farlo è necessario affidarsi alla lucida analisi delle dinamiche economiche, politiche e sociali del capitalismo contemporaneo offerta da Emiliano Brancaccio in un recente e denso articolo pubblicato dalla rivista on line Il Ponte dal titolo Catastrofe o rivoluzione. Secondo Brancaccio, l’inesorabile processo di centralizzazione dei capitali può incontrare un rallentamento a seguito di una reazione da parte dei capitali intermedi, la cui prospettiva è nazionale piuttosto che internazionale. Tali capitali medi e piccoli potrebbero avere la forza di imporre localmente al grande capitale un keynesismo non rivoluzionario ma reazionario.

È il caso in cui [una politica keynesiana] venga messa al servizio esclusivo dei capitali più deboli e fragili, al solo fine di allontanare il pericolo di una loro liquidazione e rallentare così la centralizzazione nelle mani dei capitali più forti.(…) Manovrando allo scopo di tenere stabilmente il tasso d’interesse sotto il tasso di crescita, il policymaker keynesiano rende meno stringenti le condizioni di solvibilità del sistema, riduce le bancarotte e i fallimenti e pone così un freno alle liquidazioni e acquisizioni dei capitali deboli a opera dei forti. Insomma, una sorta di helicopter money for the petty bourgeoisie anziché for the people.

Insomma, è vero che in Italia è in corso una grande lotta di classe, ma tra grande capitale dalle prospettive internazionali e piccolo e medio capitale dalle prospettive nazionali. Il mondo del lavoro ne è escluso. Da questa prospettiva, il governo Draghi rappresenta una momentanea tregua in questa lotta, un compromesso tra il grande capitale finanziario internazionale impersonato da Draghi e il piccolo e medio capitale nazionale rappresentato dalla Lega. In entrambi i fronti una prospettiva e una strategia nazionale è assente: per l’Italia, il vestito o è troppo largo o è troppo stretto.

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Gli europeisti di retto sentire si rendono conto che per partecipare da soggetto del sistema comunitario abbiamo bisogno del Sud e delle isole, e che per questo l’italianità della Sicilia è obbligatoria? E gli atlantisti altrettanto sinceri intendono che gli Stati Uniti non sono disposti a evacuarvi le basi militari, permettendo che vi si installi un nemico? Non ne siamo certi. (Luciano Caracciolo, La soglia di Sicilia, editoriale del numero 2/21 di Limes, L’Italia al fronte del caos)

Quando i due valligiani valtellinesi Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno immaginarono e lavorarono alla pianificazione dello sviluppo del Mezzogiorno, lo fecero nella consapevolezza che non poteva darsi un’Italia prospera e protagonista in Europa se non avvicinando progressivamente il livello di sviluppo meridionale a quello settentrionale. Il loro perimetro era l’Italia. Certo, l’Italia dentro quell’Europa che si andava costruendo dietro lo stimolo statunitense, ma l’idea era, sostanzialmente, che ogni governo dovesse sviluppare la propria economia e mercato interno attraverso l’intervento diretto dello stato nell’economia e il controllo della finanza. Il mercato europeo, potenziato dalla crescente prosperità di ciascuno stato, doveva retroagire e fare a sua volta da potenziale sbocco per le esportazioni dei paesi partecipanti, favorendone così l’ulteriore sviluppo. L’Unione Europea dei Pagamenti era un esempio di questa Europa, ma essa fu abbandonata nel 1958 proprio perché aveva avuto successo nel favorire lo sviluppo di ciascuna delle economie aderenti, e le economie europee si sentirono nuovamente pronte a scendere nel campo della competizione e concorrenza, e che vinca il migliore e pazienza per il perdente.

Altra Italia, altra Europa, altri Stati Uniti, altro pensiero e sistema economico.

E se c’è qualcuno che pensa astoricamente e ideologicamente che l’esperienza italiana dello stato imprenditore e dell’economia mista sia stato di un modello fallimentare, rifletta sul fatto che, come afferma il prof. Pelanda nell’intervista citata,

la rilevanza passiva dell’Italia è molto superiore rispetto a quanto si valuti comunemente

ed è grazie a quei “falliti” che hanno pensato e portato avanti quel progetto, se oggi l’Italia è un boccone troppo grande per i nostri velleitari fratelli-serpenti franco-tedeschi, e che colà ove si puote si è deciso che l’Italia non deve fare la fine della Grecia.

Almeno per ora.

P.S. E il fronte del lavoro? Non pervenuto: perso nel mondo irenico e pacifico in cui la lotta di classe non esiste più ed esistono solo le grandi narrazioni, i diritti civili, l’universalismo della morale e il baloccamento con le varie culture pop. Come è potuto succedere? Ci vorrebbe un intero libro. Io ve ne segnalo due: Marco d’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, e Beppe De Sanctis, La resa dei conti. Alle radici di mafia capitale.

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