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gliasini

Una democrazia a pezzi

di Alessandro Coppola

TUL19006 016 1536x1024La democrazia italiana versa in condizioni catastrofiche, probabilmente le peggiori fra i paesi di quella che un tempo era definita l’Europa occidentale. Le ultime settimane hanno illustrato questa condizione in modo particolarmente persuasivo attraverso le sue varie dimensioni.

Le modalità con le quali si è prodotta la crisi del governo Conte, prima di tutto. Sappiamo che nella crisi non sono mai state pubblicamente formulate da parte di chi l’aveva determinata richieste precise che, soddisfatte le quali, l’avrebbero sventata. Le vere ragioni si sono rivelate in seguito, quando la nascita del governo Draghi è stata rivendicata come l’obiettivo di un’azione che, per l’appunto, non aveva mai posto esplicitamente quell’obiettivo. Questa opacità è resa possibile dalla attesa generalizzata di un intervento presidenziale che, ormai, non è più irrituale ed è diventata un tratto strutturale del nostro sistema. Tanto da permettere ad alcuni attori politici di parassitare le azioni del Presidente. Se Matteo Renzi non avesse avuto la certezza che le camere non sarebbero state sciolte in virtù, per l’appunto, di un intervento presidenziale per un “governo del presidente” non avrebbe potuto aprire una crisi senza mai dichiarare i suoi veri obiettivi, correndo i relativi rischi e trovandosi di fronte ai relativi ostacoli. Renzi è abile e scaltro, ma questa sua abilità è in gran parte prodotta dal contesto di generalizzata deresponsabilizzazione della classe politica e sovra-responsabilizzazione del Quirinale che, per quelli come lui, è diventato ideale.

Sappiamo cosa è accaduto dopo, eventi del tutto straordinari in una democrazia parlamentare. E tutti egualmente salutati come grandi traguardi da parte dei grandi media. È stata pronunciata la formula “governo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”, inaudibile in un sistema pluralista. L’intera classe politica si è preventivamente, e “senza condizioni”, consegnata ad una personalità appartenente alla sfera “extra-politica”, senza trattare sulla composizione della maggioranza e sul suo programma (stando a quanto è stato dichiarato). La medesima classe politica, insieme ai grandi media, ha alimentato una concezione sostanzialmente pre-scientifica e d’impronta magico-religiosa per la quale vi sarebbero singoli individui in grado di “risolvere” problemi e questioni che in una democrazia (ma anche in una non democrazia) possono essere trattati esclusivamente attraverso progetti politici, di natura ovviamente collettiva. È stata sostenuta anche l’idea che tali governi “terzi”, “tecnici”, “del presidente” aumenterebbero la credibilità del paese, una credibilità ormai ridotta alla mera dimensione finanziaria, quando a ben vedere sono la certificazione della sua tragica nanità politica (il messaggio pare essere che gli italiani non possono permettersi la democrazia e che devono scegliere fra la credibilità finanziaria e quella politica a favore della prima).

La crisi ha poi permesso anche di osservare da molto vicino le condizioni dei “partiti”. Una decisione di così grande momento e di forte discontinuità nei confronti del recente passato quale quella della nascita del nuovo governo avrebbe dovuto essere espressione, a rigore, di processi decisionali complessi e conflittuali interni ai partiti. Invece sostanzialmente quasi nulla di tutto questo è accaduto perché, semplicemente, la gran parte dei partiti non dispone più di una vita democratica interna. L’area che possiamo definire per convenzione “liberale” è fatta sostanzialmente di partiti personali o al meglio notabilari che dipendono integralmente dalle indicazioni del capo, spesso formulate via social network. A destra, vi sono egualmente partiti plebiscitari caratterizzati dalla sostanziale assenza di forme di pluralismo interno (se non qualche funzionamento oligarchico, come nella Lega). Il Pd, uno dei pochi partiti ad avere formalmente una forma democratica compiuta, all’opposto si è ormai consolidato come sistema oligarchico nel quale la perenne unanimità delle decisioni è la condizione di una completa opacità delle rispettive posizioni. Complessivamente, i partiti italiani sono fra i meno democratici d’Europa, eppure i grandi media non fanno inchiesta su questa grave e profonda degradazione della nostra vita democratica – degradazione che ha tante altre dimensioni, a partire dalla costante ibridazione fra pezzi di ceto politico e interessi – e si sono dedicati a fare addirittura ironia sulla discussione interna e sul referendum del Movimento 5 Stelle (criticabile per tante ragioni, sebbene assolutamente non unico fra i partiti europei, ma senza dubbio non più della pressoché completa scomparsa della vita democratica dei partiti).

La progressiva naturalizzazione dell’intervento presidenziale come tratto strutturale del nostro sistema alimenta e giustifica ulteriormente l’ormai decennale discorso sui “tecnici”, un discorso straordinariamente politico in quanto de-politicizzante (ovvero la forma più fine e sofisticata del fare politica). Mario Draghi non è un “tecnico”, non solo perché i tecnici in politica non esistono, ma anche perché per l’appunto il suo governo nasce come progetto eminentemente politico (sebbene clandestino, in quanto mai dichiarato e perseguito apertamente da forze politiche). Un governo che nasce per cambiare maggioranza a favore di alcune forze politiche e contro altre forze politiche. E che, nonostante la sua profondissima politicità, può fare leva sulla natura di intervento “non politico” e “sopra le parti” del Presidente. Un vantaggio strategico questo perché, ad esempio, le scelte “non politiche” e “sopra le parti” del Presidente sono di per sé non discutibili e quindi non appare legittimo chiedere: “Presidente, perché Draghi e non qualcun altro?” (e infatti nessuno lo ha chiesto).

Al di là dei suoi meriti politici (passati e futuribili), la stessa scelta di Mario Draghi chiarisce di i termini del discorso politico “pro-tecnico”. La definizione di “competenza” è quella prevalente degli ultimi trent’anni: il vertice del governo è da affidare a figure interne ai sistemi di regolazione finanziaria. Ed anche ovviamente quella del ministero dell’economia (peraltro, nell’indignazione perenne per la politica fatta dagli “incompetenti”, si dimentica che tale ministero è stato occupato sostanzialmente senza soluzione di continuità da super-tecnici della finanza pubblica). Più nello specifico, con l’ascesa di Mario Draghi, Banca d’Italia si conferma come una componente rilevante della stessa “statualità” italiana: è difficile, forse impossibile trovare un altro paese europeo nel quale la banca centrale abbia espresso un numero così elevato di capi dello Stato, di governo e di ministri). Nonostante non sia affatto evidente, alla crisi si è data la consueta lettura di “cirisi di credibilità finanziaria” e la soluzione è stata conseguente. Possiamo ovviamente immaginare altre definizioni (sanitaria, organizzativa, di programmazione per il recovery fund) e quindi altre soluzioni, ma è da registrare che invece la definizione e la soluzione è stata la stessa che si riproduce dal 1993 in avanti.

È difficile, forse impossibile trovare un altro paese europeo nel quale la banca centrale abbia espresso un numero così elevato di capi dello Stato, di governo e di ministri.

Altre scelte sono egualmente importanti per definire cosa si intende per “tecnico” nel discorso politico pro-tecnico italiano. Per diversi ministeri sono stati egualmente scelti individui totalmente interni ai sistemi tecnici che dovrebbero governare: il Ministero dell’Interno affidato ad un ex prefetto, l’università a ex Rettore, la giustizia affidata a un ex presidente della Corte Costituzionale. Non si tratta certo di un orientamento che caratterizza esclusivamente i “governi del Presidente” – il governo precedente era molto simile, da questo punto di vista – ma esso è impiegato con particolare intensità per legittimare tali governi. Qui l’idea che si impone è quella dell’autogoverno degli apparati, ovvero che tali sistemi vadano solo “ottimizzati” e che abbiano tutte le risorse interne per funzionare meglio, secondo una razionalità che è quella interna al sistema. Particolarmente radicale, da questo punto di vista, la scelta di affidare la delega ai servizi a un ex capo dei servizi. Scelta che pare rappresentare l’apice dell’apparatizzazione della politica italiana per la quale anche le funzioni più chiaramente politiche di sorveglianza sugli apparati vengono affidate a esponenti degli apparati (anzi, nella fattispecie e sebbene per breve tempo, letteralmente del medesimo apparato).

Poi abbiamo altre scelte, che rispondono a declinazioni diverse del discorso politico pro-tecnico. Per la “Transizione ecologica” si è optato per una figura che suggerisce una lettura essenzialmente tecnologica del problema ecologico, una lettura molto politica diversa da quella altrettanto politica, ma opposta, suggerita dal concetto stesso di “transizione ecologica”. Che riguarda per l’appunto il carattere complesso – sociale, istituzionale, culturale, di potere – di una transizione da un modello di sviluppo e di impiego delle risorse a un altro, complessità tale da relativizzare e anzi mettere in causa il ruolo della tecnologia di per sé. Il Ministero dello Sviluppo Economico è andato invece a un politico. Una nomina salutata però anche in altri partiti quale scelta all’insegna della “competenza”, competenza che si regge sulla vicinanza del ministro agli “interessi industriali del Nord”. Sebbene in modo indiretto, emerge l’idea che la guida politica dell’industria spetti all’industria e che quindi quegli interessi siano in grado non solo di assicurare la crescita dell’industria – cosa ovviamente discutibile, considerata l’arretratezza e l’arretramento di molta industria italiana – ma anche che lo possano fare nell’”interesse generale” (nozione nella quale credo poco, ma che il discorso pro-tecnico, per definizione, promuove invece con entusiasmo).

Quindi mi pare che emergano diverse declinazioni del discorso politico pro-tecnico. L’idea tecnocratica “classica”: i singoli sistemi tecnici hanno tutte le risorse interne per governarsi e devono quindi essere lasciati liberi di auto-governarsi (in questo il sistema finanziario è sovra-ordinato a tutti gli altri sistemi e per questo la leadership deve essere affidata ad un tecnico di quel sistema). E l’idea più apertamente politica che vede il governo come un’attività da affidarsi ai poteri e interessi egemoni, nelle mani di quelli “che sanno cosa bisogna fare”. Ovviamente, queste non sono le uniche logiche: vi sono nomine tradizionalmente politiche (ovvero per soddisfare le richieste dei partiti di collocazione di proprio personale) e vi sono nomine ancora più politiche perché conferiscono la gestione di determinati sistemi tecnici a figure che hanno avuto un qualche ruolo nella critica di questi sistemi tecnici (sembra essere il caso di Enrico Giovannini, che da capo di un attore collettivo ambientalista rappresenta potenzialmente un rischio per i sistemi tecnici che dovrà governare, prefigurando la possibilità che la transizione ecologica possa effettivamente essere una transizione e non una mera ottimizzazione).

Tuttavia, quelle descritte mi paiono le logiche prevalenti, logiche che impongono alcune domande, che hanno tutte a che fare con una profonda crisi della democrazia. Quale è lo spazio della “domanda sociale” in una concezione che prevede che determinati apparati e sistemi possano auto-regolarsi prevedendo figure interne nei posti di comando? E a cosa servono in questo contesto i livelli di responsabilità politica, se hanno un profilo che non ha a che fare con la rappresentanza politica – e quindi la sua ipotetica capacità di esprimere/mediare domande anche esterne ai sistemi tecnici, ovvero la domanda sociale – ma con meccanismi di selezione interna ai sistemi tecnici di regolazione? E anche quale è poi lo spazio dell’innovazione? Che non necessariamente proviene dai sistemi tecnici di regolazione, anzi si potrebbe suggerire il contrario. Il fatto che l’affermarsi di questo approccio in tutti questi anni non si sia associato a un forte percezione di miglioramento delle condizioni specifiche di questi sistemi – è il caso, ad esempio, dell’economia che non ha cessato di peggiorare dal punto di vista delle attese, nonostante il predominio dei tecnici – come si spiega?

In questo scorcio politico crepuscolare si delinea non solo la generalizzata crisi dei partiti, ma in particolare il catastrofico fallimento dei 5 Stelle sul fronte su cui intendevano caratterizzarsi di più, quello del cambiamento delle istituzioni. Nonostante il loro peso parlamentare, non hanno voluto né sono riusciti a fare nulla di significativo su questo fronte, se non realizzare la riduzione della rappresentanza parlamentare figlia di un trentennio di campagne anti-politiche (largamente condivise da tutto l’arco politico ormai orientato a una sorta di “populismo di stato”: si ricordi l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, altra scelta destinata ad accentuare la natura oligarchica di ciò che resta dei partiti). Non hanno lavorato a leggi sui partiti e sui conflitti di interessi. Non hanno realizzato nemmeno una pur minimale iniziativa di democrazia partecipativa, come se ne moltiplicano ovunque in Europa, accodandosi all’ennesima riedizione della visione “commissariale” e accelerazionista del modello di disegno e realizzazione delle opere pubbliche. Il profilo del Movimento 5 Stelle è stato sempre sospeso fra istinti autoritari, ed il suo essere partito-azienda era inequivoco a questo proposito, e spinte partecipative; quindi tale disastro non stupisce. Egualmente, questo fallimento non è esclusiva loro responsabilità. Il cosiddetto centro-sinistra, una volta impostasi la collaborazione, ha puntato molto sulla loro normalizzazione con l’ambizione di trasformarli rapidamente in un’oligarchia simile alle altre oligarchie (scommessa pienamente vinta). E certo non ha provato a fare leva su di esso per costruire una nuova stagione partecipativa.

L’ultima crisi politica ha rappresentato l’apice di un decennio di radicalizzazione del discorso politico attorno a due poli, il plebeismo da una parte e l’elitarismo dall’altra. Si tratta di due dimensioni della medesima arretratezza, della medesima ideologia anti-democratica italiana (oggi largamente prevalente). Da una parte una profonda sfiducia ed estraneità alle istituzioni democratiche da parte dei ceti popolari e dall’altra un ostentato cinismo e disprezzo sociale da parte dei ceti superiori nei confronti dell’idea della partecipazione popolare (veri democratici, in Italia, sono una ridotta minoranza e di sicuro non si trovano fra i ceti superiori). Questi due discorsi, peraltro, si compenetrano: come noto, i “tecnici neutrali” sono stati invocati anche da parte dei plebeisti e gli elitisti ricorrono quando necessario al linguaggio dei plebeisti per assicurare l’arrivo dei tecnici (che governano a nome dei “liberali”, per procura). Fra l’“uno vale uno” e l’invocazione dei “competenti” c’è la stessa radicata ostilità alla pratica collettiva della democrazia e delle sue istituzioni. Questo quadro caotico, fatto di spinte diverse – l’autonomizzazione degli apparati dello stato, la definitiva degenerazione personale o oligarchica dei partiti, l’acutizzarsi dell’ibridazione fra ceto politico e interessi privati, il disprezzo dei ceti superiori per il popolo e l’estraneità di questi allo stato – ci fa capire che abbiamo una democrazia letteralmente a pezzi.

Va guardata in faccia, questa crisi della democrazia, è tremenda e pericolosissima.

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marku
Sunday, 04 April 2021 22:02
bello, lucido, intransigente
questo commento.
una classe politca estemporanea ed inguardabile
con all'apice una mummia vivente
proveniente da un mondo che non c'è più
ed illusa che vedere il mondo
con gli occhiali di ieri
dia più sicurezza
ai destini di domani.
Costoro quindi,
eterodiretti da forze
economiche e kulturali
con alla testa
energumeni del pensiero
liberal/liberista
e con l'impero decadente
stellestrisciato,
delegano un cosiddetto tecnico
(un cialtrone, servo, ma proprio servo tipo maggiordomo dentro, di una ristretta elites mondiale dalle idee socio/economiche
che da trent'anni almeno producono
cataclismi
economico/sociali e politici
che stanno portando l'intero mondo
sull'orlo della WW3)
a dirigere le sorti
di un ex belpaese.
Il cialtrone crede di poter replicare
i suoi presunti successi
€uropei,
gli inguardabili di perpetuare il loro
parassitismo
con altre elezioni
in cui tutti perdono,
qunidi tutti vincono.
Ne vedremo però delle belle
non appena gli ordoliberisti
tenteranno di azzannare
l'italietta alla gola
per papparsi quello che fà loro più gola,
le poche filiere produttive ancora
in competizione su scala globale
(leonardo, eni ad esempio)
e soprattutto il gigantesco boccone dei risparmi
italioti, che un popolo di dannate formiche
con sacrifici oramai settantennali
ha messo da parte
liretta dopo liretta.
tutto questo naturalmente se prima il decadente impero del male
non deciderà di fermare
la sua decadenza politica ed economica
con un bel fuoco
che loro sperano distruttivo per gli altri
e rigeneratore per
se stesso.
Appuntamento quindi
nel mese di maggio
nel Donbass

CHE VIVA ROBESPIERRE

https://www.youtube.com/watch?v=6XVCZJMZfgI
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marku
Sunday, 04 April 2021 22:01
bello, lucido, intransigente
questo commento.
una classe politca estemporanea ed inguardabile
con all'apice una mummia vivente
proveniente da un mondo che non c'è più
ed illusa che vedere il mondo
con gli occhiali di ieri
dia più sicurezza
ai destini di domani.
Costoro quindi,
eterodiretti da forze
economiche e kulturali
con alla testa
energumeni del pensiero
liberal/liberista
e con l'impero decadente
stellestrisciato,
delegano un cosiddetto tecnico
(un cialtrone, servo, ma proprio servo tipo maggiordomo dentro, di una ristretta elites mondiale dalle idee socio/economiche
che da trent'anni almeno producono
cataclismi
economico/sociali e politici
che stanno portando l'intero mondo
sull'orlo della WW3)
a dirigere le sorti
di un ex belpaese.
Il cialtrone crede di poter replicare
i suoi presunti successi
€uropei,
gli inguardabili di perpetuare il loro
parassitismo
con altre elezioni
in cui tutti perdono,
qunidi tutti vincono.
Ne vedremo però delle belle
non appena gli ordoliberisti
tenteranno di azzannare
l'italietta alla gola
per papparsi quello che fà loro più gola,
le poche filiere produttive ancora
in competizione su scala globale
(leonardo, eni ad esempio)
e soprattutto il gigantesco boccone dei risparmi
italioti, che un popolo di dannate formiche
con sacrifici oramai settantennali
ha messo da parte
liretta dopo liretta.
tutto questo naturalmente se prima il decadente impero del male
non deciderà di fermare
la sua decadenza politica ed economica
con un bel fuoco
che loro sperano distruttivo per gli altri
e rigeneratore per
se stesso.
Appuntamento quindi
nel mese di maggio
nel Donbass

CHE VIVA ROBESPIERRE

https://www.youtube.com/watch?v=6XVCZJMZfgI
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