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micromega

Spagna, vince la conservazione

Nessuna spallata da Podemos

di Steven Forti e Giacomo Russo Spena

Fortemente condizionate dalla Brexit e dalla paura del cambiamento, dalle urne iberiche esce un netto successo della destra di Rajoy. Il Psoe giunge secondo, a conferma della vittoria dell’establishment. Podemos al 21% paga l’accordo elettorale con la sinistra radicale di IU. Ma la partita è ancora aperta e la forza di Iglesias, dall’opposizione, potrà dire la sua

iglesias 675Gli exit poll avevano illuso. I dati reali ci conducono ad un’altra dura verità. La faccia di Pablo Iglesias, alle ore 23, la dice lunga. Funerea. Nessuna spallata. Nessun sorpasso di Podemos ai danni dei socialisti del PSOE. Anzi, il voto spagnolo ci evidenzia come il sistema abbia tenuto. La governabilità è ancora complicata in Spagna, nessun partito ha raggiunto la maggioranza assoluta, ma si preannuncia una grande coalizione PP-PSOE o un governo in minoranza dei popolari con l’astensione dei socialisti. Se ormai si può affermare in maniera conclamata che lo storico bipartitismo iberico, che si è alternato al potere dalla caduta di Franco in poi, è definitivamente tramontato grazie alla presenza di Podemos – stabile sopra al 20 per cento – e in parte di Ciudadanos, anche se in calo, dall’altro la “vecchia politica” non viene scardinata dalle forze del cambiamento. Le elezioni di ieri segnano il successo dell’establishment. Questo il primo dato da analizzare delle elezioni iberiche.

La storia non si è ripetuta. La Spagna del 2016 non è la Grecia del 2015. Unidos Podemos non è riuscito nell’impresa di superare i socialisti e di trasformarsi nel secondo partito nelle Cortes di Madrid. Il PSOE non è il PASOK, ma un partito più strutturato che, per quanto stia vivendo una profonda crisi, regge e perde soltanto 120 mila voti. E il PP non è Nea Democratia. Mariano Rajoy vince con un ampio margine, migliorando i risultati di dicembre. Non è “El triunfo de Rajoy”, come titola il quotidiano di destra La Razón, ma poco ci manca. A sorpresa, siamo forse di fronte al suo capolavoro. Il premier spagnolo era considerato un cadavere politico – con il PP travolto da vari scandali di corruzione – e invece rimane in sella, potendo anche sperare di presiedere il nuovo governo. E soprattutto – come già sottolineato – il bipartitismo non crolla, ma si rafforza: dal 50% dei voti di dicembre passa a quasi il 56%. Gli elettori si rifugiano nei partiti tradizionali in un momento di tensioni e grandi incertezze segnate dal referendum sulla Brexit.

Secondo elemento da tenere in considerazione: la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea ha fortemente condizionato il voto iberico. Sarebbe curioso sapere come sarebbe finita la competizione elettorale spagnola se si fosse votato prima del voto a Londra. Ci rimarrà il dubbio. Di certo, dopo la Brexit a Madrid è montato il timore per la "terra incognita", quindi la maggior parte degli spagnoli si è riparato dietro il vecchio establishment. Nessun cambiamento, nessun “salto nel buio”. Troppa paura. Si tenga presente poi che l’elettorato spagnolo è fortemente europeista. Il voto conservatore è apparso l’unico rimedio, anche per porre fine all’ingovernabilità che ha accompagnato la Spagna negli ultimi 6 mesi. “Meglio l’usato garantito” avranno pensato molti spagnoli mettendo nelle urne la croce sul simbolo del PP. Il “voto utile” di centro-destra, chiesto ripetutamente da Rajoy in campagna elettorale, va tutto al PP a discapito di Ciudadanos.

Ma guardiamo più dettagliatamente i dati. Il PP si conferma primo partito con il 33% dei voti e 137 deputati. Vince in 40 delle 50 province spagnole. Rispetto a sei mesi fa guadagna 700 mila voti (sfiorando quota 8 milioni), il 4,3% e 14 deputati. Non è poco, affatto. Soprattutto per un partito colpito ripetutamente da casi di corruzione e da scandali come il recente “Fernández Díaz Gate”, cha ha visto coinvolto l’attuale ministro degli Interni.

I socialisti, dal canto loro, tirano un sospiro di sollievo: si mantengono come seconda forza nel Parlamento. Perdono comunque 5 deputati (da 90 a 85) e 120 mila voti rispetto a dicembre, ma, tenendo conto dell’aumento dell’astensione (dal 26,8 al 30,1%), passano dal 22 al 22,6%. Per Pedro Sánchez è una boccata d’ossigeno. Ora bisognerà capire se lo obbligheranno alle dimissioni o se lo lasceranno traghettare il partito in un momento complicato. Alla sua principale avversaria dentro il PSOE, Susana Díaz, presidente dell’Andalusia, non è andata meglio: nella sua regione è stata superata dai popolari, dopo anni di egemonia socialista. Non è nella condizione di forza per chiedere la testa di Sánchez. Di certo, si aprirà un serrato dibattito interno perché non si capisce ancora quale posizioni avrà il PSOE nei confronti del PP: appoggio esterno, opposizione o larghe intese?

Per Ciudadanos si tratta invece di una cocente sconfitta. Il partito guidato da Albert Rivera perde 400 mila voti e ben 8 deputati (da 40 a 32), penalizzato anche dal sistema elettorale spagnolo. Diventa una forza non ancora residuale (ha comunque ottenuto più di 3 milioni di voti), ma che potrebbe diventarlo, come è successo nel recente passato per Unión Progreso y Democracia (UPyD) o negli anni Ottanta per il Centro Democrático y Social (CDS) di Adolfo Suárez. E soprattutto non è più indispensabile per un accordo di governo. Il finto cambiamento, la Podemos di destra, sembra già essere così una meteora del panorama spagnolo e molti voti sono andati persi a favore del PP che ha aumentato i consensi anche in Catalogna.

Torniamo alla sinistra e alla mancata spallata. Per Unidos Podemos non è una sconfitta, ma la delusione è grande. “Il risultato non è buono” ha commentato Iglesias. “Ci aspettavamo dei risultati differenti. È il momento di riflettere. La 'confluencia' si è comunque rivelata la strada corretta”. L’accordo con Izquierda Unida (IU) ha portato una perdita di circa un milione di voti e lo stesso numero di deputati (71) che le due formazioni avevano ottenuto separatamente a dicembre. E l’alleanza ora è sul banco degli imputati. Dal 20,6% ottenuto da Podemos sei mesi fa e dal 3,7% di IU si è passati al 21,1%, pari a oltre 5 milioni di voti. Non è poco, questo è certo, ma è molto meno di quel che ci si aspettava e che avevano rilevato i sondaggi e gli exit poll. Il sorpasso ai socialisti è rimasto un miraggio: ci sono quasi 400 mila voti di differenza. Ad esempio, a Madrid città Unidos Podemos prende meno voti che Podemos da solo a dicembre. Qualcosa non è andato per il meglio. La formazione di Iglesias migliora solo nei Paesi Baschi dove diventa primo partito sia in seggi che in voti, superando il Partido Nacionalista Vasco (PNV) – 5 seggi –, un dato da tenere presente in vista delle elezioni regionali del prossimo autunno. Si mantiene poi come secondo partito a Madrid e in Navarra, ma con un calo dei voti complessivi. Alle Canarie retrocede dalla seconda alla terza posizione.

A mente fredda all’interno di Podemos si aprirà un forte dibattito interno proprio sulla scelta dell’alleanza con Izquierda Unida, soprattutto dopo il precedente scontro tra il leader Pablo Iglesias e il vice Íñigo Errejón. Il primo, da vero stratega e tattico della politica, aveva voluto fortemente questa 'bicicletta' con la sinistra radicale pensando che quei 3 o 4 punti percentuali di IU fossero stati sufficienti per scalzare il PSOE. Ma in politica 1 + 1 non fa sempre 2. Anzi, quasi mai. Errejón, il volto “populista” di Podemos, e studioso del post marxista Ernesto Laclau era contrario al ticket con l’Izquierda Unida ripulita e ringiovanita di Alberto Garzón. Le sommatorie, ancora una volta, non sembrano aver funzionato perché di sommatoria si trattava, non di un processo di confluenza – nato dal basso – come quello costruito dalla sindaca Ada Colau a Barcellona.

Ci vorrà tempo per capire e sarebbe sbagliato dare sentenze definitive, andrà analizzato anche l’aumento del tasso di astensionismo, però Podemos ha chiaramente cambiato linea politica rispetto al passato. Se prima IU veniva considerata parte del problema, non la soluzione, perché appartenente alla “vecchia politica” incapace di rappresentare e incanalare la rabbia dei giovani e delle piazze indignate, adesso è diventata improvvisamente un alleato elettorale. Un riposizionamento che forse non tutti gli spagnoli hanno compreso. Soprattutto chi aveva sostenuto Iglesias perché “nuovo” e capace di rompere con le culture novecentesche. Altro fattore: Podemos, in quanto voto di rottura contro un sistema, era percepito come molto eterogeneo, in grado di pescare consensi a destra come a sinistra. L’essersi caratterizzato come forza di sinistra ha fatto perdere sicuramente il voto dei moderati. Dall’altra, molti attivisti di IU non hanno visto di buon occhio l’alleanza con Podemos (considerata troppo poco di sinistra) e soprattutto le costanti apertura al PSOE nell’idea di un governo delle sinistre, simile a quello portoghese in carica. In ogni caso, como segnala Fray Poll su Ctxt, “al di là del risultato avverso, è evidente che, in relazione al sistema elettorale, l’alleanza ha funzionato e che è stata una strategia razionale. Un’altra cosa sono le possibili conseguenze per quanto riguarda la fedeltà degli elettori e la loro mobilità”.

Anche le alleanze legate a Podemos che si sono presentate in diverse regioni non hanno fatto l’exploit che ci si aspettava. In Catalogna, dove gli indipendentisti catalani di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) e Convergència Democràtica de Catalunya (CDC) tengono con, rispettivamente, 9 e 8 deputati, En Comú Podem – formato da Barcelona en Comú, Podemos, ICV-EUiA ed Equo – si conferma primo partito, con 12 deputati, ma perde circa 100 mila voti. A Valencia, la coalizione “A la Valenciana”, formata da Compromís, Podemos e IU, si mantiene come secondo partito (9 deputati), ma aumenta la distanza con il PP (13 deputati). Anche nelle Baleari gli equilibri non cambiano: Units Podem Més, che riunisce Podemos, IU e i nazionalisti di sinistra di Més, non ha migliorato i risultati di dicembre (2 deputati), mentre in Galizia, En Marea – formata da Podemos, IU, i nazionalisti di sinistra di Anova e le liste municipaliste che governano a La Coruña e Santiago de Compostela – viene superata dai socialisti, diventando terzo partito, e perde un deputato (da 6 a 5).

E adesso che succederà? I risultati di ieri ancora una volta non garantiscono la governabilità del Paese iberico, ma nessuno vuole andare a nuove elezioni a dicembre prossimo. Si tratterebbe delle terze elezioni in un anno, un’assurdità. Le prossime saranno settimane chiave, dunque, per capire che governo avrà la Spagna. Il 19 luglio si formerà il nuovo Parlamento. I partiti non aspetteranno fino ad allora – come era successo a dicembre – per cercare di mettersi d’accordo, anche perché le pressioni dei mercati e delle istituzioni europee peseranno. Si tenga presente che a inizio luglio la Commissione Europea deciderà se multare la Spagna con 2 miliardi di euro per il deficit di bilancio del 2015. Si potrebbe avere un nuovo governo prima della pausa di agosto. È l’opzione che caldeggiano Rajoy e il PP.

Sono sfumate due ipotesi valide fino a ieri pomeriggio: quella di un governo di centro (PSOE e Ciudadanos) e quella di un governo delle sinistre (PSOE e Unidos Podemos). In realtà, quest’ultima opzione sarebbe teoricamente possibile visto che PSOE e Unidos Podemos sommano 156 seggi. Avrebbero però bisogno dei voti degli indipendentisti catalani e dei nazionalisti baschi (22 deputati in totale) per superare quota 176, che è la maggioranza assoluta nelle Cortes di Madrid. Ma il referendum catalano è inaccettabile per i socialisti che tra l’altro non ne vogliono proprio sapere di avere Iglesias al governo.

Rimangono varie declinazioni di un governo di grande coalizione o di “concentrazione”. Potrebbe trattarsi di un governo in minoranza del PP grazie ad un astensione dei socialisti o di un governo alla tedesca, con popolari e socialisti al governo. Rimane da capire se i popolari vorranno anche Ciudadanos in un eventuale governo di larghe intese o se preferiranno lasciarlo all’opposizione per eliminare l’unico possibile avversario che hanno nel centro-destra. La grande questione è poi capire se i socialisti chiederanno la testa di Rajoy: lo hanno ripetuto continuamente, ma il leader del PP ora può trattare da una posizione di forza. Sullo sfondo rimane ancora la possibilità di un governo Monti alla spagnola. E qui Podemos, forse, potrà dire ancora la sua. La storia infatti non appare per niente finita. Íñigo Errejón nel discorso di ieri – fatto davanti a migliaia di persone convocate nella piazza del Museo Reina Sofia di Madrid – ha tenuto a specificare che il cammino è ancora lungo: “La nostra posizione è determinante e sarà decisiva per il cambiamento, ma in alcune occasioni questo non si produce nei tempi e nei modi che si vorrebbe”.

E’ tutto in divenire. Intanto il PP non ha ottenuto la maggioranza assoluta e Podemos consolida il suo blocco. E, soprattutto, va ribadito che la Brexit ha condizionato il voto, al di là delle strategie e delle alleanze con Izquierda Unida. In tal senso, fuori luogo appaiono le dichiarazioni di Manlio Di Stefano, deputato grillino e responsabile esteri, che rivendica la scelta del M5S di non scendere a patti e compromessi con altri partiti: “Per quale motivo – ha detto - un elettore dovrebbe affidarsi ad un partito nuovo, che si propone come rivoluzionario e alternativo, ma si presenta in coalizione con l’estrema sinistra di Izquierda Unida? Se devo votare una finta novità per essere poi tradito come i greci con Tsipras, allora preferisco votare direttamente per i vecchi partiti almeno so cosa mi aspetta. La storia non lascia scampo in questi casi”. Fermo restando le differenze tra Podemos e M5S, lo stesso M5S alle scorse Europee doveva dare una spallata al PD. Così non è stato. Poi è successo che il M5S di Grillo ha avuto la capacità di rilanciarsi alle recenti amministrative e ora in chiave nazionale. La partita per il cambiamento è ancora aperta e Podemos, dall’opposizione, potrà dire la sua. Chi non vorrebbe perdere ottenendo il 21 per cento dei consensi e 5 milioni di voti?

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