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Ci aspetta un settembre nero? Il “termometro” tedesco dice di sì

Mauro Bottarelli

poar01 banks0812Settembre è arrivato. E storicamente il mese di settembre porta con sé rialzi degli indici solo se questi hanno subito contrazione nei mesi precedenti: essendo stato agosto il sesto mese consecutivo di guadagni, tutto lascerebbe pensare a un settembre nero. Lo avevamo scritto mesi fa ma la ragione del crollo dei futures e del tracollo dei titoli bancari in Europa non è da mettere in relazione a fattori di aggiustamento tecnico, bensì a qualcosa di molto più serio. I nodi, infatti, stanno venendo al pettine.

L’intemerata di Gordon Brown ieri sul Financial Times contro i bonus dei banchieri – che dovrebbero essere legati a performance di lungo periodo e non a guadagni a breve frutto di speculazione – parla chiaramente la lingua di una manovra difensiva: ieri il titolo di Lloyds Tsb è letteralmente crollato, segno che nessuna operazione di intervento pubblico sembra aver rimesso in sesto l'ex gigante devastato dalla folle acquisizione di Hbos, una vera e propria miniera di assets tossici.

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inform.scorretta

Svezia Tasso Interesse Negativo

Felice Capretta

swedbankTasso di interesse negativo in Svezia!

Oggi dalle colonne dei giornali dei gruppo Rizzoli (che comprende Corriere e il gratuito City) campeggiano notizie di diverso genere e grado.

Le principali:

    * immancabile strillo gettapanico sulla Nuova Influenza A/H1N1: i pediatri chiedono di rinviare l'apertura delle scuole, ma la Gelmini rifiuta;

    * una agghiacciante sfilza di dettagli sanguinolenti sull'ennesimo omicidio/suicidio;

    * un reportage da gossip nero sull'alibi di Stasi che sarebbe lì lì per crollare.

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icebergfinanza

Bernanke, déja vu... la nemesi continua!

di Andrea Mazzalai

ben bernanke money 35914Come scrive Wikipedia,  il Déjà Vu, in francese, già visto,  è la sensazione di aver vissuto precedentemente un avvenimento o una situazione che si sta verificando.

Il termine fu creato dallo psicologo francese Émile Boirac (1851–1917), nel suo libro L'Avenir des sciences psychiques ("Il futuro delle scienze psichiche"), revisione di un saggio che scrisse quando ancora era studente all'Università di Chicago. L'esperienza del déjà vu è accompagnata da un forte senso di familiarità, ma di solito anche dalla consapevolezza che non corrisponde realmente ad una esperienza vissuta (e quindi si vive un senso di "soprannaturalità", "stranezza" o "misteriosità"): l'esperienza "precedente" è perlopiù attribuita ad un sogno. In alcuni casi invece c'è una ferma sensazione che l'esperienza sia "genuinamente accaduta" nel passato.

Come ha scritto in un articolo il Washington Post, Bernanke pochi giorni prima di essere nominato nuovo governatore della Federal Reserve, e precisamente il 25 ottobre del 2005, confidava che....

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manifesto

Spesa pubblica e finanza, a chi giriamo il conto?

di Tommaso De Berlanga


signoraggioMentre i governatori delle banche centrali - a Jackson Hole - interpretano segnali e annusano venti capricciosi cercando una visione del futuro, una prima indicazione chiara viene dalle mille soluzioni pratiche che, nel frattempo, i più vari soggetti economici e istituzionali vanno prendendo: il conto della crisi va fatto pagare alle popolazioni. Nulla vien chiesto a ideatori e responsabili del più grande crack finanziario che si sia mai visto. Anzi, dopo pochi mesi di terror panico e silenzi imbarazzati, i top manager sono tornati burbanzosi ad occupare il centro della scena e a dettare l'agenda politico-economica. Indignati più del solito quando qualcuno parla di mettere almeno un freno ai loro bonus e stipendi.

I diversi articoli che potete leggere in questa pagina hanno un retroterra comune evidente: l'«iniziativa privata» - finanziaria e non - lasciata liberissima di agire su scala planetaria, ha creato un disastro epocale che soltanto massicce iniezioni di denaro pubblico (già effettuate o solo garantite, non importa) ha permesso di arginare. Per ora. La cosa rilevante è che, di conseguenza, la spesa pubblica è cresciuta in modo rapido e violento, come quando - per fronteggiare altre crisi storiche - gli stati mettevano in moto politiche keynesiane di «sostegno alla domanda».

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La corsa delle Borse è finita

Ora chi salverà i governi dai debiti?

di Mauro Bottarelli

borsaIl rally è finito. Lo avevamo detto e non solo perché dopo tante sedute al rialzo ci si concede di rifiatare con le prese di beneficio. È finito perché è finito l'effetto del mega-stimolo monetario messo in atto dai governi per cercare di rivitalizzare i mercati e l'economia. Due trilioni di dollari sembravano tutto il denaro del mondo ma non lo erano.

Ieri mattina il tonfo dello Shanghai Composite al -5,8%, peggior risultato dal 18 novembre scorso, aveva suonato la sveglia su quanto stava per accadere. Nonostante gli oracoli di Francoforte avessero giorni fa annunciato trionfalmente che Germania e Francia era tornate a crescere, sia il Cac40 che il Dax perdevano terreno, come Londra e Milano. A trascinare in basso, tanto per cambiare, titoli bancari (meno male che erano sani, al primo giorno di ritracciamento sono crollati) e commodities, indicatore quest'ultimo che la ripresa è lunghi dall'essere dietro la porta.

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dazebao

Verso un nuovo ordine economico internazionale?

di Marco Sarli

economicoTemo proprio che non si stia seguendo con la dovuta attenzione il sempre più intenso dibattito in corso tra Cina, India, Brasile e Russia sull’opportunità di individuare soluzioni alternative all’utilizzo del dollaro statunitense come mezzo di pagamento e valuta di riserva, un dibattito che avviene a margine di accordi bilaterali tra questi paesi, accordi che prevedono o l’utilizzo delle proprie valute o l’individuazione di ‘valute sintetiche’ spesso basate su un paniere composto dalle principali valute convertibili.
 
Pur essendo del tutto evidente che non è interesse di questi paesi un crollo verticale delle quotazioni del dollaro o di quei titoli rappresentativi del debito statunitense che rappresentano insieme oltre il 70 per cento delle loro riserve valutarie, è tuttavia indubitabile lo sforzo in termini di diversificazione operato dai gestori di queste disponibilità, così come è del tutto evidente la crescente preferenza per titoli statunitensi a breve se non a brevissima scadenza, in luogo della precedente preferenza per i Treasury Bonds a 10 se non a 30 anni.

Analoghi interrogativi e mutamenti di comportamenti caratterizzano da alcuni decenni i governi e le autorità monetarie dei paesi arabi esportatori di petrolio e del Giappone, paesi strutturalmente esportatori netti per rilevanti ammontari medi e che si sono confrontati ben prima dei new comers sul ‘dilemma del dollaro’,

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arianna

E’ iniziata la fuga dal dollaro?

di Giorgio Vitangeli

Clamoroso sequestro della Guardia di Finanza di “Bond” Usa per oltre 134 milardi di dollari al confine tra Italia e Svizzera

Di sicuro, di inconfutabile, c’è solo il sequestro,  perché la notizia è apparsa sul sito ufficiale della Guardia di Finanza,ripresa dall’Agenzia ADN Kronos, e ci sono le dichiarazioni del colonnello Roddollaroolfo Mecarelli comandante della Guardia di Finanza di Como.

La notizia è questa: il 3 giugno a Ponte Chiasso, in prossimità della frontiera con la Svizzera i militari della Guardia di Finanza hanno fermato due giapponesi  che nel sottofondo delle loro valigette nascondevano titoli del Tesoro americano, e più precisamente 249 “Bond” della Federal Reserve del valore facciale di 500 milioni ciascuno e 10 “Bond Kennedy” del valore nominale di un miliardo di dollari ognuno, accompagnati da una recente e dettagliata documentazione bancaria che ne certificava l’autenticità.

Tirando le somme: 134,5 miliardi di dollari americani, un ammontare pari all’intero prodotto interno lordo di Stati come il Marocco o la Nuova Zelanda o a quasi un decimo del “pil” italiano. Insomma: una somma stratosferica, fuori dalla portata di qualunque organizzazione criminale, e con titoli di un valore facciale tale da renderne praticamente impossibile l’incasso, se non nelle relazioni tra Stati o con banche internazionali, che ovviamente prima ne verificano l’autenticità con minuziosi controlli.

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Dagli Usa all’Italia, i “Paperoni” che fanno soldi alla faccia della crisi

Mauro Bottarelli

miliardariRepetita iuvant. «Domenica una notizia apparentemente slegata da questo discorso ha attirato la mia attenzione: lo staff di Goldman Sachs, comprese le oltre 4mila persone impiegate nella City di Londra, riceverà a breve i più alti bonus mai pagati dall’azienda in 140 anni. Non solo i top manager ma tutti quanti. Il perché è presto detto: grazie alla mancanza di competizione nel mercato e soprattutto a un incredibile aumento dei profitti dato dal commercio sulle valute e sui bond, a inizio aprile il management ha deciso di accantonare metà del profitto trimestrale dell’azienda di 1,2 miliardi di dollari per i bonus dello staff. Questo in tempo di crisi e recessione: che cuore d’oro e soprattutto che capacità di creare business! E pensate che i risultati del secondo trimestre saranno ancora migliori: non a caso Warren Buffett fiutò l’affare fin da gennaio quando comprò azioni Goldman per 5 miliardi di dollari e ora può già contare su un guadagno netto di 1 miliardo.

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liberazione

Il tesoro di Chiasso, le superbanconote americane che la Fed non ha emesso

Nuovi sviluppi nel giallo dei 134,5 miliardi di dollari sequestrati a due giapponesi. Un intrigo che porta molto in alto

Luigi Grimaldi

moneyE' un intrigo internazionale. Il mistero dei 134,5 miliardi di dollari sequestrati a Chiasso lo scorso 3 giugno è sempre più allarmante e avrebbe origine nella crisi finanziaria giapponese del 1998.

Circolano banconote da un miliardo di dollari l'una ma non emesse dalla Fed. Una storia di finanza parallela con i servizi segreti Usa (e i nostri) in chiaroscuro.

I due fermati a Chiasso hanno un nome: Mitsuyoshi Watanabe e Akihiko Yamaguchi, personaggi già abbondantemente "bruciati" in campo finanziario internazionale e coinvolti (nel 2004) nel caso di una emissione non autorizzata di bond giapponesi (i cosiddetti Japanese 57 Series Bond - titoli esclusivamente utilizzati in transazioni intergovernative) del valore di 500 miliardi di yen ognuno.

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contraddizione

L’esproprio a sproposito

Scherzi della storia di una crisi: il caso tedesco

di Alessandro Riccini

Quando gli affari vanno bene sono i capitalisti che debbono beneficiarne;
quando le cose vanno male allora è lo stato che deve accollarsi le perdite.
La perdita della ricchezza è un fatto pubblico:
questa è la logica fascista della “socializzazione delle perdite”.
[Pietro Grifone, Capitalismo di stato e imperialismo fascista, cap.vi]

Càpita, scorrendo i titoli dei giornali durante questa crisi, di imbattersi in titoli che solo qualche mese fa sarebbero stati del tutto inimmaginabili.

Prendiamo il Sole-24 Ore di giovedì 19 febbraio 2009: “A Berlino l’esproprio torna in banca”. Ci sarebbe da saltare sulla sedia, se non fosse che ormai siamo abituati a tutto. Vediamo di che si tratta nel dettaglio: la normativa prevede la possibilità per il governo di “nazionalizzare d’imperio una banca”, possibilità prevista da un provvedimento del Consiglio dei ministri tedesco che permette al governo, quale ultima ratio, la nazionalizzazione coatta di una banca. Si usa il termine “esproprio” forse a sproposito (mi si perdonino le involontarie allitterazioni), ma comunque l’impatto della normativa è evidente: lo stato diventa ultimo acquirente di banche in crisi. È l’ultimo atto dello psicodramma in corso, ma sarebbe semplicistico attribuire tutto allo stato che compra. Ci sono altre ragioni: la prima fa riferimento alla necessità di conoscere effettivamente la quantità di cosiddetti assets “tossici” contenuti all’interno dei bilanci delle banche. C’è inoltre una necessità, velata ma davvero stringente, di trasportare ricchezza, plusvalore già prodotto, dalle tasche della classe lavoratrice ad altre tasche. Ed, infine, c’è la necessità di avere più chances nel governare le conseguenze del leverage eccessivo, ossia, detto in termini molto generici, della sproporzione tra il patrimonio degli istituti e le somme investite. Andremo per ordine a toccare tutti questi temi, ma prima occorre fare un piccolo salto temporale.

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wildcatb

Il vestito nuovo del capitalismo

Paolo Giussani

L'usuriere chiede che i danari faccian frutto,
li quali di sua natura in alcuno
atto far non possono.
G.Boccaccio, Sopra Dante

  1.

capitalismo 294x300Se il buon giorno si vede dal mattino, ci attendono senz'altro grandi cose. Già ora dal confronto con la grande depressione degli anni '30, la crisi in atto appare piuttosto promettente: nell'ultimo trimestre del 2008 il Pil americano è diminuito del 6.2 per cento su base annua, quello giapponese del 13.3 per cento, e quello dell'Unione Europea del 3.2 per cento. Considerando che nel medesimo periodo le spese reali per consumo negli Usa sono calate del 4.3 per cento e le spese reali

del governo federale sono invece aumentate del 6.7 per cento, la riduzione negli investimenti reali in capitale fisso – per i quali non esistono ancora stime – deve essere stata superiore al 40 per cento. Una performance davvero notevole, se si pensa che nei primi tre mesi della grande depressione il calo del Pil americano fu del 5.5 per cento, meno forte di quello attuale, malgrado il contributo anticiclico relativamente piccolo offerto dall'incremento delle spese federali (+4.2 per cento) e il relativamente grosso apporto prociclico del calo degli investimenti (-35.2 per cento)[1]. Nonostante le diffuse speranze, non si è però ancora in grado di offrire ai supporters della depressione incipiente la certezza della conquista del titolo di maggiore crisi della storia con la vittoria nel grande match che si gioca contro gli anni '30; si può tuttavia essere già certi di avere incamerato il secondo posto di sempre poiché i primi dati garantiscono ormai del trionfo su tutte le crisi–robetta di poco conto–del dopoguerra, e specialmente sulle spocchiose crisi degli anni '70 e '80, che finora si ritenevano chissà che cosa.

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GEAB Report n. 36, parti II e III

 

II. L’onda della disoccupazione di massa: tre date differenti di impatto in funzione delle nazioni. America, Europa, Asia, Medio Oriente e Africa

 L’estate del 2009 sarà ricordata come il punto di svolta per quanto riguarda l’impatto della disoccupazione sul corso degli eventi della crisi sistemica globale. Infatti, sarà il momento in cui, invece di una conseguenza della crisi, la disoccupazione in tutto il mondo diventerà un fattore aggravante.

Naturalmente, questo processo non si svilupperà nè allo stesso passo dovunque, nè con le stesse conseguenze. Comunque, dovunque senza eccezioni, diventerà una elevata priorità sia per il grande pubblico sia per i leader economici.

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La cultura economica e la crisi (1)

di Roberto Artoni

scienza econ1. In questa nota tenterò di leggere la crisi attuale, finanziaria e reale, come il risultato in buona misura anticipabile dell’applicazione di un modello economico caratterizzato da elementi precisamente identificabili. Dalla lettura e dall’interpretazione critica di questo modello, altri, più attrezzati di chi scrive, dovrebbero delineare gli elementi costituivi di una nuova cultura politica ed economica.

 

2. Il modello di teoria e di politica economica dominante negli ultimi 25 anni ha alla sua base una fortissima fiducia nella capacità di autoregolamentazione dei mercati secondo modalità probabilmente mai riscontrate nella storia del mondo economicamente sviluppato. Sono state riprese e applicate, in altri termini, le indicazioni più elementari della teoria economica sull’ottimalità del meccanismo concorrenziale.

 

3. Con particolare riferimento alla teoria macroeconomica, e quindi alla più generale impostazione di politica economica il punto di partenza è costituito da modelli che abbiano un fondamento microeconomico, siano microfondati nel gergo degli economisti [Solow 2008]. Tuttavia ciò è avvenuto a costo di semplificazioni non innocue: la teoria macroeconomica, nella versione dominante di questi anni deriva da un modello nel quale agenti (consumatori, lavoratori e titolari di fattori produttivi) massimizzano la propria funzione di utilità su un orizzonte infinito in mercati perfettamente concorrenziali (caratterizzati da assenza di potere di mercato e da prezzi dei beni e dei fattori flessibili) e in un contesto di previsione perfetta o di aspettative razionali.

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mrxoggi   

La crisi non è finanziaria ma del capitale

di Domenico Moro

1. Sovrapproduzione e crisi

Secondo la maggior parte dei mass media, degli economisti e dei governi, quella attuale è una crisi finanziaria, che successivamente si sarebbe estesa all’economia “reale”. Con questo tipo di analisi si coglie, però, solo la forma in cui la crisi si è manifestata. Se ne ignora invece il contenuto, che risiede nei meccanismi di accumulazione del capitale. Infatti, le crisi sono la modalità tipica in cui emergono le contraddizioni del modo di produzione attuale. La principale di queste contraddizioni è quella tra produzione e mercato. Lo scopo delle imprese è produrre per fare profitti e per fare ciò riducono i costi delle merci in modo da aumentare il loro margine, cioè la differenza tra costi e prezzi di produzione. La riduzione dei costi di produzione passa per la realizzazione di economie di scala, cioè per la produzione di masse di merci sempre più grandi nello stesso tempo di lavoro. A questo scopo vengono introdotte tecnologia e macchine sempre più moderne al posto di lavoratori, e aumentati ritmi e intensità del lavoro. Astrattamente si tratta di un fatto positivo, in quanto lo sviluppo della produttività mette a disposizione dei consumatori masse di merci più grandi prodotte in un tempo minore. Il problema è che la produzione capitalistica è diretta non verso semplici consumatori ma verso consumatori in grado di pagare un prezzo adeguato a raggiungere il profitto atteso, cioè verso un mercato.

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ripensare marx

Crisi sistemica globale: lo shock cumulato delle tre "onde anomale" dell'estate 2009

GEAB Report n. 36

europe2020 negCome anticipato da LEAP/E2020 fin dall’Ottobre 2008, alla vigilia dell'estate 2009, la questione della capacità degli Stati Uniti e del Regno Unito di finanziare i loro deficit pubblici,  oramai incontrollati, si è imposta come un fatto centrale nel dibattito internazionale, aprendo la via al doppio fenomeno di una cessazione dei pagamenti degli Stati Uniti e del Regno Unito, da qui alla fine dell'estate 2009.

Così, a questo stadio di sviluppo della crisi sistemica globale, contrariamente al discorso mediatico e politico attualmente dominante, l’equipe del LEAP/E2020 non ravvisa affatto una ripresa dopo l'estate 2009, né, d’altronde, nei dodici mesi a venire, (1). Al contrario, a causa dell'assenza di un trattamento di fondo dei problemi all'origine della crisi, riteniamo che l'estate 2009 vedrà la convergenza di tre "onde anomale" (2) particolarmente distruttrici che traducono il proseguimento dell'aggravamento della crisi e provocheranno degli  sconvolgimenti storici da qui ai mesi di Settembre/Ottobre 2009. Come è successo dall'inizio di questa crisi, ogni regione del mondo non sarà beninteso toccata allo stesso modo (3); ma, per i nostri ricercatori, tutti senza eccezione conosceranno una forte degradazione della loro situazione da qui alla fine dell'estate 2009 (4). Questa evoluzione rischia così di prendere in contropiede numerosi operatori economici e finanziari tentati dall'euforizzazzione mediatica attuale.

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manifesto

La Cina ora scappa dai titoli Usa, Geithner pessimista

di Francesco Piccioni

cina1Era nominata sottovoce, evocata con il timore reverenziale che si deve provare davanti a una «bomba atomica». Ora la miccia è stata accesa. Il flusso di capitali verso gli Stati Uniti è drasticamente calato nel mese di aprile, segnando un saldo positivo di appena 11,2 miliardi di dollari. Un'inezia, per un paese abituato da anni a vedere affluire mensilmente tra i 50 e i 70 miliardi di capitali freschi, orientati verso i «super.sicuri» titoli di stato a lungo termine o verso il più rischioso mercato azionario (Wall Street). Solo a marzo erano entrati 55,4 miliardi in più di quanti ne erano usciti.

Stavolta i titoli del tesoro detenuti da investitori internazionali sono diminuiti di 44,5 miliardi di dollari. E per la prima volta sono diminuiti quelli in possesso della Cina, ormai il primo creditore degli Usa. E solo pochi giorni fa Pechino aveva chiesto al governo Usa di «garantire la sicurezza degli investimenti cinesi» in America. Si tratta della prima manifestazione concreta di un'intenzione che - insieme a Russia, Giappone, Brasile, India - era già stata espressa in modo chiaro: «differenziare gli investimenti» e cercare un'alternativa al dollaro come moneta di riserva globale. Ma anche Russia e Giappone hanno agito, in aprile, nello stesso modo, sia pure su cifre minori. La Cina, del resto, deve fare i conti con una sistematica riduzione degli investimenti esteri sul proprio territorio (-17,8% rispetto al 2008), che la costringono a far rientrare quel che serve per alimentare una crescita tuttora fortissima (intorno all'8% annuo).

Questa fuga, per gli Usa, è però di eccezionale gravità: dall'acquisto di titoli di stato dipende infatti la possibilità di rifinanziare il crescente debito pubblico, stressato dalla necessità di intervenire per salvare le banche «troppo grandi per fallire». L'affidabilità di questo debito, già dubbia, potrebbe a questo punto essere messa seriamente in discussione dalle società di rating, costringendo il tesoro usa a offrire rendimenti ancora più alti (e più costosi per le casse pubbliche).

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inform.scorretta

+1,1 Italia, deficit record in USA

di Felice Capretta

crisi e sireneItalia: +1,1% produzione industriale intitolano oggi molti quotidiani.

Tutti a festeggiare: la crisi è finita. Per la serie "crisi del 29 - crisi attuale, le pompose dichiarazioni" anche il solito Trichet dichiara che l'economia ripartirà nel 2010.
Al di là della propaganda economica, i lascia rapidamente spazio a dati ben diversi.
Risulta invece che lo striminzito +1,1% italiano dei titoloni dei giornal non è altro che la classica sceneggiata napoletana (gli affezionati lettori napoletani ci consentiranno il termine), infatti:

* Il famoso 1,1% in più è dato dall'indice destagionalizzato della produzione industriale, che mostra la tendenza mese su mese (quindi rispetto al mese precedente) in cui sono eliminate le oscillazioni a breve termine - le cosiddette fluttuazioni stagionali.

* Lo stesso indice negli ultimi tre mesi è sceso del 9,3%.

* Negli ultimi 12 mesi ha perso un drammatico 25,4% come indice grezzo

* Negli ultimi 12 mesi ha perso il 24,2% come indice corretto per gli effetti di calendario

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Brevi appunti di un non economista sulla crisi

di Giulietto Chiesa

crisi4Primo appunto. Andiamoci piano con i paralleli storici. È diventato di moda confrontare la presente crisi finanziaria mondiale con quella della fine degli anni '20 negli Stati Uniti.
In altri termini: i mal di testa di Barak Hussein Obama e di Franklin Delano Roosevelt hanno qualcosa in comune? Cioè la Grande Crisi del 1929 ha qualcosa a che fare con la Gigantesca Crisi del 2007-2009 (e, molto probabilmente, successivi)?

Vedo astronomiche differenze. La più evidente delle quali è che Roosevelt inaugurò di fatto l'Impero Americano sul mondo intero, mentre Obama ne sta registrando la fine. Grande presidente il primo, probabilmente grande presidente anche quest'ultimo. Ma le differenze sono enormi. FDR prese in mano le redini di un paese che era creditore complessivo verso il resto del mondo. Non c'era, in giro per il pianeta, qualcuno che non gli fosse debitore. Obama ha ereditato il comando del paese più indebitato del pianeta; un paese che non solo ha debiti da tutte le parti, ma che non è più in grado di pagarli.

Secondo appunto. Confrontiamo le classifiche dei primi venti giganti mondiali per capitalizzazione di mercato: quella del 1999 e quella del 2009. Queste cifre ci aiuteranno a capire meglio cosa significa quando un impero finisce, come lo si può addirittura quantificare. Nel 1999 l'elenco era capeggiato da Citigroup (151 mlrd $) e includeva ben 11 protagonisti del mercato finanziario anglosassone: americani (sette) e britannici (quattro). Era il quadro rappresentante plasticamente il trionfo della deregulation reagano-thatcheriana, del neoliberismo senza confini e senza alternative. Per trovare un ciclope europeo (non britannico) bisognava arrivare all'ottava posizione, dove si trovava l'UBS, la mitica Svizzera bancaria. Il primo giapponese si trova al nono posto (Bank of Tokyo-Mitsubishi). La lanterna di Diogene riusciva a trovare un altro ciclope europeo (oltre ai britannici HSBC, Lloyds TSB, Barklays, National Westminster Bank) solo all'altezza del 18-esimo posto, con lo spagnolo Banco di Santander. In sintesi America più Europa, e poco di più. Il resto del mondo contava poco o niente.

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Ecco perchè l’Europa deve cominciare a temere gli Usa

Mauro Bottarelli

crashLa fuga di massa è iniziata. Dopo la clamorosa decisione del fondo governativo di Singapore, Temasek, di lasciare sul tappeto 4,6 dei 7,6 miliardi di dollari investiti pur di uscire dal colosso creditizio Bank of America, a sua volta “cavaliere bianco” di Merrill Lynch e la decisione del fondo sovrano di Abu Dhabi di convertire le obbligazioni di Barclays che possedeva e di liquidare in tempo reale le azioni ordinarie appena ottenute (costringendo Barclays a vendere a Blackrock il suo gioiello del fund management Bgi per 13 miliardi di dollari), ecco un’altra notizia che ci segnala come la terza ondata di crisi sia ben oltre la soglia di casa.

Due hedge fund che gestivano complessivamente 1,3 miliardi di dollari dei loro sottoscrittori hanno chiuso, dalla sera alla mattina: accadde così anche nel giugno di due anni fa, quando due fondi speculativi legati a Bear Stearns andarono a gambe all’aria dando il via alla crisi globale. Niente paura, era tutto previsto.

Non è un caso, infatti, che mentre i segnali che arrivano dal mercato segnano tempesta, qualcuno ricominci con le previsioni al rialzo e l’ottimismo a prezzo di saldo: Goldman Sachs, infatti, ha fissato a 85 dollari il prezzo che raggiungerà a breve il barile di petrolio. Lo scorso anno parlavano di quota 200 dollari e fallirono, ma in parecchi fecero molti, molti soldi grazie alle montagne russe del greggio che schizzò a luglio a 147 dollari il barile dando vita a una danza dei futures mai vista. Questo nonostante non ci sia alcuna ripresa reale in corso per quanto riguarda economie e soprattutto industrie: il fabbisogno energetico della Cina è calato del 10% e sul mercato, anzi nei magazzini, ci sono 100 milioni di barili di greggio pronti alla consegna ma che non verranno consegnati. Se non riparte la crescita, nessuno ha bisogno di petrolio in più.

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La nuova ondata di crisi è già partita. Quando colpirà?

Mauro Bottarelli

recessioneLa terza ondata è arrivata mercoledì pomeriggio. Per ora sottoforma di cavallone inaspettato che ribalta i materassini e fa la gioia dei bagnanti ma l’effetto domino che può innescare è di quelli degni di uno tsunami.

L’altro giorno, infatti, nel silenzio generale è andata completamente a vuoto un’asta di titoli di stato per il controvalore di 100 milioni di dollari in Lettonia, chiaro segnale che il paese baltico è sull’orlo di un default sul proprio debito pubblico. La notizia ha immediatamente innescato una reazione a catena colpendo tutte le monete dei paesi Ue dell’Est: il fiorino ungherese è crollato dell’1,97% contro l’euro e del 2,85% contro il dollaro; lo zloty polacco ha ceduto lo 0,75% contro l’euro e l’1,56% contro il dollaro; la corona ceca è scesa dello 0,25% contro l’euro e dell’1% contro il dollaro. Direte voi, nulla di che. In effetti, vista così la situazione non appare drammatica.

Qualche preoccupazione in più sorge quando si vanno a vedere le ripercussioni patite in Svezia a causa del mancato introito di 60 milioni di lats lettoni da parte dello Stato a causa dell’asta andata deserta: la corona svedese ha subito un brusco calo e le azioni delle due principali banche, Svedbank e SEB, sono scese rispettivamente del 15,9% e dell’11%. Come già scritto, qualcosa di sistemico sta arrivando dall’Est europeo. Le banche svedese, infatti, sono esposte per 75 miliardi di dollari verso i paesi baltici e la crisi lettone rischia di innescarne una politica, sociale ed economica in tutta l’area.

Lo conferma Bartosz Pawlowski, analista di BNP Paribas: «La Lettonia è sì un piccolo paese ma ha vaste ripercussione su tutta l’area. Se la moneta lettone crolla porterà con sé quella estone, non escludendo scossoni su Bulgaria e Romania». Guarda caso, l’epicentro di quegli 1,3 trilioni di euro di esposizione a Est delle banche europee, italiane comprese.

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Quell’ombra in fondo al tunnel

Emiliano Brancaccio*

ombra in fondo al tunnelE’ giunta inattesa, ed è stata da molti sottovalutata[1]. Eppure siamo di fronte alla crisi più grave dai tempi del dopoguerra. Senza indugio, vi è chi già la paragona alla Grande Crisi degli anni Trenta. Il confronto è prematuro ma non del tutto azzardato. Basti notare che in questi mesi la velocità di caduta del reddito e dell’occupazione mondiale è arrivata a oltrepassare quella che si registrò nel 1929[2]. Stando alle previsioni del Fondo monetario internazionale, un tale precipitoso declino determinerà per il 2009 una riduzione del reddito reale dell’1,3% a livello mondiale, del 2,8% negli Stati Uniti, del 4,2% nell’area euro, del 4,4% in Italia[3]. E proprio oggi il governatore della Banca d’Italia va oltre, prevedendo per il nostro paese una caduta del reddito intorno a cinque punti percentuale. Le pesanti conseguenze in termini occupazionali sono evidenti in tutto il mondo, e saranno ancor più marcate nel prossimo futuro. In particolare, in Italia abbiamo già assistito ad una esplosione delle ore di cassa integrazione. Stime prudenti della Commissione europea prevedono cinquecentomila disoccupati in più entro fine anno[4],e Draghi parla oggi di un tasso di disoccupazione che potrebbe ben presto superare il dieci per cento. Tra l’altro, è importante chiarire che tutte le previsioni sul 2009 sono fondate sulla aspettativa di una ripresa mondiale nel 2010. E al momento è difficilissimo dire se si tratti di una fondata previsione o di una mera speranza[5].

 

 

Le tesi prevalenti: crisi da eccesso di avidità o di credito

 

Sulle cause della crisi, si è fatto un gran parlare di greed: cioè a dire di una immorale, sconfinata avidità che avrebbe indotto manager, banchieri e speculatori ad assumere comportamenti irresponsabili e al limite truffaldini. L’abisso nel quale siamo piombati sarebbe l’esito delle spregiudicate manovre compiute in questi anni da una pletora di novelli Gordon Gekko, lo spietato finanziere interpretato da Michael Douglas nel celebre Wall Street di Oliver Stone.

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GEAB Report n. 35


europe2020 Crisi sistemica globale: il mondo esce da una cornice di riferimento vecchia di sessant'anni

Il surrealismo finanziario che è stato il cuore dei trend dei mercati azionari, degli indicatori finanziari e dei commenti politici negli utlimi due mesi è a tutti gli effetti il canto del cigno della cornice di riferimento all’interno della quale il mondo ha vissuto dal 1945.

Già nel gennaio 2007, la 11esima edizione del GEAB Report descriveva che la svolta dell’anno 2006/2007 era avvolta in una “nebbia statistica” tipica dell’ingresso in recessione, create per sollevare dubbi tra i i passeggeri che il Titanic stesse realmente affondando.

Oggi il nostro team ritiene che la fine della primavera del 2009 sia caratterizzata dalla definitiva uscita del mondo dalla cornice di riferimento usata per sessant’anni dai protagonisti globali economici, finanziari e politici per prendere le loro decisioni, in particolare la versione semplificata [della cornice di riferimento, NDFC] usata massicciamente dalla caduta del blocco comunista del 1989 (quando la cornice di riferimento divenne esclusivamente centrata sugli USA).

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Perché i piani di Obama & C. non funzioneranno

Pino Cabras

Sessant’anni di mentalità, di poteri, istituzioni internazionali, una linea economica di riferimento, tutto questo nella nostra percezione non passa in un istante. I commenti politici degli ultimi mesi sono ancora immersi in quel sistema, ma tutto è cambiato. Il mondo uscito dal 1945 ha avuto una lunga continuità che in pochi mesi si è sgretolata. La Grande Crisi procede a dispetto delle idee aggrappate ai vecchi tempi.

A maggio 2009, il rapporto mensile di Leap/Europe 2020 - il sito francese che ha previsto meglio di tanti altri soggetti l’evolversi dell’attuale crisi - scrive proprio che ci siamo, che in questa primavera il mondo farà l’ultimo passo prima di uscire dal quadro di riferimento dei poteri globali degli ultimi sessant’anni, e uscirà soprattutto dalla sua versione “semplificata”, quella impostaci negli ultimi vent’anni, dopo la fine del sistema sovietico.

La fine di un’era rende già subito inutilizzabile il cruscotto di strumenti che sinora hanno guidato le azioni di chi ha preso le più importanti decisioni economiche.

I tentativi disperati di salvare il sistema finanziario globale guidato da Londra e New York hanno fatto impazzire tutte le bussole, influenzate dalle manipolazioni di istituti finanziari, banche centrali e governi.

Le immissioni astronomiche di liquidità che hanno invaso il sistema finanziario globale per un anno, specie il sistema USA, hanno portato gli operatori politici e finanziari a perdere completamente contatto con la realtà.

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Il fantasma del“New Deal”

Alessandro Riccini

Si dovrà pur partire da un punto nel descrivere questo fenomeno che curiosamente molti si ostinano a definire “crisi finanziaria” o “crisi dei mercati”. Dove è il peccato originale? Il germe del problema, l'origine? La retorica dominante tenderebbe a distinguere il mondo dell'economia in due settori: il settore dell'economia reale e quello della finanza. Si è cercato, un po' ovunque, di far passare questa crisi come una problematica esclusivamente finanziaria. Finché si è potuto, si è  fatto finta di ignorare la paralisi economica mondiale, in nome dei mitici “fondamentali sani”. Poi, quando proprio non se ne è potuto fare a meno, si è ammesso che la crisi “finanziaria” ha “contagiato” la mitica “economia reale”. Il 19 ottobre, un articolo su “Repubblica” di Paul Krugman (mutuato dal NY Times) dice finalmente come stanno le cose: l'articolo si intitola tutti al capezzale dell'economia: “Mentre il mercato azionario in fase maniaco-depressiva domina sulle prime pagine dei giornali, l'avvenimento più importante è la deprimente notizia che riguarda l'economia reale. È chiaro ormai che il salvataggio delle banche non è che l'inizio: l'economia non finanziaria è anch'essa in disperato bisogno di aiuto”.

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Lezioni per il futuro

La crisi finanziaria del 2008 muterà in radice il nostro mondo o, quando si concluderà, mercati, lavoro, finanza, produzione, assetti geopolitici torneranno al passato? Chi e che cosa hanno innescato la turbolenza prima su Borse e banche poi nella vita di tanti di noi? Quali regole e quali riforme sono necessarie, agli istituti finanziari, alla banche centrali e ai paesi perché la tempesta perfetta non si ripeta? Il Sole 24 Ore apre, in collaborazione con il Financial Times e Foreign Policy, un dibattito sul futuro del nostro mondo e le vie per accelerare la ripresa.

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«Eccesso di diseguaglianza la malattia da guarire adesso»
di Jean-Paul Fitoussi
8 maggio 2009

«È evidente che un processo politico che porti a una vera riforma delle istituzioni di controllo del sistema economico e finanziario internazionale è ovviamente molto complesso. Riuscire ad arrivare a forme di governo globale che non lascino fuori nessuno, che siano davvero inclusive, è un obiettivo che incontra resistenze anche fra quelle istituzioni, come l'Fmi o la Banca Mondiale, che non hanno fatto bene il loro lavoro».