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Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli
Questo saggio, il cui titolo nomina Marx e la decrescita, è ovviamente rivolto in primo luogo alle persone interessate a Marx e a quelle interessate alla decrescita, e il primo obiettivo che ci poniamo è quello di suscitare una discussione costruttiva fra questi due gruppi.
1. Introduzione.
E’ noto che, in genere, fra coloro che continuano a ricavare ispirazione dal pensiero di Marx e coloro che in tempi recenti hanno iniziato a teorizzare la decrescita non corrono buoni rapporti. I primi tendono a vedere la decrescita, nel migliore dei casi, come un’aspirazione soggettiva di natura socialmente ambigua, mentre i “decrescisti” vedono nel pensiero di Marx nient’altro che una versione “di sinistra” dell’idolatria dello sviluppo che oggi domina il mondo e contro cui intendono combattere. Giudichiamo questa contrapposizione del tutto negativa, e cercheremo in questo saggio di mostrare le ragioni di questo nostro giudizio.
La prima tesi generale che ci sforzeremo di argomentare nel seguito può essere così enunciata, in una sintesi quasi da slogan: “coloro che seguono le teorie di Marx hanno bisogno della decrescita, la decrescita ha bisogno di Marx”. E con questo intendiamo dire quanto segue: da una parte, oggi ogni teoria ispirata a Marx ha bisogno della decrescita perché essa rappresenta l’unica formulazione possibile di un anticapitalismo adeguato alla realtà del capitalismo attuale; dall’altra, la decrescita ha bisogno del pensiero di Marx perché in esso si trovano alcuni fondamenti teorici indispensabili per l’elaborazione di una proposta teorica e politica adeguata ai problemi che la decrescita stessa individua.
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Heidegger e la bomba atomica: ovvero la scienza deve pensare
di Gianni Vattimo e Massimo Zucchetti
Per un seminario su “Se la scienza non pensa”, Politecnico di Torino, 2016
Introduzione
La frase di Heidegger «La scienza non pensa»i risale all’inizio degli anni 50 dello scorso secolo. Questa frase si è prestata, da quando la scrisse il filosofo, a molte superficiali interpretazioni -alcune delle quali in senso riduttivo -quasi ad affermare che il pensiero umano, nella sua accezione più alta, fosse terreno estraneo alla scienza materiale. In realtà, Heidegger – nella trattazione che questa frase contiene -non ha affatto intenzioni denigratorie nei confronti della scienza. Se mai, si tratta – come vedremo -di una delimitazione: una definizione dell’ambito entro il quale, secondo il filosofo, ama muoversi la scienza, descrivendo quei confini naturali che è poi la scienza stessa a darsi. Heidegger, anzi, riflette se questi comodi confini siano giustificati, e sulle ragioni per le quali la scienza, invece, dovrebbe pensare, o perlomeno essere aiutata a farlo.
Sotteso a questa affermazione vi è in realtà il dibattuto concetto di neutralità della scienza. Scienza che secondo alcuni – come ad esempio lo scienziato atomico Werner Heisenberg [D. C. CASSIDY, Un’estrema solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 126] dovrebbe occuparsi della ricerca, dell’avanzare della conoscenza tecnica del genere umano, del “progresso”, applicando il metodo scientifico, che tanti successi e miglioramenti materiali ha apparentemente portato all’umanità negli ultimi secoli.
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Atene come metafora
di Luciano Canfora
1. Parliamo di un libro di storia, scritto “alla macchia”, durante l’occupazione tedesca della Francia, da un professore ebreo mentre le donne della sua famiglia venivano annientate ad Auschwitz. Parliamo di un libro che parla di Atene ma intende parlare della caduta della Francia, di un libro che apparentemente non fa che raccontare con passione di parte quello che soprattutto Tucidide e Senofonte ci hanno lasciato scritto intorno all’oligarchia ateniese al potere.
Prima diremo molto brevemente della forza di Tucidide come ispiratore – nel turbine novecentesco – di storici che hanno parlato del loro presente. È la “grande guerra” innanzi tutto che sospinge i grandi studiosi, e non solo loro, verso Tucidide. Per Wilamowitz, che perde l’unico figlio subito all’inizio della guerra, sul fronte russo, è dapprima l’Iliade, il libro di guerra per eccellenza, l’oggetto di una rinnovata riflessione; ma poi daccapo Tucidide. Curiosa combinazione: egli studia i capitoli complicati e in parte oscuri sulla tregua annuale intervenuta tra Sparta e Atene (423), proprio nell’anno in cui, rettore a Berlino, sarà incaricato di una missione segreta per una pace di compromesso, che fallirà. Eduard Schwartz, che perde entrambi i figli l’uno all’inizio, l’altro alla fine della guerra, scrive in quegli anni, e pubblica nel ’19 uno dei libri capitali su Tucidide (Das Geschichtswerk des Thukydides).
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Ascesa e declino nella storia economica d’Italia
G. Gabbuti intervista Emanuele Felice
Con Ascesa e declino. Storia economica d’Italia (il Mulino, Bologna 2015, 392 pp), Emanuele Felice offre una sintetica ma assai documentata narrazione dell’evoluzione dell’economia italiana dall’Unità ad oggi. Classe 1977, abruzzese, Dottorato a Pisa, Felice è recentemente rientrato in Italia come Professore Associato presso l’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara, dopo un periodo di cinque anni all’Università Autonoma di Barcellona. Il suo libro è per certi versi il primo tentativo di sintesi della storia economica italiana a seguito della grande crisi – non solo quella globale ed europea degli ultimi anni, ma quella più generale italiana, che le precede di almeno due decenni. L’ultima grande sintesi accademica – quella di Vera Zamagni, intitolata Dalla Periferia al centro – si chiudeva infatti con il 1990: e già all’epoca, osservatori come Marcello De Cecco si chiedevano con amara ironia se il titolo non avrebbe dovuto essere integrato, già dalla seconda edizione, con un “…e ritorno”. Felice, che in un recente articolo con Giovanni Vecchi ha certificato questo “ritorno” nelle misure di produzione come il PIL, nel suo libro estende l’analisi alla grande mole di dati prodotti dalla storiografia economica italiana negli ultimi decenni. Relegando tuttavia la gran parte delle serie storiche nell’appendice online, i dati vengono evocati nel testo in modo da venire incontro al lettore non tecnico, non sovrastando ma accompagnando costantemente la narrazione storiografica. Proprio per questa caratteristica, Ascesa e Declino sta generando un dibattito abbastanza insolito per la disciplina sui giornali, con qualche eco anche nel dibattito politico interno al Partito Democratico. Per questo, il libro si presta a ragionare non solo della storia economica italiana, ma anche di come questa possa interrogare il presente, di quale ruolo debba avere come disciplina all’interno della formazione e del discorso pubblico italiani. Per questo motivo vi proponiamo un’intervista, come prima pietra di un focus tematico sulla storiografia economica e sociale italiana.
***
Il libro è organizzato seguendo le categorizzazioni classiche della storiografia italiana – Italia Liberale, Fascismo, Dopoguerra (prima e dopo Bretton Woods). Molti tuoi colleghi, in effetti, si sono concentrati su uno solo di questi periodi. Traendo beneficio dalla prospettiva di lungo periodo, è corretto mantenere questa tradizionale suddivisione rigida, o prevalgono elementi di continuità nello sviluppo italiano, come sostenuto ad esempio da Rolf Petri?
Sicuramente esistono elementi di continuità, ed è anche normale che sia così.
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Riabilitiamo la teoria del valore*
di Augusto Graziani
Non poco dell'insegnamento economico di Marx è stato assorbito silenziosamente da economisti di tradizione estranea al marxismo. Non è difficile scoprire, all'interno della tradizione economica borghese, l'esistenza di una vasta corrente sotterranea di origine marxiana, a volte sepolta nel profondo, a volte affiorante in superficie, comunque sempre presente e vitale.
L'analisi di Marx, per chi volesse utilizzare un termine moderno, può dirsi impostata in termini macroscopici. La definizione marxiana del capitalismo come sistema basato sulla separazione fra lavoro e mezzi di produzione, e sulla conseguente contrapposizione tra una classe di capitalisti proprietari e una classe di lavoratori nullatenenti, è espressa direttamente in termini di struttura sociale. Questa definizione del capitalismo, come sistema costituito da classi in conflitto, è quasi superfluo ricordarlo, viene fermamente respinta dalla teoria economica borghese, la quale resta saldamente affezionata all'idea del mercato come libera palestra di contrattazione, nella quale i singoli affermano le proprie preferenze e difendono i propri interessi.
L'imposizione individualistica, com'è noto, prende come punto di partenza l'agire del singolo individuo e, dall'analisi del comportamento del singolo, desume l'assetto globale del sistema economico. A questa procedura, Marx, con la sua impostazione macroeconomica, contrappone una procedura inversa, di contenuto storico e concreto. Ridotta all'essenziale, la sua logica può essere espressa così: poiché l'esperienza storica mostra che un sistema sociale quale il capitalismo, basato sulla separazione tra lavoro e mezzi di produzione, si è affermato e perdura, ciò significa che i soggetti che lo compongono si comportano in modo da garantire la sopravvivenza.
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The Lancet: Covid-19 non è una pandemia, ma una sindemia
di Edmondo Peralta
The Lancet è considerata una delle più prestigiose riviste medico-scientifiche. Sia chiaro, anche The Lancet ha preso cantonate, come quando ha dovuto smentire uno studio (poi ricusato) sui pericoli della idrossiclorochina, studio che è servito all’Oms per sospendere l’uso del farmaco nei trial clinici, e lo stesso ha fatto l’Aifa italiana.
Di recente la rivista ha pubblicato un intervento del suo direttore, Richard Horton, che contesta, in riferimento al Covid-19, non solo le clausure il terrorismo sanitario dei governi, bensì lo stesso concetto di pandemia e propone quello di Sindemia. Un neologismo inglese Sindemia (synergy e epidemic) che è usato per caratterizzare l’aggregazione di due o più epidemie concomitanti o sequenziali o gruppi di malattie in una popolazione con interazioni biologiche che aggravano la curva prognostica delle malattie stesse. [Vedi: G. Collecchia, Il modello sindemico in medicina, in Recenti Progressi in Medicina, 220, 2019, pp. 271 ss]
Segnaliamo ai lettori l’articolo che segue.
* * * *
“Covid-19 is not a pandemic“: non una pandemia, ma una “sindemia“. Per il direttore di The Lancet la gestione dell’emergenza, basata solo su sicurezza ed epidemiologia, non raggiunge l’obbiettivo di tutelare la salute e prevenire i morti. Covid-19 non è la peste nera né una livella: è una malattia che uccide quasi sempre persone svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse oppure perché affette da malattie croniche, dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace. Nemmeno un vaccino.
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Sartre, tutta una vita dalla parte del torto
di Angelo d'Orsi
Quando mancò - era il 15 aprile del 1980: tre anni prima, sempre a Parigi, nella notte sempre tra il 15 e il 16 aprile se n'era andato un altro grande della cultura francese, Jacques Prévert - chi scrive era borsista della Fondazione Luigi Einaudi di Torino, dove aveva dato vita a un gruppetto di giovani "ribelli" alle regole piuttosto ferree di quella nobile istituzione. Ci si vedeva oltre che nei locali della biblioteca e dell'archivio, e nelle stanze a noi riservate, al di fuori: a pranzo, a cena, in qualche circolo Arci, sul Lungo Po, e si facevano grandi discussioni politico-culturali. Eravamo insieme quando giunse la notizia. Proposi allora, in una di quelle iniziative un po' sconsiderate che caratterizzano la giovane età, di organizzare un viaggio-lampo nella Ville Lumière e partecipare ai funerali di Sartre, l'indomani. Del resto, ricordo il pezzo forte della mia argomentazione, non aveva teorizzato, Sartre, il "gruppo in fusione" ? E non era ciò che cercavamo di essere?
Il no che ricevetti fu corale. E non era tanto e solo per il peso - innanzi tutto economico, essendo tutti più o meno squattrinati - della spedizione, ma specialmente perché, come sentenziò uno dei miei compagni (oggi importante studioso e commentatore delle relazioni industriali), "Sartre era superato". Forse lo era, ma nel mio deluso entusiasmo vibrava tutta l'ammirazione per la capacità di quel vecchio filosofo (vecchio per noi: in realtà morì a 75 anni non compiuti, essendo nato, ovviamente a Parigi, il 21 giugno del 1905) di mettersi in gioco, sfidando le corporazioni intellettuali, gli ambienti accademici (accademico non fu mai, ma le sue opere erano oggetto di studio nei corsi universitari, non soltanto in Francia, e decine di studiosi togati si erano cimentati in interpretazioni sartriane), le forze politiche, e lo stesso senso comune.
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Il colpo di Stato di banche e governi
di Luciano Gallino
Il tracollo finanziario di questi anni non è dovuto a un incidente del sistema ma è il risultato dell'accumulazione finanziaria perseguita ad ogni costo per reagire alla stagnazione economica di fine secolo. L'introduzione al libro del sociologo Luciano Gallino, "Il colpo di Stato di banche e governi"
La crisi esplosa nel 2007-2008 è stata sovente rappresentata come un fenomeno naturale, improvviso quanto imprevedibile: uno tsunami, un terremoto, una spaventosa eruzione vulcanica. Oppure come un incidente tecnico capitato fortuitamente a un sistema, quello finanziario, che funzionava perfettamente. In realtà la crisi che stiamo attraversando non ha niente di naturale o di accidentale. E stata il risultato di una risposta sbagliata, in sé di ordine finanziario ma fondata su una larga piattaforma legislativa, che la politica ha dato al rallentamento dell'economia reale che era in corso per ragioni strutturali da un lungo periodo. Alle radici della crisi v'è la stagnazione dell'accumulazione del capitale in America e in Europa, una situazione evidente già negli anni Settanta del secolo scorso. Al fine di superare la stagnazione, i governi delle due sponde dell'Atlantico hanno favorito in ogni modo lo sviluppo senza limite delle attività finanziarie, compendiantesi nella produzione di denaro fittizio. Questo singolare processo produttivo ha il suo fondamento nella creazione di denaro dal nulla vuoi tramite il credito, vuoi per mezzo della gigantesca diffusione di titoli totalmente separati dall'economia reale, quali sono i «derivati», a fronte dei quali – diversamente da quanto avveniva alle loro lontane origini – non prende corpo alcuna compravendita di beni o servizi: sono diventati di fatto l'equivalente dei tagliandi di una lotteria.
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Hannah, Elfride e Martin
Rossana Rossanda
Chi di noi, lettrici e lettori di Hannah Arendt non ha provato un moto di antipatia per Elfride, la moglie di Martin Heidegger, nazista e antisemita, che gli impedì di vivere apertamente la sua passione per la giovane studentessa ebrea, lui così brutto ma affascinante maestro, lei così bella e indifesa che ne beveva le parole? E' lui che l'ha afferrata e baciata durante una passeggiata nel bosco, e mandato subito dopo una lettera di scuse ma ardente. Ne seguiranno altre in una relazione che durerà per qualche anno. Come tutte le lettere d'amore, quelle di Martin non valgono granché se non si è poeti, e ancora. Martin non lo è, anche se si lascia andare a effusioni liriche e talvolta si prova nei versi, mentre le lettere di Hannah sono di un giovane cuore e di una giovane mente alle loro prime passioni. Loro essendo - lei pensa - persone speciali, Hannah accetta di essere l'amante segreta di una commedia borghese, di trovarsi altrove, di nascosto, in qualche città vicina dove egli deve andare per questo o quel seminario, prendendo treni diversi, incontrandosi in alberghi fuori mano. A Friburgo intanto lui suggerisce che lei passi ogni sera alle dieci davanti alla sua casa e se vede accesa la tal finestra, vuol dire che Martin può filarsela per un'ora e lei non ha che da aspettarlo su una certa panchina. Se luce non s'è, pazienza, si vedranno il giorno dopo, o due, o tre. Martin è sposato e ha due figli, non intende mettersi a rischio e Hannah non vuole altro che esserne amata, non è donna che farebbe mai storie, e sa che Elfride è, come tutte le mogli, necessaria, non geniale, esigente, gelosa.
In questa storia tutta la nostra simpatia è per Hannah, unita a una certa compassione per la viltà del genio innamorato, e alla persuasione che Elfride sia la solita megera. Dopo qualche anno però Hannah ne ha abbastanza, rompe senza scene e se ne va. Avrà prima con Guenther Anders, poi con Bluecher una vita coniugale libera, una casa per gli amici. Partirà in tempo per gli Stati Uniti, assisterà da lontano alla compromissione di Heidegger con il Partito nazional socialista, cui si iscrive nel 1933 assieme alla moglie, e poi al suo diventare rettore e al famoso discorso e alle interdizioni agli ebrei fra i quali Husserl che gli aveva dato la cattedra, di frequentare la biblioteca. Poi al suo abbandono dell'incarico, i nazisti sono troppo ignoranti - unico vizio che egli nota - e il dedicarsi a pensare e a scrivere, convinto della sua superiore missione. Per la quale Elfride ha costruito una capanna in alto tra i boschi, dove il filosofo avrà il necessario raccogliemento, oltre alla comodità cui lei provvede.
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Brexit o no?
Sogni di una notte d'inizio estate
di Pierluigi Fagan
Il riepilogo del sondaggio dei sondaggi del Financial times (qui), dà la Brexit al 43% vs l’opzione del rimanere in EU, data al 45%, ad oggi. E’ una media di vari sondaggi e ce ne sono di molto sbilanciati in un senso (ORB) o in quello opposto (ICM). Non ho approfondito le metodologie, posso solo dire che quelli a base intervistati più ampia (su i 2/3000 casi ) sono preferibili, in linea di principio. I sondaggi non sempre possono fotografare le reali intenzioni, manca ancora del tempo e comunque sembra che la questione sia in bilico. Ma non è del come andrà che vorremmo parlare ma capire il cosa potrebbe succedere nell’un caso o nell’altro e cosa possiamo noi augurarci che accada.
La ragione più forte per la Brexit è geopolitica a riprova del fatto che è questo il gioco che ordina e dà le condizioni di possibilità a tutti gli altri. Il valore geopolitico della Brexit è la libertà, l’autonomia di sviluppare qualsiasi strategia tra quelle più convenienti, attività nella quale i britannici hanno sviluppato -da qualche secolo- uno storico attaccamento e preferenza. Ad esempio, dal trattare o non trattare e se trattare farlo alle proprie condizioni, gli eventuali trattati di libero scambio, soprattutto scegliendo il “chi”. Non è un mistero che i britannici ritengano strategicamente gli USA una potenza in declino e sanno che una potenza declinante può diventare molto ingombrante da avere come partner, ancorpiù se dominante nella reciproca relazione.
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Pianeta Operaio
Rossana Rossanda
«Quando il potere è operaio», un libro manifestolibri curato da Gianni Sbrogiò e Devi Sacchetto sull'Assemblea autonoma di Porto Marghera. Saggi e testimonianze su una pagina dello scontro di classe degli anni Settanta e che ha costituito una rottura nella storia della classe operaia. E che continua a porre domande irrinviabili per questo presente
Oggi tutti danno gli operai per morti e sepolti. Ma fra gli anni Sessanta e Ottanta, in Europa, la sfida per il potere è stata autentica, ha messo paura ai padroni ed essi hanno dovuto rispondervi non solo in termini repressivi ma riorganizzando brutalmente proprietà e tecnologia. Questa storia non è stata fatta con qualche obbiettività. Si è per un poco accennato a un «caso italiano», ma è presto affogato nel concetto magmatico di globalizzazione, dove tutti i gatti sono bigi e la classe operaia è un fantasma.
Quando il potere è operaio, a cura di Gianni Sbrogiò e Devi Sacchetto, pubblicato ora dalla Manifestolibri, ce ne rende la memoria. È di Porto Marghera la storia densa, effettiva, che si incrocia appassionatamente con le «grandi narrazioni» del secolo passato: ragioni di vita, speranze, scontri fin mortali di classe che hanno modificato la scena antropologica e politica del retroterra veneziano. La prima percezione che ne viene è la complessità della fenomenologia operaia: Torino, Milano, Venezia e dintorni hanno avuto proletariati di origine diversa - figli di operai da due generazioni, figli di artigiani, figli di coltivatori diretti o braccianti, figli di mezzadri, per parlare degli immigrati dal mezzogiorno che penetrano nel nord e ne diventano parte integrante.
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Un economista controcorrente*
Alain Parguez e la Teoria del Circuito Monetario
di Riccardo Bellofiore
(Le parole devono essere un po’ selvagge, perché devono andare all’assalto dei non pensanti)
John Maynard Keynes
1. Alain Parguez – con Bernard Schmitt e Augusto Graziani uno dei fondatori della moderna Teoria del Circuito Monetario (nel seguitoTCM) - è uno degli autori che più ha influito sulla mia riflessione, sia dal punto di vista della impostazione teorica, sia dal punto di vista della interpretazione della dinamica concreta del capitalismo.
I suoi scritti sono caratterizzati da una compattezza e da una coerenza logica rare, che ben si accompagnano al coraggio della innovazione concettuale e alla integrità intellettuale, due qualità che ne fanno una figura così rara tra gli economisti, una specie purtroppo in via di estinzione.
Fioriscono invece, nell’eterodossia, i bricoleur che mettono insieme pezzi incompatibili di teorie inservibili, e intanto si affollano a competere come consiglieri di un auspicato nuovo Principe.
Ho partecipato, sin quasi dagli inizi, ad una delle esperienze fondatrici del ramo italiano del circuitismo, facendo parte del Seminario di Graziani che mensilmente si riuniva a Napoli, all’inizio degli anni Ottanta; ma anche di ciò che precede, dalla seconda metà degli anni Settanta cioè, ho una conoscenza molto ravvicinata.
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Leggere L'accumulazione del capitale
di Maria Turchetto*
Un’aquila
Lenin la definì “un’aquila”. E davvero Rosa Luxemburg volò molto in alto, in una società che era ancora profondamente maschilista. A quei tempi in quasi tutto il mondo le donne erano escluse dal voto e dai diritti politici, in molti paesi non avevano accesso alle professioni liberali, nel lavoro erano sfruttate e sottopagate rispetto agli uomini, nella famiglia soggette all’autorità del marito.
Rosa Luxemburg i diritti politici se li prese: fu una dirigente socialista di prima grandezza. Sostenitrice di posizioni internazionaliste, fu attiva nella sua Polonia, in Russia e soprattutto in Germania. Lucida, coerente, lontana da ogni opportunismo, all’epoca fu una delle poche rappresentanti del socialismo a non compromettersi con nessuna guerra, a battersi sistematicamente e implacabilmente contro il militarismo. Per questo suo atteggiamento passò in prigione la maggior parte degli anni della guerra, scrivendo, studiando e continuando a seguire gli eventi politici: la costituzione in Germania della Lega di Spartaco, di cui fu diretta ispiratrice; la rivoluzione russa, che valutò e commentò con grande intelligenza – sostenne Lenin e i bolscevichi, ma fu da sempre consapevole delle difficoltà e delle degenerazioni cui il partito rivoluzionario poteva andare incontro1.
Anche la parità con gli uomini Rosa Luxemburg se la prese – eccome. Primeggiò in un’epoca di giganti: i suoi interlocutori erano personaggi del calibro di Lenin, Trotsky, Kautsky, Bukharin, Bauer, Bernstein, Hilferding, Bebel.
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Euro e Austerity: la tenaglia che ci stritola
Vladimiro Giacchè
Credo che il primo dovere nei confronti di noi stessi sia quello della chiarezza.
In primo luogo sulla gravità della situazione. Il nostro paese ha perso, dall’inizio della crisi, poco meno del 10% del prodotto interno lordo, il 25% della produzione industriale, il 30% degli investimenti. A chi paventa catastrofi nel caso di un’eventuale fine dell’euro va risposto che al punto in cui siamo l’onere della prova va rovesciato, perché la catastrofe c’è già. E la prima cosa da fare è di comprendere come ci siamo finiti e cosa fare per uscirne.
Ci troviamo, molto semplicemente, nella peggiore crisi dopo l’Unità d’Italia: peggiore di quella del 1866, e peggiore di quella del 1929 (Rapporto CER n. 2/2013).
Peggiore per tre motivi: perché il livello di prodotto pre-crisi – che negli altri casi era già stato recuperato dopo 6 anni– in questo caso non sarà recuperato neppure in 10 anni; perché gli indicatori di cui disponiamo non segnalano alcun miglioramento significativo della situazione (al contrario, quanto alla disoccupazione, essi ne prevedono un ulteriore aumento nel corso del 2014). E anche perché la situazione attuale è caratterizzata da due elementi di rigidità che privano il nostro Paese di margini di manovra.
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Keynes vs Tabellini
di Alberto Bagnai
Non sarò breve (mi scuso).
Il professor Guido Tabellini interviene sul Sole 24 Ore sostenendo che le politiche di rigore sono necessarie ma non saranno sufficienti perché “le fondamenta stesse dell’euro sono viziate”. Un vizio determinato da due “difetti costitutivi”: primo, la Bce può svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza solo rispetto alle banche (rifinanziandole), ma non rispetto agli Stati (acquistando i loro titoli); secondo, la politica monetaria è centralizzata, ma la vigilanza è rimasta nazionale. Quali conseguenze avrebbero questi difetti? Senza un acquirente di ultima istanza dei titoli pubblici i paesi ad alto debito “sono lasciati in balia dei mutamenti di umore dei mercati”. Il decentramento della vigilanza invece porta a una segmentazione dei mercati, perché le autorità nazionali, diffidando di quelle dei paesi vicini, impedirebbero alle banche di prestare all’estero, e questa situazione “non può durare”.
Meglio tardi che mai
L’ammissione di errore deve essere accolta senza facili ironie e con grande rispetto. Dallo scoppio della crisi, in Italia gli economisti ortodossi hanno spesso testimoniato una profonda e sincera volontà di rimettere in discussione le proprie certezze. A sinistra non c’è stato niente di simile, per un semplice motivo: economisti e politici di “sinistra” hanno rivendicato per due decenni la scelta dell’euro come un loro grande successo. Il tatticismo politico ora impedisce loro di comprendere e di ammettere che questa scelta è contraria agli interessi del loro elettorato.
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Scorciatoie pericolose
di Anselm Jappe
Quella che si vede accanto è l'immagine di un manifesto di propaganda edito dal NSDAP (Partito nazional-socialista dei lavoratori tedeschi) nel 1932. "Morte ai bugiardi", recita la scritta a caratteri cubitali; un anticapitalismo di basso livello volto a denunciare mentitori e corrotti (gli uomini politici della Repubblica di Weimar), l'alta finanza (Hochfinanz), le tasse del "capitale rapace" (che si oppone al capitale buono che crea posti di lavoro) ed il marxismo (scienza ebrea, per i nazisti). Dal XX al XXI secolo: dal nazismo ... alla denuncia della "oligarchia finanziaria" o del "capitalismo da casinò". Un facile capro espiatorio che possa servire da grande teoria critica al piccolo altercapitalismo di sinistra.
Negli anni novanta è stato proclamato il trionfo oramai mondiale e definitivo dell'economia di mercato - al punto che alcuni dei suoi apologeti ritenevano che non fosse nemmeno più necessario utilizzare degli eufemismi, riprendendo come una sfida il nome "capitalismo", per lungo tempo vituperato, per farne l'elogio.
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Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin1
di Vladimiro Giacché*
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Dopo sei mesi di rivoluzione socialista coloro che
ragionano solo sulla base dei libri non capiscono nulla.
LENIN, 5 luglio 19182
1. 1917-1918. Il capitalismo di Stato come «passo avanti»
Le prime occorrenze significative del concetto di capitalismo di Stato negli scritti di Lenin del periodo postrivoluzionario risalgono alla primavera del 1918, e si situano nel contesto della dura contrapposizione ai «comunisti di sinistra», l’opposizione interna al Partito comunista allora guidata da Nikolaj Bucharin. Lo scontro, inizialmente infuriato sulla firma del trattato di pace con la Germania, non era meno duro sul terreno economico. Esso riguardava ora la gestione delle imprese e il rafforzamento della disciplina del lavoro al loro interno: alla necessità di questo rafforzamento, su cui Lenin insisteva, i «comunisti di sinistra» contrapponevano la gestione collettiva delle imprese, che finiva in pratica per tradursi nella paralisi e nell’ingovernabilità delle imprese nazionalizzate. Ma il tema centrale era un altro ancora: il ritmo e la direzione della trasformazione economica. In quei mesi Oppokov proponeva di «dichiarare la proprietà privata inammissibile sia nella città che nelle campagne», mentre un altro «comunista di sinistra», Osinskij, parlava di «liquidazione totale della proprietà privata» e di «immediata transizione al socialismo»3.
Per Lenin le priorità sono diverse: «la ricostituzione delle forze produttive distrutte dalla guerra e dal malgoverno della borghesia; il risanamento delle ferite inferte dalla guerra, dalla sconfitta, dalla speculazione e dai tentativi della borghesia di restaurare il potere abbattuto degli sfruttatori; la ripresa economica del paese; la sicura tutela dell’ordine più elementare»4.
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L'imperialismo oggi: che cos'è e dove va
Guglielmo Carchedi * | retedeicomunisti.org
I. Con la disfatta storica del movimento operaio, la parola "imperialismo" è scomparsa dal vocabolario della sinistra ed è stata rimpiazzata da "globalizzazione". Tuttavia, se la parola è scomparsa, la realtà persiste.
Vediamo prima di tutto cosa non è l'imperialismo. Prendiamo ad esempio la nozione di Impero di Toni Negri. Ho scritto una lunga critica di Impero in un mio libro recente (Behind the Crisis). Qui posso solo menzionare telegraficamente alcuni dei punti chiave di Impero senza aver la pretesa di dare una valutazione anche minimamente completa .
Nell'Impero di Negri, mentre l'imperialismo era un'estensione della sovranità degli stati europei oltre i loro confini nazionali, ora l'Impero è un network globale di potere e contro potere senza un centro (p. 39). Quindi gli Stati Uniti non formano, e nessuno stato può formare, il centro di un progetto imperialista (p.173). Gli Stati Uniti intervengono militarmente nel nome della pace e dell'ordine (p.181).
Ma è ovvio
(1) che il ruolo degli stati non stia scomparendo, anche se come vedremo, alcuni sono inglobati in blocchi imperialisti
(2) che la nozione di potere e contropotere ignora che il potere delle nazioni dominanti non è lo stesso potere delle nazioni dominate
(3) che l'imperialismo, lungi dallo scomparire si sta trasformando pur rimanendo essenzialmente lo stesso
(4) che poi gli USA intervengano militarmente per mantenere la pace, è un'affermazione che glorifica e giustifica quell'imperialismo di cui Negri nega l'esistenza.
Consideriamo allora una persona più seria, Lenin.
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Il pluralismo che blocca il pensiero critico
Riccardo Bellofiore
AA. VV. IL CAPITALISMO INVECCHIA?, MANIFESTOLIBRI, PP.140, EURO 22
Nel mezzo della crisi il manifesto intervistò 14 economisti. Con altri interventi, l'iniziativa è ora un libro a cura di Cosma Orsi, con prefazione di Alberto Burgio, postfazione del curatore, e un testo prezioso di Paolo Sylos Labini commentato da Giorgio Lunghini. Il volume «naviga» tra molte interpretazioni. Il titolo, Il capitalismo invecchia?, è singolare. Il capitale è un «morto vivente»: si rianima succhiando lavoro vivo, ringiovanendo (lo ricorda Vladimiro Giacché) proprio grazie alle crisi. Il quesito è: che crisi è questa, di quale capitalismo? Il manifesto non è nuovo a dibattiti del genere, né si è accorto con ritardo della crisi (come molti degli intervistati). Parlato, presentando le interviste, scrisse che il manifesto «sa poco di economia». In realtà la pagina capitale e lavoro ha coperto esemplarmente lo tsunami finanziario e reale dall'agosto 2007. Lo stesso Parlato pubblicava nel 1974 Spazio e ruolo del riformismo. Oggi leggiamo punti di vista che si affiancano senza dialogare davvero. Allora la discussione partiva un punto di vista definito. Oggi, pluralismo eclettico di monologhi. Ieri, pluralità di punti di vista dialoganti.
Com'era il dibattito, da metà Novanta sino al 2007? Si contendevano il campo due letture. Una, stagnazionistica, si appoggiava o sulla caduta del saggio del profitto (da aumento della composizione del capitale) o sul sottoconsumo (da bassi salari). L'altra insisteva sulla dinamicità di un Impero esente da crisi, l'economia della conoscenza e una cooperazione sociale immediata. Entrambe duramente smentite. Si è proceduto come se niente fosse, a furia di seconde globalizzazioni e golpe nell'Impero. Il pensiero critico è così arrivato impreparato alla crisi.
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La Cina è capitalista?
Intervista a Rémy Herrera
“La Cina è capitalista?”. Questo il titolo del nuovo di libro di Rémy Herrera (economista marxista francese, ricercatore al CNRS e alla Sorbona, Parigi) e Zhiming Long (economista marxista cinese della Scuola di Marxismo all’Università Tsinghua, Pechino), uscito a Marzo per le Éditions Critiques. Gli autori intendono smentire stereotipi e incomprensioni sulla Repubblica popolare cinese, ripercorrendo la storia dello sviluppo economico del paese dal 1950 a oggi. L’intervista che trascriviamo è stata realizzata da Le Média, un nuovo media alternativo legato alla sinistra francese.
* * * *
Il vostro è un libro controcorrente. Presenta un punto di vista piuttosto raro in Francia, che merita di essere segnalato e discusso. Innanzi tutto, come fate notare, quando si parla dell’economia cinese spesso lo si fa attraverso un prisma occidentale, usando dati prodotti da occidentali: secondo voi, ciò falsifica la visione che noi abbiamo del successo cinese.
Esattamente, ed è un punto fondamentale. Tutti infatti hanno un’opinione sulla Cina, ma che rischia di non essere necessariamente ben fondata. Ciò è dovuto, secondo noi, alle difficoltà rappresentate dalla lingua e dalla lontananza geografica. Difficoltà che rendono in qualche modo inaccessibili gran parte dei dibattiti interni alla Cina e che obbligano passare attraverso questo prisma occidentale. Uno sguardo esterno che occupa in pratica la totalità della nostra percezione della Cina. E questo è un problema, esso è dovuto innanzi tutto a una difficoltà di accesso ai dati, ma non certo perché le statistiche cinesi siano nascoste – al contrario esistono, sono molto numerose e diffuse. Tuttavia sono nella maggioranza dei casi in cinese, cosa che le rende di difficile utilizzo. Queste statistiche sono, contrariamente all’opinione comune, abbastanza serie, ben costruite e relativamente affidabili e questo da molto tempo – grazie all’Ufficio nazionale di statistica che esiste dal 1952. Tuttavia possono risultare incomplete, per noi che avevamo bisogno di un certo numero di indicatori che non esistevano oppure, laddove esistevano, non erano esenti da imperfezioni.
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Lenin e la pratica filosofica*
di Carlo Di Mascio
La verità non sta all’inizio, ma alla fine, o, più esattamente, nella continuazione. La verità non è l’impressione iniziale…
Lenin, Quaderni filosofici
Bisogna ribadire ‘ad nauseam’ […] il fatto che l’idealismo di Hegel non implica la tesi secondo la quale lo scibile è posto da un ‘io’, vale a dire da un sé che è l’essenza di ogni autoscienza, o addirittura da un isolato soggetto-coscienza.
Hans-Friedrich Fulda, Dialektik in Konfrontation mit Hegel
I.
Louis Althusser, nel suo Lenin e la filosofia, analizzando la distanza tra Lenin e la filosofia ufficiale, quella professorale, accademica, distanza che tende ad annullarsi ogni volta che la filosofia si trova costretta a fare i conti con l’urgenza dell’azione politica e della sua inesorabile relazione con essa, commentava come Lenin, «un naïf e un autodidatta in filosofia […] semplice figlio di maestro, piccolo avvocato diventato dirigente rivoluzionario», avesse avuto l’ardire di confrontarsi con la filosofia ufficiale e tutto questo con l’obiettivo preciso di promuovere «una pratica veramente cosciente e responsabile della filosofia»1. Ora, tuttavia, ciò che maggiormente colpisce di questa premessa è il fatto che Lenin, con tutte le inadeguatezze del caso, abbia inteso occuparsi – in un momento storicamente decisivo, connotato dalle conseguenze del fallimento rivoluzionario del 1905, dal disorientamento «ideologico» di molti intellettuali marxisti del tempo2, dalla singolare parabola della Seconda Internazionale, dal 1889 sino al suo crollo nel 19143, nonché dall’avvicinarsi di un conflitto mondiale e di una rivoluzione proletaria inevitabile – proprio di filosofia, ed in particolare tra il 1908 e il 19164, pur riconoscendo a più riprese, come sottolineato in una lettera a Gorki del 7 febbraio 19085 di non essere un filosofo, di essere impreparato, ma purtuttavia di non fare filosofia come quelli che la fanno di professione, i quali, invece, si limitano a «ruminare nella filosofia.
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Come si esce dall'euro?
Tutto quello che c'è da sapere per non farsi trovare impreparati
Claudio Messora intervista Claudio Borghi
Sul Corriere della Sera di oggi si inizia a parlare di "corsa alle banche", cioè della possibilità che si verifichi il ritiro massiccio dei depositi sui conti correnti da parte dei cittadini, spaventati dall'ipotesi di chiusura degli sportelli e dalla svalutazione sui risparmi, che a breve potrebbe far implodere il sistema monetario europeo.
Per cercare di fare chiarezza sullo scenario di una possibile uscita dell'Italia dall'euro ho intervistato Claudio Borghi, economista docente all'Università Cattolica di Milano, editorialista ed ex managing director di Deutsche Bank. Prendetevi un'ora di tempo, perché la rete, a differenza della televisione, non ha fretta.
MESSORA: Claudio Borghi, docente di economia degli intermediari finanziari alla Cattolica di Milano, nonché economista e giornalista.
BORGHI: Buongiorno.
MESSORA: Buongiorno. siamo qua oggi perché vorremmo tentare di capire, nell'approfondimento che solo la rete consente, che cosa succede se usciamo dall'euro. È uno spauracchio, è un totem, è un tabù. Però in effetti nessuno ci spiega nell'ora zero, nel caso in cui dovessimo uscire dall'euro, quali sarebbero i passi e gli avvenimenti che si susseguirebbero.
BORGHI: Innanzitutto nessuno ve lo spiega perché non ci sono grandi precedenti, nel senso che è successo in passato che ci sono stati dei cambi di valuta, siamo passati dalla lira all'euro e il giorno dopo eravamo ancora tutti lì. Quello che spaventa è il fatto di passare da una valuta debole a una forte. Tutti pensano che sia facile, perché normalmente c'è un vecchio detto che dice che la moneta buona scaccia la moneta cattiva.
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De Omnibus Dubitandum Est
Intervista a Gianfranco Sanguinetti della rivista praghese Literarni Noviny
1) Come decidere quale mezzo di comunicazione è affidabile? C'è qualche regola dettata dal buon senso per farlo?
Religione e politica si appoggiano entrambe sulla credulità delle persone, e la credulità si basa sull'ignoranza. Si rende pertanto necessario costruire l'ignoranza della gente, per poter poi costruire sulla credulità. Poi, con la credulità si può far tutto. Allo stesso modo in cui avveniva con il sermone del prete, la stampa ufficiale, e con essa la TV, partecipano con successo alla fabbricazione dell'ignoranza informata. Ma, nell'epoca dell'informazione, paradossalmente, la gente non sa niente: esiste soltanto quello di cui si parla; ciò di cui non si parla, non esiste, scompare. La gente non sa neppure ciò che mangia né ciò che beve, né quanto sia il tasso di erbicida glisofato (Roundup) cancerogeno della Monsanto presente nel loro corpo, dal momento che non viene loro comunicato con esattezza [*1]. Allo stesso modo in cui ci si nutre di veleni, senza saperlo, ci si nutre della stampa avvelenata.
Il filosofo Seneca, il quale, in quanto consigliere dell'imperatore Nerone, aveva imparato a conoscere i popoli, diceva "Unusquisque mavult credere quam iudicare": "Ciascuno preferisce credere che giudicare". E' su questa debolezza umana che si costruisce la credulità.
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Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere
Riccardo Bellofiore
Intervento al convegno L'Europa verso la catastrofe?
Come hanno detto i relatori che mi hanno preceduto, la situazione in cui viviamo è una situazione invernale, gelida. Penso che alcuni di voi, certamente i più anziani come me, abbiano visto il film Frankenstein Junior e quindi si ricorderanno la scena in cui il giovane Frankenstein e il gobbo Igor vanno a scavare in un cimitero per esumare il cadavere del mostro e Frankenstein jr dice “che lavoro schifoso” e Igor risponde “potrebbe andare peggio”. Frankenstein jr chiede “come?” e Igor risponde “potrebbe piovere”. Subito si sentono tuoni e inizia una pioggia violenta. Questa è la situazione in cui sono convinto da tempo che ci troviamo a vivere. E in effetti ho intitolato “Potrebbe piovere” uno scritto ormai di due dicembre fa firmato con Joseph Halevi.
Cercherò di rispondere alle sollecitazioni avanzate da Raparelli e Casarini, oltre che dai relatori che mi hanno preceduto. Non è facile da farsi in così breve tempo. Cercherò sostanzialmente di svolgere tre argomenti, dandovi soltanto una sorta di schema di un ragionamento possibile. Primo: cercherò di chiedermi in che tipo di crisi del capitalismo globale ci troviamo, e su questo sarò veramente telegrafico. Dopo, cercherò di discutere dell’euro, dell’euro così come si è costruito nella realtà, non come spesso ce lo raccontiamo, e del tipo di crisi dell’euro e dell’Europa che viviamo adesso. In terzo luogo, cercherò di entrare nel terreno di discussione, complicato, delle possibili politiche economiche, e di qui svolgerò alcune considerazioni politiche. Sarò estremamente schematico. Chi fosse interessato trova lo sviluppo del ragionamento in due libretti che ho pubblicato recentemente [n.d.r. La crisi capitalistica, la barbarie che avanza e La crisi globale, l’Europa, l’euro, la sinistra, editi entrambi da Asterios, Trieste, nel 2012].
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Crisi finanziaria e governo dell'economia
Alberto Bagnai
«L'obscurité n'est pas un défaut quand on parle à des bons jeunes gens avides de savoir, et surtout de paraître savoir.»
Stendhal, Promenades dans Rome, 17 mars 1828.
1. Introduzione
Accolgo con vivo piacere l’invito a contribuire a questo numero dedicato al governo del sistema monetario europeo e internazionale. Se posso permettermi un po’ di leggerezza, mi solleva il fatto che qualcuno sia ancora interessato a raccogliere le opinioni di un economista, in un periodo nel quale la scienza economica è particolarmente discreditata per non aver saputo prevedere lo scoppio della crisi, e per non averne saputo scongiurare le conseguenze. Non credo che questi rilievi siano del tutto corretti: esempi illustri di analisi “profetiche” non mancano. Ammetto però che da qualche tempo gli scambi più proficui su questo tema mi capita di averli con studiosi esterni alla mia professione: storici, geografi, giuristi. Questo dipende in parte dal mio percorso, che mi rende insofferente verso l’omodossia economica (non chiamerei “ortodossia” il cosiddetto pensiero mainstream, che è certamente unanime - omos - ma, visti i risultati, probabilmente non del tutto corretto - orthos). I benefici di questi scambi interdisciplinari dipendono però soprattutto dal fatto che essi costringono a riorganizzare le proprie categorie, a cercare nuove strade di trasmissione del proprio sapere “tecnico”, a reagire a stimoli imprevisti. Un esercizio utilissimo, da compiere con umiltà e con quel senso di responsabilità che deriva dal costituirsi rappresentante della categoria verso un mondo “esterno”. Il che obbliga a porsi due domande ben precise: in che modo posso aiutare la riflessione dei colleghi che hanno seguito altri percorsi (e farmi aiutare nella mia)? E in che modo posso fornire loro una rappresentazione critica ma non distorta dei risultati e delle aporie della mia disciplina?
Rinuncio fin da ora al secondo obiettivo: vivrò senza sensi di colpa la mia faziosità, sapendo di rivolgermi a un pubblico che ha gli strumenti critici per difendersi qualora le mie tesi non lo convincano, e soprattutto qualora lo convincano. Per lo stesso motivo rinuncerò al parlare oscuro (utile, come ci ricorda Stendhal, quando si parla a giovanotti ansiosi di sfoggiare il proprio sapere): parlando a un pubblico maturo sceglierò la strada della semplicità, sperando di non compromettere il rigore dei miei argomenti. Rivolgendomi a dei giuristi la linea di attacco più naturale mi sembra quella di riflettere sulle relazioni fra la crisi e le regole, scritte o non scritte, che governano il sistema finanziario internazionale.
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La fregatura elettronica
Scritto da Uriel Fanelli
Ci sono tante dicerie su come sarebbe possibile risolvere ogni problema del mondo, su internet. Una e' quella di non far pagare il "signoraggio", con un risparmio che oggi sarebbe per l' Italia qualcosa come 500 milioni di euro e che dovrebbe risolvere ogni cosa. L'altro e' l'introduzione della moneta elettronica, ovvero l'abolizione della cosiddetta massa M0.
L'idea di queste persone e' che si possa commettere un atto illegale e lucroso solo perche' essenzialmente nessuno controlla in tempo reale i movimenti economici. Se tali movimenti venissero controllati, o fossero anche solo teoricamente controllabili, allora l'evasione sarebbe un problema risolto.
Il modo col quale si rendono "controllabili" tali movimenti sarebbe , secondo queste persone, la moneta elettronica.
Intendiamoci: solo qualche anno fa la cosa sarebbe stata, in gran parte, verissima. Faccio un esempio stupidissimo: moltissime escort avevano iniziato ad usare un lettore di carte di credito portatile, prendendo una partita IVA come "lezioni di lingua" o "interprete", e rilasciando una ricevuta sonante con l'apposita dicitura.
Questo esempio mostra chiaramente i due punti deboli dell'assunzione.
Il primo e' che tracciare la transazione equivalga a tracciarne la natura.
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Il default è un disastro ma è il male minore
di Guido Viale
Di quale crescita parliamo? Di rilanciare la produzione di suv, lavatrici e navi da guerra, o di tav, mose e ponti? Le ricette che hanno ucciso la Grecia ci preciterebbero nel baratro. Una polemica con Felice Roberto Pizzuti
«Un default azzererebbe il risparmio che i singoli cittadini/lavoratori, direttamente o indirettamente, hanno affidato allo stato, anche a fini pensionistici (...). Riguarderebbe anche le istituzioni del welfare, cioè il sistema pensionistico obbligatorio, gli ammortizzatori sociali e l'assistenza, il sistema sanitario nazionale, l'istruzione (...). Si estenderebbe alle banche e sarebbero colpiti anche i singoli correntisti (...). Priverebbe il sistema produttivo non solo del risparmio nazionale, ma anche del suo sistema bancario, con l'effetto di estendere la crisi all'economia reale (occupazione, consumi, prestazioni sociali, ecc) (...). Genererebbe seri rischi di altri fallimenti a catena nell'economia europea e mondiale. L'euro e la stessa Unione europea avrebbero molte difficoltà a sopravvivere (...). Bisognerebbe mettere in conto inevitabili reazioni, rivalse e un grave deterioramento delle relazioni internazionali (...). Sarebbe poi pressoché impossibile praticare politiche autonome che privilegiassero obiettivi sociali e ambientali».
Queste frasi, estratte da un articolo di Felice Roberto Pizzuti sul manifesto del 4 novembre, vorrebbero scongiurare il rischio di un default; e persino diffidare dal parlarne troppo, per paura che l'idea si diffonda per contagio. L'autore non sembra rendersi conto che quello che prospetta come conseguenza di una scelta politica per lui da evitare (blocco del welfare, paralisi di scuola e sanità, contrazione del circuito economico, disoccupazione, isolamento internazionale, azzeramento delle politiche ambientali, ecc.) non è molto diverso da quello che succede in Grecia con le misure imposte dalla cosiddetta troika. O dalla strada che l'Italia è destinata a percorrere se darà attuazione alle prescrizioni di Draghi e Trichet. Tutti sanno che la Grecia non si risolleverà per anni dallo stato di prostrazione economica e civile a cui la condannano quelle misure: la aspetta come minimo un «ventennio perso», come quello che il Fmi aveva imposto ai paesi dell'America latina alla fine del secolo scorso - e dal quale si sono risollevati solo quando ne hanno rigettato le prescrizioni.
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L’Italia come “mondo atono”
Jean-Claude Lévêque
L’Italia come “mondo atono”: alcune considerazioni politico-filosofiche a partire da Alain Badiou (e non solo).
Le brevi riflessioni che seguono intendono cercare di esaminare il “ caso Italia”, così peculiare nel contesto europeo, a partire da un concetto fondamentale coniato da Alain Badiou in Logique des mondes: quello di “mondo atono”.
Nella prima parte, cercherò rapidamente di esporre questo concetto, applicandolo poi concretamente alla situazione di chiusura propria della politica e della società italiane; nella seconda, farò dialogare provocatoriamente Badiou con Costanzo Preve e con Domenico Losurdo perché risulti più chiaro che, di fronte alla crisi italiana, di tutto abbiamo bisogno tranne che di interpretazioni “moralistiche” o paranoiche.
So che citare Preve non è certo “politicamente corretto”, ma penso anche che sia necessario e filosoficamente adeguato citarlo, giacché si tratta di uno studioso serio che argomenta con chiarezza, al di là della condivisibilità o meno di certe sue letture del marxismo (ma anche della politica italiana).
1. Mondi “atoni” e soggetti “reattivi”
Chi conosca almeno parzialmente il testo di Badiou, non avrà difficoltà a comprendere il senso di quest’accostamento; tuttavia è necessario precisare prima i due concetti per non incorrere, dopo, in spiacevoli fraintendimenti.
Per Alain Badiou, un mondo “atono” è un mondo in cui “il suo proprio trascendentale non ha alcun punto”, ovvero in cui non è possibile che si dia alcun cambiamento profondo attraverso la fedeltà a un evento.
Siccome il concetto di trascendentale in Badiou ha un significato non-kantiano, sarà bene chiarire perché è così e che cosa ne consegue: il trascendentale di un mondo “indica la capacita costitutiva propria di ogni mondo di attribuire a ciò che ‘sta’ in quel mondo delle intensità variabili”.
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Europa, occupiamo lo spazio comune
di Ugo Mattei
Non c'è timoniere, né punto d'arrivo nell'attuale "rotta" d'Europa, cresciuta con il motto implicito "meglio che niente". L'alternativa è radicale: uscire dall'egemonia privatistica, mettere al centro della scena la lotta per un diritto del comune e contro l’accumulo istituzionalizzato della ricchezza
Tenere una rotta è possibile qualora si configurino due condizioni. Deve esserci un timoniere e il timoniere deve tener presente un punto d’arrivo cui tendere in modo il più possibile coerente. Ne segue che la metafora della rotta mal si addice all’Europa per mancanza dell’una e dell’altra condizione. Non si può escludere che nell’immediato secondo dopoguerra i c.d. padri fondatori dell’Europa, da Shuman a Spinelli da Monet ad Adenauer, avessero in mente un obiettivo, sostanzialmente quello di evitare rigurgiti di aggressività militare tedesca attraverso misure di mercato. Quello scopo, certo importantissimo, è stato raggiunto ma la sconfitta politica del manifesto di Ventotene (almeno nella sua interpretazione più ambiziosa e avanzata) ha semplicemente tramutato la cifra dell’aggressività tedesca da militare a economica, come ampiamente dimostrato inter alia dalla recente vicenda greca. Conseguenza politica del prestigio dei “padri fondatori” è stata l’ideologia, diffusasi soprattutto a sinistra, del “meglio che niente”.
In tempi recenti Delors e Prodi sono stati gli esponenti più prestigiosi della nutrita schiera di quanti sostengono la desiderabilità intrinseca del lavoro politico rivolto all’obiettivo della maggior integrazione. Dall’Atto unico europeo al Trattato di Maastricht, dall’elezione diretta del Parlamento europeo all’euro, ci si è proclamati spesso con orgoglio “europeisti” senza mai davvero fare i conti con il problema di “quale integrazione”.
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Trump, risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione
di Domenico Moro
1. Populismo o alternanza nella democrazia oligarchica?
La vittoria di Trump è stata vissuta come uno shock in tutto lo spettro politico. La stragrande maggioranza delle interpretazioni aderiscono alla medesima visione: Trump sarebbe l’espressione statunitense della ventata populista che sta imperversando nei Paesi avanzati e di cui sono esempio anche Brexit e l’affermazione elettorale di partiti e movimenti populisti in tutta Europa. Si va dalle posizioni che paventano l’affermazione di un nuovo fascismo a quelle che vedono nella vittoria di Trump un segno anti-establishment. Secondo questa visione, Trump ha vinto perché avrebbe raccolto il voto degli esclusi mentre la Clinton ha perso perché rappresentante del capitale globalizzato e di Wall Stret.
In primo luogo, va precisato che Trump ha vinto solo in virtù del sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sul sistema dei grandi elettori e in un contesto in cui vota poco più della metà degli aventi diritto. La Clinton, secondo gli ultimi conteggi, avrebbe un vantaggio, in termini di voto popolare, di oltre 2 milioni di voti1. In secondo luogo, per essere una ipotesi che terrorizzava Wall Street e per essere Clinton la beniamina dei mercati finanziari, come titolava il Sole24ore2, la Borsa di New York ha reagito in modo ben strano alla vittoria di Trump.
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