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Si può uscire dall'euro: ecco come
di Leonardo Mazzei
Un formidabile saggio di Leonardo Mazzei. Una guida pratica che spiega, a chi abbia già capito i perché, i COME si possa e si debba uscire dalla gabbia della moneta unica e riconquistare sovranità monetaria. "Non sarà una passeggiata ma l'Italia ha tutto da guadagnare". Cinque , in risposta agli euroinomani ed ai seguaci di T.I.N.A., i temi sviscerati: 1) la svalutazione, 2) l'inflazione, 3) la fuga dei capitali, 4) la ridenominazione del debito, 5) il presunto isolamento dell'Italia e le sue dimensioni ritenute troppo piccole per ritornare alla sovranità monetaria. Buona lettura.*
Quelli che... ormai è troppo tardi
Che l'euro sia un grave problema per l'economia italiana viene ormai riconosciuto con sempre maggior frequenza. Ma mentre la platea degli ultras della moneta unica si va pian piano svuotando, viene invece a riempiersi quella di chi, pur ammettendo i danni prodotti, sa solo concludere che ormai è troppo tardi per uscirne.
Insomma, se fino a qualche tempo fa si doveva assolutamente restare nell'eurozona per i presunti benefici di questa collocazione - moneta "forte", aggancio a sistemi produttivi considerati più avanzati, tutela del risparmio, eccetera - oggi si tende ad evidenziare i problemi connessi all'uscita. Segno dei tempi, senza dubbio, ma anche della manifesta impossibilità di continuare a sostenere la bontà di una scelta che ha fatto sprofondare l'Italia nella crisi più grave degli ultimi ottant'anni.
Certo, la recessione scoppiata nel 2008 ha avuto una dimensione non solo europea, ma il fatto che si sia rivelata più profonda e prolungata proprio nell'Unione, ed ancor più nell'eurozona, qualcosa dovrà pur dirci. Tanto più che tra i benefici dell'euro doveva esserci pure quello di attenuare i cosiddetti shock esterni. E' avvenuto invece il contrario, come dimostrato da tutti gli indicatori economici: da un lato l'Unione Europea è l'area dove la crisi ha picchiato più duro, dall'altro l'euro ha aumentato le asimmetrie tra le varie economie nazionali che la compongono. Detto in altri termini, la moneta unica ha innescato un meccanismo di redistribuzione della ricchezza al contrario, avvantaggiando i paesi più ricchi (Germania in primis) a danno di quelli considerati "periferici". Tra questi l'Italia.
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E questo è quanto
di Silvia De Bernardinis
“E questo è quanto. Storie di rivoluzionarie e rivoluzionari”. Il titolo della nuova collana edita da Bordeaux e curata da Ottone Ovidi esordisce con questo primo volume dedicato a Salvatore Ricciardi. Una storia e una vita di militanza, iniziata nelle piazze, con le grandi manifestazioni contro il governo Tambroni nel 1960 e la rivolta degli edili a Piazza SS. Apostoli nel 1963, stesso carattere e stessi contenuti della più nota Piazza Statuto torinese dell’anno precedente, uno snodo importante che comincia a dare fisionomia ad una nuova soggettività operaia, quella che farà da traino e sarà il collante del movimento di classe che emergerà chiaramente durante il biennio 68-69. La crescita politica di Salvatore, come lui stesso racconta, avviene nel contesto di queste lotte operaie, prima con gli edili e poi, soprattutto, nelle ferrovie, dove svolge attività sindacale nella Cgil e successivamente, cacciato dal sindacato, nel Cub-ferrovieri, di cui è uno dei fondatori. Sono gli anni, quelli tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, che sanciscono il passaggio dalla non ostilità alla rottura con la sinistra istituzionale, ed in particolare con il Pci, che nel corso degli anni 70 diventerà sempre più profonda. Nel 1977, l’entrata nella colonna romana delle Brigate Rosse. Sarà arrestato nel 1980, e come tutti i prigionieri politici sperimenterà il circuito delle carceri speciali e l’ultima grande rivolta carceraria, quella di Trani che, legata al contemporaneo sequestro D’Urso, porterà alla chiusura dell’Asinara. Ultima battaglia unitaria delle BR, dopo la quale si consumerà la scissione dell’organizzazione, diretta dall’interno del carcere, con la formazione del Partito Guerriglia al quale, diversamente dalla maggioranza dei prigionieri politici BR, Salvatore non aderirà. È un processo, questo che porta alla scissione, che Salvatore vive in parte fuori e in parte dentro il carcere, che inizia nel 1979 con una dura critica dei prigionieri politici all’Esecutivo, espressa attraverso le 20 tesi del “documentone” elaborate nel carcere di Palmi, con le quali si accusava l’organizzazione all’esterno di incapacità di innalzare lo scontro sociale e guidare un movimento che si immaginava, astrattamente ed erroneamente, fosse all’offensiva.
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La finanza è il segnale dell’“autunno”
di Giorgio Gattei*
1. Lo scambio capitalistico D–M–D’ (con D’>D) può presentarsi in tre modi: come capitale commerciale con cui si comperano merci a buon mercato per rivenderle più care giusto uno scambio a valori non equivalenti (quello che uno guadagna, l’altro lo perde): D<M<D’; come capitale industriale con cui si comperano mezzi di produzione e forza-lavoro per produrre merci poi vendute ad un valore superiore del valore anticipato per l’aggiunta del plusvalore ottenuto mediante lo sfruttamento del lavoro salariato: D=M...Produzione...M’=D’; infine come capitale finanziario, con cui si prestano denari per riceverli alla scadenza, senza nemmeno bisogno di transitare per le merci, maggiorati dell’interesse, così che lo scambio è di nuovo a valori non equivalenti: D<D’. Come si vede è soltanto il capitale industriale a rispettare la regola dell’equivalenza degli scambi, il che vuol dire che entrambe le parti implicate ci guadagnano perchè nuova ricchezza è creata, mentre nel capitale commerciale e finanziario ci scambi appena la ricchezza esistente.
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Orientarsi nel labirinto della lotta di classe
A proposito di un libro di Domenico Losurdo
Elena Maria Fabrizio
Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è stato il mondo che è rimasto colpito - e duramente colpito - dall’Occidente
A. Toynbee, Il mondo e l’Occidente
Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 387
L’assenza cronica di visioni globali della storia è il più grave colpo inflitto dall’umore postmoderno alla contemporaneità. Di questa assenza soffre anche certa cultura marxista, spesso retrocessa a visioni che hanno rimosso dall’orizzonte storico la portata universalistica del conflitto di classe, qualche volta ridotto a semplice stagione del più ampio processo moderno di emancipazione, qualche altra a progetto fallimentare di cui solo la tradizione liberal-riformista avrebbe saputo tesaurizzare gli aspetti propulsivi.
In questa situazione culturale e politica analizzare i processi storici attraverso la categoria della lotta di classe è un’operazione coraggiosa perché tocca questioni ideologiche e etico-politiche che dal crollo del comunismo sovietico è politicamente scorretto, se non scandaloso, evocare. La critica dell’ideologia però resiste, in uno studioso che ne è tra i più illustri e forse ortodossi rappresentanti e di cui ci sono noti i meticolosi controcanti all’edificante apologia di quella storia che l’Occidente proclama come progressiva e propria. Con questo libro, Losurdo riprende il filo di una ben nota narrazione che si vuole far passare per fallita o passé, ma che forse non si conosce ancora abbastanza. Ne scandaglia l’interna complessità e senza riduzionismi di sorta ci restituisce una visione globale della storia nella quale la lotta di classe riceve il ruolo di spinta che le spetta nel processo di emancipazione e costruzione di unità del genere umano.
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Guerra in Ucraina, invio di armi e propaganda
Intervista al gen. Fabio Mini
"Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti." E' il pensiero di Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano, già Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo. "E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui", dichiara a l'AntiDiplomatico. E' stato scritto correttamente come le voci più sensate nel panorama della propaganda a senso unico siano quelle dei generali, di coloro che conoscono bene come pesare le parole in momenti come questi. Come l'AntiDiplomatico abbiamo avuto l'onore di poter intervistare uno dei più autorevoli.
* * * *
L'INTERVISTA
Dal Golfo di Tonchino alle armi di distruzione di massa in Iraq- e tornando anche molto indietro nella storia - Generale nel suo libro “Perché siamo così ipocriti sulla guerra?” Lei riesce brillantemente a ricostruire i falsi che hanno determinato il pretesto per lo scoppio di diverse guerre. Qual è l’ipocrisia e il falso che si cela dietro il conflitto in corso in Ucraina?
Il falso è che la guerra sia cominciata con l’invasione russa dell’Ucraina. Questo in realtà è un atto nemmeno finale di una guerra tra Russia e Ucraina cominciata nel 2014 con l’insurrezione delle provincie del Donbas poi dichiaratesi indipendenti.
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La nuova scuola premia i signorsì senza spirito critico
Due menzogne: competenze e meritocrazia
Christian Raimo
Quando si parla del mondo del lavoro e del mondo della scuola sembra sempre che si parli di due questioni totalmente distinte. E invece, nell’Italia con il Pil che crolla, nel mare magnum delle fugacissime questioni estive, ci sono un paio di notizie che si accoppiano per farci capire come dobbiamo immaginarci il futuro prossimo.
La prima è la disfida modello western tra Fiom e Fiat, simboleggiata al meglio dal duello in pieno sole tra Marchionne e Landini: il contenzioso nello specifico è la sentenza della Cassazione che obbligherebbe la Fiat a dare spazio ai delegati della Fiom, mobbizzati e licenziati senza nemmeno quegli ultimi scrupoli che sono gli articoli della Costituzione. Dalla parte di Marchionne stanno quelli che invocano un modello d’industria nuovo, senza i laccioli di un sindacato-reliquia. Dalla parte di Landini i difensori di diritti lesi da una globalizzazione che è tale solo nella deregulation.
La seconda è che il concorso per docenti che ha coinvolto milioni di persone in Italia sta volgendo al termine: entro l’estate ci saranno i vincitori.
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Baffi e la crisi di oggi
di Pasquale Cicalese
Kaiserstrasse, 10, Frankfurt. E’ questo l’indirizzo della Banca Centrale Europea, sede del vero governo comunitario, da cui si diramano le direttive per i 17 paesi dell’eurozona.
Mutuata dall’esperienza del dopoguerra della Bundesbank, la Bce ha come scopo statutario unicamente la stabilità dei prezzi, in altri termini la deflazione reale.
Del resto era questo lo scopo dell’asse franco-tedesco quando nel 1972, a seguito della svalutazione del dollaro e del conseguente distacco della divisa americana dall’oro, decisione presa da Nixon nella notte del 14 agosto del 1971, avviò il processo di unificazione monetaria con il Piano Werner.
Lo stesso “asse” franco-tedesco è comunque una boutade storica dacché tutte le decisioni successive al 1972 furono prese dalla Bundesbank, con i francesi illusi di imbrigliare la forza teutonica.
Non fu affatto entusiasta del Piano Werner e del successivo serpente monetario il futuro governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, il quale aveva due preoccupazioni: assorbire la disoccupazione giovanile degli anni settanta stimolando la crescita e sopire la ribellione di massa del proletariato italiano.
La deflazione monetaria insita nei piani egemonici tedeschi sarebbe stata, a detta di Baffi, deleteria per l’economia italiana per un motivo fondamentale. Da Palazzo Koch il governatore assisteva alla deflagrazione dell’apparato produttivo italiano con il progressivo smantellamento delle grandi imprese: il nano capitalismo, trionfante in quegli anni unicamente grazie alla svalutazione e all’evasione fiscale di milioni di “operatori economici”, non avrebbe resistito né alla rigidità monetaria della Bundesbank, né, tantomeno, alla solidità industriale tedesca, se non in una posizione subalterna, unicamente quale subfornitura.
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Complessità, scienza e democrazia
Paolo Bartolini intervista Giuseppe Longo
Prof. Longo, quali limiti intravede nell'utilizzo massivo delle metafore provenienti dall'informatica per spiegare il vivente e la complessità della natura umana?
Ho scritto molto su questo, in particolare in collaborazioni con biologi del cancro cui devo molto nei tentativi di esplorazione del vivente - questa tremenda malattia si può capire forse solo analizzando il rapporto triangolare tessuto-organismo-ecosistema, quindi con una buona teoria dell'organismo, in primis. Vediamo di sintetizzare una critica sviluppata altrove (mi permetterò di inserire riferimenti ad alcuni miei testi, talvolta in italiano, dove si può trovare la bibliografia, inevitabilmente molto ampia).
La nozione di informazione si è specificata in almeno due teorie scientifiche rigorose ed importanti: l'elaborazione dell'informazione, a partire da Turing, diciamo, e la trasmissione dell'informazione (Shannon). Entrambe hanno individuano fondamentali invarianti matematici, ovvero nozioni e strutture che possono esser trasformate da un contesto ad un altro, conservando quel che conta. Le caratteristiche dell'informazione, in entrambi i casi, non dipendono dalla codifica (se non per piccoli costi di trascrizione: 0 ed 1, o 0-9 od altri segni qualsiasi) e, soprattutto, non dipende dal supporto materiale: si possono elaborare segni in valvole, chips, silicio... o trasmettere segnali su cavi, tamburi, fumate... Questa grande ed antica invenzione, formalizzata da Turing nel 1936, ma poi essenziale anche a Shannon, ha permesso di distinguere il software dallo hardware e di proporre quindi una autonoma teoria della programmazione o della trasmissione indipendente dal supporto materiale (grande ricchezza della pratica informatica).
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"Gli errori di Darwin"
Intervista a Massimo Piattelli Palmarini
A un secolo e mezzo dalla pubblicazione delle sue prime opere sull’evoluzione biologica, Darwin fa ancora notizia. Anzi, infiamma gli animi e scatena polemiche. L’ultima, in ordine di tempo, è motivata dall’imminente pubblicazione di Gli errori di Darwin (Feltrinelli), annunciata per il 21 aprile, dopo altrettante polemiche suscitate negli States dall’edizione originale. Il volume, che ha richiesto tre anni di lavoro, è scritto a quattro mani da due scienziati di livello internazionale.
Uno, vanto italiano, è Massimo Piattelli Palmarini, docente di Scienze cognitive all’Università dell’Arizona, dopo una permanenza al Mit di Boston e successivamente al San Raffaele di Milano dove ha creato il dipartimento della sua disciplina. L’altro, Jerry Fodor, è anch’egli un’autorità nelle scienze cognitive, insegna filosofia del linguaggio alla Rutgers University del New Jersey. Ancor prima di uscire nel nostro Paese, il volume di Piattelli Palmarini e Fodor sta riempiendo le pagine culturali e scientifiche dei nostri giornali, con pepati botta e risposta tra scienziati che si occupano di queste tematiche.
Ho raggiunto Massimo Piattelli Palmarini a Venezia, durante una sua parentesi italiana, per un ciclo di seminari universitari. Gli ho chiesto di spiegarci le ragioni di così tanto scalpore per aver controbattuto alcune presunte idee “errate” del darwinismo.
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L'assenza della "lotta di classe" e i disastri che ne derivano
di Sandro Moiso
L'opportunità delle riflessioni che seguono mi è stata dettata in parte dall'intervento di Valerio Evangelisti sul tema del nazional-bolscevismo “de noantri” (di cui condivido pienamente i contenuti) e in parte dall'affaire Saviano – Dal Lago (che invece puzza su più fronti).
La lotta di classe di cui intendo pertanto parlare non è quella reale (che come avrò modo di affermare in altra parte di questo testo non viene mai a mancare nella storia delle società umane), ma piuttosto quella ormai del tutto assente sia nel dibattito politico contemporaneo che in gran parte della rappresentazione che la letteratura, o sarebbe forse meglio dire il mondo delle lettere, trasmette della realtà contemporanea o delle epoche passate. Con quest'ultima affermazione non si intende però affatto riproporre qui alcun ritorno al realismo naturalistico o, peggio ancora, a quello di stampo proletario o tardo-sovietico, quanto piuttosto sottolineare un rumoroso silenzio di fondo.
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A qualcuno piace freddo
Giorgio Salerno
Due consumati democristiani, Franco Marini e Pierferdinando Casini, hanno dato di Matteo Renzi, anch’egli di provenienza democristiana, un giudizio alquanto sprezzante; di valore il primo, di metodo il secondo. Marini ha definito il giovane sindaco di Firenze un ambizioso, il secondo un abile parlatore che usa molti fuochi d’artificio verbali. Ricorda un po’, il giudizio del segretario dell’UDC, quello che l’allora giornalista de l’Espresso Giampaolo Pansa affibbiò a Fausto Bertinotti, il 'parolaio rosso'. Siamo ora di fronte ad un parolaio ‘bianco’?
Cerchiamo di capire Renzi partendo da ciò che egli stesso dice, scrive, dichiara e proclama; Renzi attraverso Renzi, leggendo le sue interviste e consultando i suoi ultimi libri.
Che Renzi sia un abile parlatore è fuori di dubbio ma quali sarebbero i fuochi d’artificio che evoca Casini? Renzi usa nei suoi discorsi molte figure della poesia e della retorica quali l’assonanza, la rima, l’ossimoro, l’anagramma, il gioco di parole, il calembour, battute ad effetto, a volte ironiche, a volte irridenti.
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Tra due rive
di Karla
A ogni onda di movimento - internazionale o nazionale - riemergono i "cattivi pensatori" che sembrano incaricati da decenni di provare a deviarne il flusso verso lidi più rassicuranti per il potere. Due interventi apparsi nei giorni scorsi sulla stampa di sinistra ripropongono, opportunamente "attualizzata", questa vecchia e consolidata ricetta.
*****
Era tanto prevedibile quanto inevitabile: tutti i cani da guardia (di sinistra) della borghesia imperialista si sono sentiti in dovere di dire la loro. Lo hanno fatto Alessandro Dal Lago su Liberazione del 12 agosto, Judith Revel e Toni Negri su Uninomade il 13 agosto.
Due prese di posizione apparentemente agli antipodi ma, a uno sguardo solo un poco più attento, non poco affini. Decostruire la posizione di Dal Lago è sin troppo semplice. Da buon riformista e opportunista si guarda bene dal legare la condizione di crisi attuale al modo di produzione capitalista, che non si sogna minimamente di tirare in mezzo, preferendo accanirsi sul solo “liberismo”; come se questo involucro ideologico non fosse l’armamentario elaborato ad hoc dalle borghesie imperialiste per l’attuale fase imperialista, ma quasi il parto malefico di qualche mente rozza e plebea.
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I demolitori del 15 ottobre e il futuro del movimento
Intervista a Emiliano Brancaccio
Dalle piazze di Madrid, dove tutto è cominciato lo scorso 15 maggio, la protesta si è estesa nel resto del mondo. Sabato 15 ottobre gli “indignati” hanno sfilato per le strade di 950 città – da Honk Kong a Boston, da San Paolo a Kuala Lumpur, da Sidney a Tokyo – denunciando i drammatici effetti sociali della crisi economica scoppiata nel 2007/2008 e l'assenza di risposte all'altezza della gravità della situazione da parte della politica e dei governi. Non è un caso se le file di “indignados” sono composte sopratutto da giovani, i più colpiti dalla disoccupazione di massa legata alla brusca contrazione di produzione e reddito che si è registrata quando la crisi finanziaria si è scaricata sull'economia reale.
A Roma una grande manifestazione cui hanno preso parte oltre centomila persone è degenerata in violentissimi scontri. Il bilancio provvisorio è di 70 feriti (tre gravi), 12 arrestati, una città messa a ferro e fuoco per diverse ore e il solito, inevitabile, strascico di polemiche. Ancora una volta queste discussioni hanno oscurato le ragioni di una protesta che, come ha scritto Guido Rossi sul Sole 24 Ore, “nasce da mille, troppi disagi e merita di essere esplorata con spirito analitico”. Ne abbiamo parlato con Emiliano Brancaccio, economista dell'Università del Sannio assai critico con quelle politiche di austerità varate dai governi europei che, insieme alla Bce e al mondo della finanza, erano il bersaglio privilegiato degli slogan dei cortei di sabato. Brancaccio segue da anni le vicende dei movimenti e nel 2002 è stato relatore della proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Attac per l’istituzione della Tobin tax.
Partiamo dalla giornata di sabato. Che idea si è fatto di ciò che è accaduto a Roma?
In tutta franchezza non intendo accodarmi alla consueta discussione etico-normativa su “violenza” e “non violenza”.
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[Libia: due interventi sul Manifesto contro l'assenza di memoria]
Libia un anno fa: memoria corta
di Manlio Dinucci
Uno degli effetti delle armi di distrazione di massa è quello di cancellare la memoria di fatti anche recenti, facendone perdere le tracce. È passato così sotto silenzio il fatto che un anno fa, il 19 marzo, iniziava il bombardamento aeronavale della Libia, formalmente «per proteggere i civili». In sette mesi, l'aviazione Usa/Nato effettuava 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili. Venivano inoltre infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani facilmente camuffabili. Venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici, fino a pochi mesi prima definiti terroristi. L'intera operazione, ha chiarito l'ambasciatore Usa presso la Nato, è stata diretta dagli Stati uniti: prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. È stato così demolito lo stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi, attribuendo l'impresa a una «rivoluzione ispiratrice» - come l'ha definita il segretario alla difesa Leon Panetta - che gli Usa sono fieri di aver sostenuto, creando «una alleanza senza eguali contro la tirannia e per la libertà». Se ne vedono ora i risultati. Lo stato unitario si sta disgregando. La Cirenaica - dove si trovano i due terzi del petrolio libico - si è autoproclamata di fatto indipendente e, a capo, è stato messo Ahmed al-Zubair al Senussi. Scelta emblematica: è il pronipote di re Idris che, messo sul trono da Gran Bretagna e Stati uniti, concesse loro, negli anni '50 e '60, basi militari e giacimenti petroliferi. Privilegi cancellati quando re Idris venne deposto nel 1969. Ci penserà il pronipote a restituirli. E vuol essere indipendente anche il Fezzan, dove sono altri importanti giacimenti. Alla Tripolitania resterebbero solo quelli davanti alle coste della capitale.
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Chicken game: ancora sull’eurocrisi1
Raffaele Sciortino
A partire dalla scorsa estate la crisi globale ha investito pesantemente i debiti sovrani europei e l’Italia. Tra gli avvertimenti “performativi” dei soliti noti sul rischio (reale) di disfacimento della moneta unica e il delinearsi di una strategia di risposta di Berlino, si è iniziato a intravedere lo scontro in atto tra i centri finanziari anglosassoni e l’Europa. Ma il dito è rimasto puntato contro una generica “speculazione” e al tempo stesso, con il procedere incalzante delle politiche di austerity “consigliate” da Ue e Bce e portate avanti da “sobri” governi di tecnici, l’attitudine anti-tedesca è andata facendosi quasi senso comune.2
Si tratta di posizioni confuse e ancora fluide nello spettro politico, trasversali alle embrionali dinamiche sociali. E’ su questo sfondo, destinato a rapidi slittamenti, che si tratta di fare il punto sull’eurocrisi provando a individuare una logica specifica dietro gli eventi e quelle linee di tendenza che condizionano aspettative e umori delle classi sociali.3
Boccata d’ossigeno nell’empasse globale?
Dopo alcuni mesi di fuoco, con i cambi politici in Grecia Spagna e Italia e il declassamento finale dei debiti sovrani di mezza Europa, a inizio 2012 le prospettive per l’euro e l’Unione Europea sembrano a molti meno buie. Che i mercati permettano di tirare un po’ il fiato è dovuto in prima battuta all’operazione Draghi di fine dicembre grazie alla quale la Bce ha elargito alle traballanti banche europee quasi 500 miliardi di euro di finanziamenti a tre anni a tasso simbolico in cambio di collaterali svalutati o emessi ad hoc purchè, attenzione, garantiti dagli stati4 .
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Crolla il ponte, muore una città, cade un sistema
di Simone Lombardini
Il crollo del “Ponte Morandi” nella mia Genova non è stato un incidente fortuito. Non è stato un fulmine. Non è stata un po’ di pioggia. La caduta di quel ponte ha un’origine molto più profonda, nel tempo e nello spazio; non è stato solo un cedimento strutturale quanto più un cedimento morale. Costruito in pieno boom economico, quando l’Italia investiva in grandi opere pubbliche infrastrutturali, era diventato uno dei simboli della rinascita italiana, riscattata dal ventennio fascista e proiettata verso lo sviluppo economico; oggi il ponte del boom è diventato il ponte della morte, dell’incuria e della corruzione, ed è per questo che la sua caduta assume il valore simbolico della triste decadenza in cui versa il nostro paese. Un paese che ha rinunciato al proprio futuro avendo smesso di investire in infrastrutture, un paese senza un piano industriale ma che esporta i suoi talenti umani migliori a centinaia di migliaia ogni anno; un paese dove gli abitanti non fanno più figli, un paese che invecchia soltanto, immobilista e demoralizzato.
La catastrofe del 14 agosto non è ascrivibile a un evento fortuito ma nemmeno a responsabilità meramente individuali indirizzabili a un manipolo di malfattori, sarebbe troppo facile in questo caso: migliaia tra operai, tecnici, ingeneri, geometri e architetti monitoravano il ponte ogni istante di ogni giorno fino al minuto prima del suo crollo, eppure il ponte è caduto comunque. Il fatto è parecchio nebuloso e non aiuta di certo la secretazione da parte del tribunale del filmato ufficiale di Autostrade per l’Italia che riprende per intero la dinamica del crollo (che nessuno ha visto). Tuttavia alcune osservazioni del sistema si possono già fare. Dal 2016 poi è nota alle autorità l’audizione parlamentare dell’architetto Mauro Coletta che denunciava le condizioni di lavoro della Vigilanza sulle concessioni: i dipendenti devono anticipare le trasferte di tasca loro attendendo 4-5 mesi prima di vedere il rimborso (e infatti dal 2011 al 2015 sono passate da 1400 a 850) ma cosa ancor più grave non hanno alcuna assicurazione legale contro i contenziosi giuridici che le concessionarie aprono quando essi segnalano irregolarità.
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Perseverare è diabolico
Dialettica del postmodernismo
Maurizio Ferraris
Se guardiamo al cuore filosofico del postmoderno ci troviamo di fronte a un paradosso istitutivo. L’idea di fondo era quella di una grandissima istanza emancipativa, che affondava le sue radici in Nietzsche (che a giusto titolo Habermas, nel Discorso filosofico della modernità, ha definito la «piattaforma girevole» che traghetta la filosofia verso il postmoderno) e ovviamente nella Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. La richiesta di emancipazione, che si appoggia sulle forze della ragione, del sapere e della verità che si oppongono al mito, al miracolo e alla tradizione, giunge a un punto di radicalizzazione estrema e si ritorce contro sé stessa. Dopo avere adoperato il logos per criticare il mito, e il sapere per smascherare la fede, le forze decostruttive della ragione si rivolgono contro il logos e contro il sapere, e inizia il lungo lavoro della genealogia della morale, che svela nel sapere l’azione della volontà di potenza. Il risultato è che ogni forma di sapere deve essere guardata con sospetto, appunto in quanto espressione di una qualche forma di potere. Di qui una impasse: se il sapere è potere, l’istanza che deve produrre emancipazione, cioè il sapere, è al tempo stesso l’istanza che produce subordinazione e dominio. Ed è per questo che, con un ennesimo salto mortale (quello espresso lucidamente da Vattimo nel Soggetto e la maschera, che esce nel 1974 e che reca il sottotitolo emblematico Nietzsche e il problema della liberazione) l’emancipazione radicale si può avere solo nel non-sapere, nel ritorno al mito e alla favola, e in ultima istanza in ciò che Vattimo, molti anni dopo, definirà apertamente come un «addio alla verità». L’emancipazione girava a vuoto. Per amore della verità e della realtà, si rinuncia alla verità e alla realtà, ecco il senso della «crisi dei grandi racconti» di legittimazione del sapere con cui, nel 1979, Lyotard ha caratterizzato il postmodernismo filosofico. Il problema di questa dialettica è però, semplicemente, che lascia tutta l’iniziativa ad altre istanze, e l’emancipazione si trasforma nel suo contrario, come risulta evidente da quanto è accaduto dopo.
Questa dialettica infatti non ha semplicemente un versante storico-ideale, ma comporta delle precise attuazioni pratiche. Si incomincia appunto con le affermazioni decostruttive, tipicamente con tesi che mettono in dubbio la possibilità di un accesso al reale che non sia mediato culturalmente, e che, insieme, relativizzano il valore conoscitivo della scienza, seguendo un filo conduttore che da Nietzsche e Heidegger porta a Feyerabend e Foucault. Tolto il caso di Heidegger, dove l’elemento conservatore e tradizionalista è largamente prevalente, la decostruzione della scienza e l’affermazione del relativismo degli schemi concettuali fanno parte precisamente del bagaglio emancipativo che sta alla base dell’impulso originario del postmoderno, ma il loro risultato è diametralmente opposto. In particolare, le critiche alla scienza come apparato di potere e come libero gioco di schemi concettuali hanno dato vita a quello che potremmo chiamare un «postmodernismo conservatore».
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La BCE deve agire
intervista a Vladimiro Giacchè
Secondo la tesi prevalente nelle istituzioni europee per uscire dalla crisi del debito sovrano in Europa sono essenziali rigorose manovre di austerity. E’ vero?
No. “Il momento giusto per effettuare manovre di austerity sono i periodi di espansione, non quelli di recessione”. Queste parole di buon senso, scritte da John Maynard Keynes nel 1937, sono valide ancora oggi. Le manovre di austerity hanno adesso, come unico effetto certo, quello di deprimere la domanda e dunque di rallentare la crescita del prodotto interno lordo o addirittura di portarlo in negativo. E quindi quello di peggiorare il rapporto debito/pil. È la lezione della Grecia, che dopo misure draconiane ha visto crescere il rapporto debito/pil di oltre il 20% in un solo anno.
Il Fondo Europeo salva Stati può essere la soluzione?
No. Sono gli stessi ritardi nell’approntare questo Fondo che lo rendono ormai del tutto inservibile. Avrebbe potuto funzionare quando in crisi era soltanto la Grecia, ma ormai la sua dimensione (440 miliardi di euro) è insufficiente per coprire i vari fronti di crisi, e lo sarebbe anche una dotazione molto superiore. Oltretutto il Fondo, essendo finanziato dagli stessi Stati europei, finisce per rappresentare una gigantesca partita di giro.
Gli Eurobond possono essere la soluzione?
Gli Eurobond sono titoli di Stato emessi a livello europeo e garantiti congiuntamente dai diversi paesi che fanno parte della zona dell’euro. Quindi essi avrebbero un rating (ossia un merito di credito) superiore a quello degli Stati in difficoltà, e di conseguenza potrebbero rendere meno oneroso il servizio del debito (ossia il pagamento degli interessi) per gli Stati in crisi.
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“Dipendenza”
di Alessandro Visalli
A settembre 2020 è uscito il libro “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”[1]. Un libro che si può leggere in tre modi: racconta una storia che si sviluppa dal New Deal ad oggi, mostrando un andamento ciclico ed interconnesso di periodi di disordine sistemico, di espansione e di destabilizzazione; individua una teoria che con questa storia reagisce; presenta la sconfitta politica di un generoso tentativo.
Il primo piano si concentra sulla concatenazione di crisi che aprono sempre alla successiva, con un meccanismo (descritto nella teoria) mosso dalla tendenza del capitalismo alla concentrazione e (quindi) al sottoinvestimento. E descrive quindi le controtendenze che la tengono sotto controllo: guerra fredda, cetomedizzazione, esportazione di capitale, dipendenza interna ed esterna. Ne deriva anche una spiegazione interna della crescita della classe media nel “trentennio” e della ‘società del benessere’ non come confutazione della tesi marxiana (delle “due classi”) ma come sua estensione[2]. Ma ne deriva anche il “teorema di impossibilità” che Baran e Sweezy enunciano con la loro “legge della crescita del surplus”[3], e quindi il tentativo di investire le periferie (e non il centro) del compito della rivoluzione.
Questa è l'ipotesi politica della dipendenza che cade quando le periferie sono sussunte (o sono disperse) nell’inversione degli anni ottanta. Di qui nasce la “teoria dei sistemi mondo” che sposta l'attenzione più avanti nello spazio e nel tempo.
Per descrivere analiticamente il testo.
Un primo blocco teorico descrive le posizioni di quegli autori che convergono nella creazione dell’assiomatica di base. Almeno dei principali: sono Paul Baran negli anni cinquanta, Paul Sweezy negli anni sessanta, Gunnar Myrdal e Francois Perroux.
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Fondi pensione e welfare contrattuale: affare o trappola?
di Punto Critico
Lo chiamano ‘welfare contrattuale’ e sta diventando la strategia prediletta dalle aziende per pagare i dipendenti, in particolare alcune voci presenti in busta paga come gli aumenti contrattuali e i premi di produttività, riducendo il costo del lavoro. In che modo? Invece di versarle direttamente ai propri dipendenti quelle somme vengono erogate a fondi che forniscono previdenza, sanità e altri servizi integrativi rispetto al welfare pubblico oppure vengono ‘pagati’ ai lavoratori offrendo loro pacchetti di servizi che vanno dall’asilo dei bambini alla palestra fino addirittura ai ticket per la benzina. Le aziende ci guadagnano perché su quelle somme non pagano le tasse. Ma i lavoratori?
PuntoCritico ha raccolto dati e testimonianze per provare a capire questo nuovo scenario e le conseguenze di questa trasformazione.
* * * *
A giudicare dai dati sull’adesione ‘volontaria’ (si tenga presente questo termine) al welfare contrattuale i lavoratori non ne sembrano entusiasti. Tanto che le organizzazioni di categoria degli imprenditori e il sindacato stanno utilizzando il grimaldello della contrattazione nazionale per finanziare fondi pensione e mutue integrative prelevando i soldi alla fonte, cioè direttamente dalle buste paga. Ma non è solo una questione economica. Per il sindacato fondi pensione, mutue integrative ed enti bilaterali stanno diventando, insieme a CAF e patronati, il volano di un nuovo modello organizzativo e un’alternativa alla crisi che lo sta investendo. Un sindacato che si sposta dalla rappresentanza e dalla contrattazione verso la gestione di pezzi di sanità, di previdenza, di ammortizzatori sociali, ma non solo.
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La retorica del potere. Critica dell’universalismo europeo
Immanuel Wallerstein
Sociologo statunitense con cattedra a Yale ma appartenente alla sinistra radicale, Immanuel Wallerstein è stato tra i primi in America a recepire e poi attualizzare la lezione di Braudel (come fondatore e direttore del Ferdinand Braudel Center alla State University di New York): i suoi lavori di sociologia economica e di storia delle idee applicano il concetto di lunga-durata ai processi del capitalismo, ed introducono definitivamente nelle scienze sociali la categoria di sistema-mondo1.
Quello di Wallerstein è dunque un sano storicismo metodologico: non consiste nell’immettere e così sciogliere tutti gli eventi nel flusso del tempo, ma nel fornire una visione sistemica e di lungo periodo dei processi culturali, economici, sociali e politici, in una parola della struttura storica della civiltà occidentale (cfr. p. 108: “tutti i sistemi sono storici e tutta la storia è sistemica”); ciò gli consente di avere uno sguardo critico analogo a quello di un altro grande sociologo di sinistra, Pierre Bourdieu, uno sguardo capace di decostruire riflessivamente i valori della nostra civiltà, di cogliere l’insufficienza o meglio l’obsolescenza delle vecchie categorie della politica europea e americana2 , e di comprendere che ci troviamo in una fase di transizione, di passaggio da un sistema-mondo ad un altro, i cui tratti non sono ancora definiti ma dipenderanno sicuramente dalle nostre scelte culturali, economiche e politiche.
Tale storicizzazione radicale permette inoltre a Wallerstein di affermare che ogni universalismo, ed in particolare quello elaborato dalla moderna civiltà occidentale, nasconde un particolarismo. In Chi ha il diritto a intervenire? Valori universali contro barbarie, prima delle tre conferenze tenute alla British Columbia University nel 2004 e qui raccolte in volume con l’aggiunta di un saggio conclusivo, egli va alla radice del problema per eccellenza, generato dalla costituzione concettualmente e concretamente ‘universalistica’ del sistema-mondo moderno a partire dalle scoperte geografiche del XVI secolo: lo statuto giuridico (quindi etico, politico, ontologico, problematicamente umano) dell’‘altro’3 .
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L’idiota in politica
Gianvito Brindisi
Lynda Dematteo
L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord
trad. it. di M. Schianchi, prefazione di G. Lerner.
Feltrinelli, Milano 2011, pp. 266, euro 16,00
ISBN 978-88-07-17207-6
Quella attuale è certamente per la Lega Nord una delle crisi più gravi che si ricordino nella sua oramai ventennale storia politica: mai come negli ultimi mesi il partito di Umberto Bossi è apparso infatti dilaniato dai conflitti interni, ciò a cui ha fatto seguito l’ennesimo e disperato tentativo di recupero dei vecchi miti fondatori della secessione e del razzismo, nella speranza di cementare nuovamente l’unione padana ed epurare le frange più ostili ai padroni del partito. A fronte di ciò, la lettura del volume di Lynda Dematteo, L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord, restituisce perciò l’effetto di un ulteriore affondo nel travaglio della formazione nordista. In questo libro, di scrittura chiara e di agevole lettura, la Dematteo ricostruisce la storia simbolica della Lega attingendo alla sua esperienza di un anno e mezzo all’interno dell’ambiente leghista bergamasco e raccogliendo una vasta gamma di aneddoti che ben rendono il senso vissuto dell’ideologia padana. Un senso che sfiora talvolta il tragicomico, come nel caso del sindaco di Coccaglio che ha inventato il White Christmas per rivendicare il Natale come festa identitaria, e che pur sostenendo l’assenza di criminalità nel proprio comune, ha ritenuto tuttavia doveroso controllare a tappeto le case degli extracomunitari; o in quello della giovane militante che ha rivendicato la necessità, per lavorare nella bergamasca, di apprendere il dialetto locale – nella stessa misura in cui per lavorare all’estero è necessaria la conoscenza della lingua inglese; o infine in quello del ministro ideatore del Maiale day, che ha condotto un suino al guinzaglio nel luogo in cui doveva sorgere una moschea per ‘infettarne’ il terreno.
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La crisi perpetua come strumento di potere
intervista a Giorgio Agamben
Lo scorso marzo lei ha proposto l’idea di un “impero latino” contro il dominio tedesco in Europa. Il suo intervento è stato tradotto in diverse lingue e discusso con molta passione. Aveva previsto tutta questa eco?
Vorrei innanzitutto precisare che il modo in cui “Die Zeit” ha presentato il mio articolo su “Libération”, non ne rispecchia né lo spirito né la lettera. A cominciare dal titolo (Das lateinische Reich soll einen Gegenangriff starten) che ovviamente, come un giornalista dovrebbe sapere, non è mio, ma della redazione. E come potrei voler contrapporre la cultura latina a quella tedesca, quando ogni europeo intelligente sa che la cultura italiana del Rinascimento o quella greca classica appartengono di pieno diritto anche alla cultura tedesca, che le ha pensate e riscoperte? Questo è l’Europa, questa assoluta specificità che scavalca tuttavia ogni volta i confini nazionali e culturali. L’obiettivo delle mie critiche non era la Germania, ma il modo in cui l’Unione Europea è stata concepita, su ragioni unicamente economiche che ignorano non solo quelle spirituali e culturali, ma anche quelle politiche e giuridiche. Se vi era una critica per la Germania, ciò era solo perché la Germania, che si trova in qualche modo in una posizione di leadership, malgrado la sua straordinaria tradizione filosofica sembra incapace di pensare una Europa che non sia quella della moneta e dell’economia.
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La pandemia ed il «techno-fix»
di Giuseppe Longo*
Riassunto: La pandemia era una eventualità annunciata. Le sue cause possibili erano conosciute: nicchie ecosistemiche distrutte, diversità biologica in diminuzione, abuso delle manipolazioni genetiche. Ma ormai, prende piede il mito che un’innovazione tecnica vaccinale costituisca la sola risposta da dare alla crisi dell’ecosistema e delle strutture sanitarie, di cui questa pandemia è un sintomo
Il mondo, gli esseri umani, le nostre vite sono state sconvolte da una pandemia… attesa. Infatti, è dal 1993 che gli esperti segnalano una “epidemia di epidemie”. Un libro, ben documentato, del 20151 e numerosi articoli hanno successivamente aggiornato i dati su tale fenomeno, che può essere riassunto in questo grafico:
Cosa è successo negli ultimi cinquant'anni, dopo un secolo di riduzione estremamente significativa del numero di epidemie, in particolare – ma non solo – in Europa? Un raddoppiamento della popolazione mondiale ed un aumento di otto o nove volte delle epidemie, ben monitorate sin dalla fine del XIX secolo. Circa il 70% di queste recenti epidemie sono il risultato di “zoonosi”, cioè sono causate da microrganismi che passano dagli animali agli esseri umani.
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La crescita economica è la via d’uscita dai problemi di debito pubblico del nostro paese?
di Stefano Bartolini*
L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. La nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica e il suo risultato è di creare malessere. Il malessere genera spesa pubblica, soprattutto spesa sanitaria e per l’ordine pubblico. Di conseguenza una riorganizzazione della società che tenga conto della dimensione relazionale della vita e non soltanto di quella economica è destinata a contenere la spesa pubblica. Inoltre la causa della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale, è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. Lo stato sociale funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi. Una riorganizzazione della società dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale
L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. Nel mio libro Manifesto per la Felicità, pubblicato da Donzelli nel 2010, espongo la seguente tesi: la nostra organizzazione economica e sociale crea malessere. Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Viviamo di corsa in mezzo a individui frettolosi. E a mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro e consumo. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni e di tempo. Ecco perché siamo sempre più infelici. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità e persino la nostra democrazia – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo, che delineo più o meno dettagliatamente nel mio libro.
Quello che rileva è che il malessere genera spese sia private che pubbliche. Mi soffermo su queste ultime che sono rilevanti per la questione delle finanze pubbliche. Una gran mole di contributi in epidemiologia dimostra che la felicità influisce direttamente sulla salute e la longevità, che il pessimismo, la percezione di non controllare la propria vita, lo stress, i sentimenti di ostilità e di aggressione verso gli altri sono fattori di rischio molto rilevanti. Si è scoperto ad esempio che il rischio di malattie cardiovascolari – la prima causa di morte nei paesi ricchi – è doppio tra le persone affette da depressione o malattie mentali e una volta e mezzo per le persone generalmente infelici. Gli effetti del benessere sulla salute sono stimati come più ampi di quelli derivanti dal fumo o dall’esercizio fisico. Senza contare la spesa sanitaria direttamente connessa al malessere, come quella per la cura dei disagi mentali.
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La filosofia di Putin
di Pierluigi Fagan
La Russia è un continente culturale, per me, di difficile decifrazione. Ammetto prioritariamente la mia ignoranza sostanziale epperò, proprio questa ignoranza mi muove a cercar di colmare almeno i vuoti più gravi. E’ come sempre, una sollecitazione esterna a muovere la curiosità di comprensione.
Sono stato abbonato a Foreign Affairs, la rivista di geopolitica e relazioni internazionali che fa da riferimento a gli ambienti di Washington. Mi mandano perciò una newsletter ed ho accesso libero ad un articolo a numero. Questa settimana (oggi 26.09.15) mi ha colpito il titolo di un articolo su “Il filosofo di Putin”, Ivan Ilyn e l’ideologia di Mosca, di A. Barbashin e H.Thoburn. Poiché mi incuriosiva il fatto che Putin avesse un filosofo di riferimento e non conoscendo affatto Ivan Ilyn, ho fatto un po’ di ricerca. Il secondo scatto di curiosità che mi ha spinto poi più in là nella ricerca, ampliandola, è stato un articolo del New York Times del 03.03.14 a firma David Brooks in cui si dava notizia (riprendendo Maria Snegovaya dal Washington Post) del fatto che Putin aveva inviato in dono ai governatori regionali, una trilogia di titoli che comprendeva, oltre al “I nostri compiti” di Ilyn, la “Filosofia della diseguaglianza” di Berdjaev e la “Giustificazione del Bene” di Soloviev (o Solove’v, Solovyov). Beh, l’idea che il capo di un sistema così forte e potente avesse inviato tre libri di filosofia al secondo livello di gestione territoriale del sistema, era intrigante assai. Di primo acchito, la faccenda si configurava come l’invio di una linea ideologica il che era interessante, soprattutto per un modestissimo “pensatore in proprio” come il sottoscritto. Interessante perché qui da noi sembrerebbe strano che Obama o Cameron o più modestamente Renzi, inviassero tre libri in dono ad una struttura di secondo livello. Peggio ancora, di filosofia. Interessante anche il fatto che non si trattasse di un documento di Putin ma di tre libri, di altrettanti autori, del XIX° e XX° secolo (Solovyov nasce nel 1853 e Ilyn muore nel 1954, Berdjaev sta in mezzo) noti e pubblici, tra le colonne portanti della tradizione culturale russa, almeno i primi due (Soloviev e Berdajev). Cosa voleva dire a livello di contenuto? Qual’era l’idea che voleva trasmettere Putin? Cosa dicono questi tre autori e come sono tra loro correlabili in un unico discorso che dovrebbe rivelarci qual è l’idea che Putin ha del destino russo?
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Il rifiuto del lavoro
Teoria e pratiche nell'Autonomia Operaia
di Ottone Ovidi
Il rifiuto del lavoro è stato patrimonio dell’autonomia operaia degli anni settanta, intesa sia con la A maiuscola di organizzazione politica sia con la a minuscola di egemonia di pratiche nel movimento di quegli anni[1].
La prima considerazione da fare riguarda la mancanza di ricerca storiografica sul tema, dal punto di vista della teoria e della prassi messe in campo dagli autonomi. Finora, infatti, l’interesse della gran parte degli storici si è concentrato su altri aspetti quali la violenza e l’illegalità teorizzate e/o praticate dagli stessi[2].
L’attenzione accordata a questi temi ha messo in ombra quello che invece è stato un nodo centrale attorno a cui si è sviluppata l’autonomia e larghi strati del movimento di quegli anni fornendogli forza e, soprattutto, originalità. La teoria e la pratica, appunto, del rifiuto del lavoro.
Uno studio storico di quella stagione da questo punto di vista comporta una certa difficoltà. Le piccole e grandi realtà nascono e muoiono velocemente, vi è un continuo scambio e ricambio di militanti e mancando una direzione centrale o centralizzata le stesse regole per venire inclusi e autodefinirsi appartenenti a quest’area non sono rigide[3]. Un ulteriore problema per lo storico consiste nella difficoltà di reperire documenti d’archivio perché il tipo di organizzazione di questi gruppi ha comportato una perdita notevole di materiale.
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Marx sulla Russia
di Pier Paolo Poggio
Marx è considerato il principale studioso e teorico del proletariato di fabbrica, cosa indubbiamente vera ma molto più complessa di quanto si pensi ordinariamente. Lo studio delle comunità contadine occupa un posto rilevante nei suoi lavori, per certi aspetti è un tema che attraversa tutta la sua opera, venendo a trovare nelle riflessioni sulla Russia un esito sorprendente e sconcertante. Il procedimento che adotta è storico e teorico, la spinta a concettualizzare attraverso quadri sintetici che abbracciano intere epoche è costantemente sorvegliata da verifiche puntuali, perché – come dirà ai suoi interlocutori russi – eventi di sorprendente analogia ma che si verificano in contesti diversi producono esiti del tutto differenti. L’intera ricerca è ispirata dalla ricostruzione della genealogia del capitale, del suo sviluppo e presa sulla società. In tale percorso si registra una dislocazione, un cambiamento non privo di contraddizioni e ripensamenti, nella posizione di Marx sul capitalismo e la rivoluzione.
In una prima fase, esemplificata dal Manifesto, Marx e Engels si esprimono per il più rapido sviluppo del capitalismo inteso come passaggio necessario e precondizione della rivoluzione proletaria (un certo marxismo condivide anche oggi analogo atteggiamento).
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L’Italia è un paese razzista
di Anna Curcio
L’Italia è un paese razzista. È inutile girarci intorno. Non bastano le dichiarazioni di Napolitano sulla necessità di concedere la cittadinanza ai figli e alle figlie dei migranti nati in Italia per metterlo in discussione; né può farlo il ministero per l’integrazione che Monti si è affrettato ad istituire per addolcire, almeno a sinistra e nell’area cattolica, la pillola amara dei sacrifici e dell’austerity. Benvenuti nel deserto del reale, ieri a Firenze è andata in scena l’Italia. E Casseri, tutt’altro che pazzo depresso, è prima di tutto un italiano, nel senso che riflette pienamente l’identità razzista di questo paese. È tutta la storia del paese, la sua identità e la costruzione della sua narrazione ad essere intrisa di violenza razzista. Ed è una storia lunga che affonda le radici nella costruzione unitaria di cui stiamo festeggiando il centociquantesimo anniversario. Una storia fatta di linciaggi ed esecuzioni sommarie: prima i “meridionali” poi l’”altro” coloniale, gli ebrei, oggi i rom e i migranti internazionali. Una storia che ci parla di sopraffazione e sfruttamento, di marginalizzazione e violenza. Una violenza cieca, brutale ma ahimè assolutamente reale, che ho già visto andare in scena ormai troppe volte.
Quello che è successo a Firenze, non è un episodio isolato. Fa parte piuttosto di un sistema, una modalità reiterata di relazione con i tanti e le tante migranti che lavorano in questo paese. È la costruzione del mostro, del diverso al cuore della narrazione nazionale che evoca paure irrisolte. “Guarda, un negro; ho paura!” ha riassunto efficacemente Franz Fanon. È dunque con lo sguardo razzista che dobbiamo fare i conti, con quell’idea che la razza – che non è mai un attributo biologico ma è una categoria socialmente costruita per la marginalizzazione e subordinazione di alcuni gruppi sociali – è fatta di gerarchie: i bianchi sopra, i neri sotto, punto.
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L'uomo artigiano
Giuliano Battiston intervista Richard Sennett
Un'intervista con lo studioso statunitense, in Italia per presentare il suo libro su «L'uomo artigiano». La necessità di organizzare la vità politica in base alle virtù e al network di conoscenze e competenze maturate nello svolgere bene il proprio lavoro
Autore dalla mentalità filosofica radicata nel pragmatismo americano e dall'atteggiamento critico proprio degli etnografi - perché «un'idea deve confrontarsi con l'esperienza reale, altrimenti diventa una pura astrazione» -, Richard Sennett è il sociologo contemporaneo che ha offerto strumenti indispensabili per comprendere le conseguenze del capitalismo sulla vita quotidiana e i deficit sociali prodotti dall'erosione del «capitalismo sociale», dimostrando che il capitalismo flessibile conduce al disordine, dando vita a «forme culturali che celebrano il cambiamento personale ma non il progresso collettivo» e, allo stesso tempo, a forme di potere ancora più opache. Di fronte a questa opacità, suggerisce Sennett, non dovremmo mai stancarci di elaborare strategie per rendere leggibile e visibile la figura che incarna l'autorità pubblica, smascherando le sue illusioni attraverso l'uso dell'immaginazione. Dopo tutto, «il difficile, scomodo, e spesso amaro compito della democrazia» è proprio questo: introdurre un «disordine intenzionale dentro l'edificio del potere».
Nato a Chicago nel 1943, dopo aver abbandonato una promettente carriera di musicista Richard Sennett si è dedicato alla sociologia, formandosi nelle Università di Chicago e Harvard. Negli anni Settanta insieme a Susan Sontag ha fondato (e poi diretto) il «New York Institute for the Humanieties». Già consigliere dell'Unesco e presidente dell'«American Council on Work», si divide tra l'insegnamento alla New York University e alla London School of Economics. È autore di tre romanzi e di diversi testi. In Italia sono stati pubblicati L'uomo flessibile (Feltrinelli), Rispetto (il Mulino), La cultura del nuovo capitalismo (il Mulino), Autorità (Bruno Mondadori), Il declino dell'uomo pubblico (Bruno Mondadori). Lo abbiamo incontrato a Milano, dove ha presentato il suo ultimo libro, L'uomo artigiano (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp, 311, euro 25), di cui il manifesto ha già parlato il 27 novembre.
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