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I confini mobili della collettività
di Marco Bascetta
Un pamphlet di Ermanno Vitale per Laterza contro la retorica dei beni comuni e le pulsioni «comunitariste» premoderne. Il problema è giuridico e politico, come l'inclusione del sapere minacciato dalle recinzioni e dal controllo delle multinazionali
Il titolo è di quelli che dovrebbero farti sobbalzare sulla sedia: Contro i beni comuni (Ermanno Vitale, Laterza, pp.126, 12). Un effettaccio editoriale da manuale. Il sottotitolo subito ci rassicura «Una critica illuminista». Tiriamo un profondo sospiro di sollievo: non stiamo dalle parti di un arcigno conservatorismo gerarchico. Ci è promessa chiarezza e onestà intellettuale. Alla terza pagina della prefazione ci mettiamo definitivamente a nostro agio: «penso insomma più ai giovani vicini ai centri sociali e alle forme serie di volontariato che non a quelli che inseguono il mito dell'imprenditore di se stesso o prendono una tessera di questo o quel partito».
Insomma siamo tra amici. E anche il bersaglio di questo pamphlet, vale a dire la stucchevole retorica dei beni comuni e le pulsioni comunitariste, nostalgiche e premoderne che la attraversano merita, in buona parte, di essere condiviso. Che visioni olistiche, organicistiche e perfino mistiche innervino spesso le argomentazioni sulla centralità dei beni comuni è cosa indubbia. Come è indubbio che il libro di Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto (edito dallo stesso editore e nella stessa collana) vi indulga, (sia pure vincolato alla concisione enfatica propria della forma-manifesto), in svariati passaggi, lasciando trapelare l'idea che esista o possa esistere, nella modernità o nella postmodernità («riflessiva» alla Beck) una società incardinata sui beni comuni e la relativa dottrina.
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Il “ritorno dello Stato” come amministratore della crisi
Norbert Trenkle
1.
Gran parte della sinistra riconduce l’attuale crisi economica mondiale a cause politiche. Secondo questa sinistra, il neo-liberalismo, che ha totalmente deregolamentato il mercato e in modo particolare scatenato i mercati finanziari, ha fallito. Adesso ci aspetterebbe una nuova era di regolamentazione e controllo statale, su cui diventerebbe perciò essenziale incidere. Punti centrali sarebbero il ridimensionamento del capitale finanziario e il rafforzamento dell’economia reale, la quale da parte sua dovrebbe essere riformata in senso ecologico e sociale. La riuscita di questo progetto dipenderebbe soprattutto dai rapporti di forza e dalla mobilitazione politica.
2.
Questa analisi trascura però l’origine di fondo della crisi globale. Anche se essa è stata innescata da un crack dei mercati finanziari, le sue cause vanno cercate in tutt’altro luogo. L’enorme rigonfiamento dei mercati finanziari degli ultimi 30 anni non dipende da decisioni politiche arbitrarie o sbagliate, ma è espressione di una crisi strutturale della valorizzazione del capitale, crisi che è emersa con la fine del boom fordista del dopoguerra.
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Domenico Losurdo e la comune umanità
Tra categorie del pensiero e conflitto sociale
di Salvatore Favenza
S. G. Azzarà, La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del materialismo storico in Domenico Losurdo, La Scuola di Pitagora, Napoli 2019
La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del materialismo storico in Domenico Losurdo, di Stefano G. Azzarà, precedentemente edito dalle Editions Delga di Parigi nel 2012 ed ora pubblicato da "La Scuola di Pitagora" in edizione italiana riveduta, ampliata ed aggiornata dalle corpose integrazioni di Emiliano Alessandroni, costituisce una privilegiata chiave d’accesso all’itinerario di pensiero di Domenico Losurdo.
I tre capitoli di cui si compone il libro riguardano il confronto storico e filosofico di Losurdo con la storia del liberalismo, con la filosofia classica tedesca e con il materialismo storico.
Secondo le narrazioni oggi in Occidente più gettonate, il liberalismo, nato tra Sei e Settecento presso le più illuminate intellettualità europee, lottò e vinse contro l’assolutismo monarchico facendo acquisire centralità al valore dell'individuo e realizzando lo stato di diritto. Dopodiché, una volta conferita una più o meno solida struttura alla sua propensione democratica, si trovò ad affrontare nemici ancora più temibili. Un parto gemellare di natura totalitaria diede infatti vita a nazismo e comunismo che, affratellati dalla comune natura dispotica, hanno tentato entrambi di contendere al mondo liberale la guida del Novecento. Fortunatamente, tuttavia, il liberalismo vinse anche quest’ultima battaglia e a tutt'oggi si candida a prosperare sull'intero globo, esportando il proprio modello sociale e politico, garanzia di serenità e di pace.
Domenico Losurdo ha mostrato l’inconsistenza di una simile narrazione, opponendo a questa storia sacra (la cui credibilità è stata favorita dalla sconfitta dei tentativi di costruzione del socialismo in Europa orientale) una storia profana, finora abilmente schivata dalla luce dei riflettori.
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Ripensare i fondamenti per la sinistra: ‘libertà’
di Alessandro Visalli
Gianpasquale Santomassimo, recentemente, ha scritto nel tempio della sinistra-sinistra mainstream, Il Manifesto, che dopo questa sconfitta epocale “senza ripensare tutto sarà impossibile ripartire”. Come scrive Fabrizio Marchi su l’Interferenza, ha proprio ragione.
Ma ripensare tutto, che significa?
Bisognerebbe intanto capire meglio che cosa designiamo con ‘sinistra’, perché in essa convergono tradizioni e culture non sempre compatibili, ed in particolare bisognerebbe riguardare alla storica opposizione tra ‘liberalismo’ e ‘socialismo’ ed alle loro reciproche ragioni; da questo angolo ripensare alla differenza tra ‘cosmopolitismo’ e alle ragioni, non tutte innocue, per le quali alcuni socialismi e pressocché tutte le sinistre oggi lo sposano (anche se a volte sotto l’etichetta di ‘internazionalismo’, che a guardare l’etimo ha la potenzialità di avere diverso significato). Su questo sentiero si incontra da una faccia diversa lo stesso europeismo, progetto storicamente essenzialmente liberale, e spesso della versione di destra di questo. E si incontra anche l’universalismo: specificamente quella versione intrecciata all’utilitarismo che sta alla radice, non vista, della presunzione di beneficio globale da attribuire alla libertà di movimento, dunque alle immigrazioni/emigrazioni senza limiti.
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Trump-l’oeil
Organizzarsi contro il «mostro» nel privato inquieto d’America
La vecchia classe operaia è morta, ma in qualche momento della sua agonia deve aver eletto il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Impossibile concludere altrimenti dopo aver assistito alla sequela di commenti che indicano nella white working class la principale responsabile della resistibile ascesa di Donald Trump. Ancora più del suo orientamento elettorale, è questo eterno ritorno della classe operaia che lascia sbigottiti. Non era stata spazzata via da automazione e terziario cognitivo e condannata all’impotenza sociale? E invece eccola qui: viva, vegeta, votante e decisiva nel rovesciare quello che era stato il successo di Obama negli Stati della Rust Belt per consegnarli a Trump.
Conviene allora guardarla in faccia questa classe operaia maschia e bianca. Sono davvero questi i fascisti, i razzisti e i maschilisti in cui Trump si specchia compiaciuto? Sono almeno sessant’anni che gli intellettuali liberal americani ci mettono in guardia sulle tendenze autoritarie congenite alla classe operaia. Un modo come un altro per risolvere il loro problema teorico e insieme politico: gli operai, dicevano, erano diventati membri della classe media, ma alcuni di loro presentavano il fastidioso inconveniente di non comportarsi come tali. Quando non si davano alla lotta di classe, preferivano inseguire le manie «paranoidi», bigotte e razziste della destra «pseudoconservatrice» di McCarthy prima e Goldwater poi, la sua logica dell’«identità» bianca e cristiana contro quella dell’«interesse», virtù della ragione che per non meglio precisati motivi farebbe votare democratico.
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La crisi globale e la Pizia cinese
Cronaca di un’estate torrida
Angela Pascucci
Alla fine è arrivato Capitan America sfoderando un tasso di crescita dell’economia Usa che nessuno si aspettava e il rinvio dell’aumento dei tassi di interesse, e i foschi cinesi sono rientrati nei ranghi facendo quello che tutti si aspettavano dovessero fare, pompare soldi nel loro sistema spompato. Le Borse mondiali hanno rimbalzato di sollievo agguantando i rialzi, la “tempesta perfetta” si è dissolta. Fino al prossimo round che, a leggere bene le cronache economiche rosa del giorno dopo, è acquattato dietro l’angolo.
Ragion per cui l’immagine più vera di questa torrida estate di crisi finanziaria resta una sola. Quella di un mondo che, entrato nella seconda fase della grande crisi economica deflagrata nel 2008, non ha ancora capito a che santo votarsi per arginarla. Il disorientamento globale è tale infatti da far apparire surreale, anche alla luce del poi, il raccomandarsi spasmodico alla Cina che nella circostanza è apparsa anch’essa come una Pizia traballante sul suo trespolo fumoso, dal quale nei momenti più critici ha lanciato rimedi, senza apparentemente rendersi conto di dove sarebbero andati a parare.
Breve riassunto. Alle prime avvisaglie di squasso in Borsa, il governo di Pechino prima interviene massicciamente per bloccare il crollo, poi lascia andare rendendosi conto che frenare il panico di 90 milioni di piccoli azionisti incoraggiati dal governo stesso a entrare nel recinto dei razziatori di professione è come andare contro la forza di gravità, e soprattutto in quel momento non servirà a ridare fiato all’economia in panne.
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La connessione meridionale. Podemos, Syriza e i movimenti
Intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar
Pubblichiamo una lunga intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar, entrambi militanti di Podemos, ma anche ricercatori sociali. Il nostro intento era quello di guardare alla Grecia a partire dalla Spagna, cercando di mettere a tema similitudini e differenze tra i due modi di affrontare il nodo del rapporto tra movimenti e istituzioni. Questo rapporto d’altra parte non è riducibile alla scelta di partecipare o non partecipare alle elezioni. Solo lo sconcertante dibattito italiano può ridurre il problema all’accettazione o – specularmente ‒ al rifiuto di stabilire una qualche alleanza con un ceto politico residuale o con qualche piccolo partito più o meno esistente. La tensione tra movimenti e istituzioni è in realtà un campo politico in cui si tratterebbe di mettere alla prova realisticamente la propria capacità di ottenere risultati, dimostrando l’efficacia del moto dei movimenti invece di fissarli in traiettorie definite e determinate una volta per tutte, lungo le quali ci si muove con la sicurezza di chi affronta percorsi conosciuti e cerca di evitare ogni novità.
L’intervista è stata fatta prima dell’ultimo round delle trattative tra il governo greco e le istituzioni europee, quindi non tiene ancora conto del tentativo di governare l’aporia che esse hanno evidenziato.
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Adele sfida i potenti
"Ipocriti, questo è il nostro funerale"
«Caro ministro Clini, caro magnifico rettore: oggi state celebrando un funerale, non l’inaugurazione della nostra università». Scena surreale, a Parma, alla cerimonia di apertura dell’anno accademico: a scuotere l’aula è una ragazza, Adele Marri, portavoce del collettivo studentesco “Anomalia Parma”. Una requisitoria memorabile. La ragazza parla per cinque, interminabili minuti: parole durissime, scolpite nell’aria. Una denuncia drammatica, che ha la fermezza composta e terribile di un testamento. E’ la vigilia di una morte annunciata: fine della scuola, della libertà, della democrazia. Fine dello Stato di diritto. E fine del futuro, per decreto dell’infame Europa del rigore. Lo scenario: crimini contro l’umanità di domani, quella dei giovani. Sentenza senza appello. E senza neppure la dignità di un commento: ammantati di ermellini, gli emeriti membri del senato accademico restano ammutoliti, dietro al clamoroso imbarazzo del “magnifico rettore”.
«Prima, il rettore ha detto che l’università è un luogo libero», esordisce Adele, che protesta: lezioni sospese per permettere a tutti di partecipare alla cerimonia inaugurale, «e invece quello che abbiamo trovato è stata un’università blindata da cordoni di polizia e carabinieri con scudi e manganelli».
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Crisi in Darfur: il sangue, la fame e il petrolio
Parla Mohamed Hassan
Intervista di Gregory Lalieu e Michel Collon
Il primo genocidio del 21° secolo si sta svolgendo nel Darfur? Questa regione del Sudan è teatro di un conflitto che sensibilizza l'opinione pubblica internazionale. Da qui ci raggiungono le stesse immagini di miseria tipiche di ogni conflitto consumato sul suolo africano: gli uomini laceri, i bambini piangono e il sangue scorre. L'Africa è tuttavia il continente più ricco del mondo. In questo nuovo capitolo del viaggio che abbiamo intrapreso per "comprendere il mondo musulmano", Mohamed Hassan ci rivela le origini del paradosso africano e ci ricorda che il Sudan oltre a ospitare diverse etnie e religioni, abbonda sopratutto di petrolio.
Quali sono le origini della crisi in Darfur? L'attore americano George Clooney in qualità di testimonial per "Save Darfur" ha denunciato l'assassinio degli africani per mano delle milizie arabe. Per contro il filosofo Bernard-Henry Levy, che ugualmente cerca di mobilitare l'opinione pubblica internazionale, sostiene che si tratta di un conflitto tra l'islam radicale e l'islam moderato. La crisi nel Darfur è etnica o religiosa?
La vasta regione africana ricca di risorse poteva essere unita e sviluppata…
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Note introduttive per il convegno
Associazione "Politica e classe"
Il capitale percepisce ogni limite come ostacolo e lo supera idealmente se non l’ha superato nella realtà:
dato che ognuno di questi limiti è in opposizione alla dismisura inerente al capitale, la sua produzione si muove attraverso
contraddizioni costantemente superate, ma altrettanto costantemente ricreate.
Karl Marx “Grundrisse”
Una premessa
Come appare ormai a tutti evidente la questione ambientale, complessivamente intesa dai problemi del clima fino al vivere quotidiano delle popolazioni, ha assunto da alcuni decenni un carattere strategico rispetto alle possibilità di sviluppo dell’umanità, mentre i sempre più accentuati ed accelerati processi di valorizzazione del capitale amplificano una situazione che sfugge di mano alle classi dirigenti che dovrebbero guidare l’attuale sistema sociale e le relazioni economiche e produttive internazionali.
E’, infatti, palese che la contraddizione che si manifesta tra crescita economica ed ambiente naturale riveste un ruolo centrale, ma un’ analisi strutturale di questa dinamica non può avere esclusivamente una lettura che si astrae da un sistema di relazioni sociali determinato storicamente e concretamente agente cercando la motivazione dell’attuale situazione in cause antropologiche per cui una generica natura umana tende ad essere “nemica” dell’ambiente ed ad esso estranea. Il rischio che corrono queste interpretazioni è quello di dare una visione parziale e, pensando di contrastare il degrado ambientale, di occultare le cause sociali del problema assolvendo dalle responsabilità chi invece ne è la causa.
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Seconda questione di geopolitica: il “cuore della terra” al fronte sud
di Uber Serra
Nella prima puntata di questa inchiesta sullo stato attuale della narrazione geopolitica autentica (quella di H. Mackinder, per intenderci) s’è detto che per essa c’è un luogo privilegiato del pianeta il cui governo consentirebbe il dominio del mondo: è questo il “cuore della terra” (o Heartland) che coincide con la Russia nella estensione delle steppe dal Dniepr alla Kamciakta. Però la Russia è stretta dal Mar Glaciale Artico a nord e dalla fascia dei deserti asiatici a sud, sicché per esercitare il pieno controllo sul pianeta dovrebbe spingere la propria supremazia su una di quelle “terre di confine” (poi dette Rimlands dal geopolitico americano Nicholas Spykman) che la circondano ad ovest (Europa e Balcani), a sud (Medio Oriente e Persia) e a est (Cina e Corea) e che si affacciano, per l’appunto, sui mari caldi. Proprio per evitare tanta jattura Mackinder aveva affidato, al suo tempo, alle due isole dirimpettaie al continente euroasiatico, la Gran Bretagna e il Giappone, il compito strategico di “salvare” il mondo dalle mire planetarie di Mosca, un compito però che dopo la seconda guerra mondiale, avendo tradito il Giappone il suo “dovere” geopolitico ed essendosi esaurita la Gran Bretagna a sua difesa, è stato assunto su tutti i fronti dai più robusti e onnipresenti Stati Uniti d’America. Ed è questo il “destino” americano che perdura tuttora sebbene l’URSS sia scomparsa, e questo perché la Russia è cattiva non perché zarista, sovietica o quant’altro, ma perché geopoliticamente resta comunque il “cuore della terra”.
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La deriva della politica costituzionale
di Ida Dominijanni
C’è un tratto poco sottolineato della retorica renziana che consiste nel ricondurre a necessità storica, quando non a dato naturale, ciò che è invece oggetto di scelte politiche soggettive e contingenti. È un tratto importante, perché sintomatico di una contraddizione, e probabilmente di una debolezza, dell’ideologia dell’attuale classe di governo: l’appello ripetuto alla necessità urta infatti visibilmente con le pretese decisioniste del presidente del consiglio e del suo inner circle. Ed è in compenso del tutto organico – a onta della missione “rivoluzionaria” che il renzismo si attribuisce - alla razionalità neoliberale e alla naturalizzazione dell’esistente che essa sottintende e persegue.
In questo intervento vorrei cercare di mostrare come questo circolo vizioso fatto di appello alla necessità, naturalizzazione dell’esistente e retorica rivoluzionaria abbia agito e stia agendo nella propaganda della riforma costituzionale.
A un certo punto dell’iter parlamentare della legge che porta il suo nome, la ministra Boschi l’ha glorificata come la riforma che gli Italiani “aspettavano da 70 anni”: ovvero, a essere precisi, da tre anni prima che la Carta del 1948 venisse promulgata. Giova tornare sull’episodio, perché raramente una sola frase riesce a condensare una tale capacità performativa di falsificazione del passato e di manipolazione del presente e, nei programmi della ministra, del futuro.
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Contro Houellebecq
La sottomissione di Sisifo
di Lorenzo Mecozzi
Prima di iniziare la lettura dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Soumission (Sottomissione, nella traduzione italiana Bompiani, uscita nelle librerie il 15 gennaio), e viste le polemiche suscitate dal romanzo a seguito degli eventi degli ultimi giorni, avevo iniziato a far mente locale sul rapporto tra romanzo e morale, tra i diritti del racconto e i doveri del romanziere, ma soprattutto sulle responsabilità del giudizio critico.
Per la vicinanza tematica e di visione del presente che lega Houellebecq a Walter Siti (due “apocalittici-integrati” della letteratura contemporanea secondo la bella definizione di Carlo Mazza Galanti), per prima cosa mi era tornata in mente la lunga ed appassionata discussione nata su Le parole e le cose, a seguito di un articolo nel quale Gianluigi Simonetti rispondeva al saggio che Andrea Cortellessa aveva voluto dedicare a Resistere non serve a niente di Siti. Così avevo iniziato a riflettere su quel “purtroppo”, pronunciato da Cortellessa, che aveva dato il via alla discussione (“E Resistere non serve a niente – purtroppo – è il libro più bello dell’anno”) e sui tre argomenti con i quali Simonetti ne aveva negato la legittimità (l’«argomento-Bataille», l’«argomento De Sanctis», l’«argomento Engels» – anche se le definizioni sono sempre di Cortellessa), preparandomi a dover affrontare problematiche simili nel recensire Houellebecq. Le prime pagine del romanzo, tuttavia, disinnescavano ogni preoccupazione, almeno nel senso che le roboanti critiche al libro lasciavano immaginare, consegnandomi alla lettura di un’opera allo stesso tempo tipicamente houellebechiana e in qualche modo diversa da tutti gli altri romanzi di Houellebecq.
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Le meravigliose bolle di sapone Carry Trade
di Nouriel Roubini *
Da marzo i prezzi delle attività rischiose di ogni genere (azioni, petrolio, energia, materie prime) hanno ripreso a correre, gli spread creditizi tra titoli ad alto rendimento e di alta qualità hanno cominciato a ridursi, e le attività dei paesi emergenti (azioni, obbligazioni, valute) sono risalite ancora di più. Contemporaneamente, il dollaro si è fortemente indebolito, mentre i rendimenti dei titoli di stato sono leggermente saliti, ma sono rimasti bassi e stabili.
Questa ripresa degli asset rischiosi è trainata in parte dal miglioramento dei fondamentali dell'economia. Abbiamo evitato una quasi depressione e il tracollo del sistema finanziario grazie a un imponente piano di stimoli monetari e di bilancio e agli interventi di salvataggio delle banche in difficoltà. Sia che la ripresa segua una curva a V, come ritiene la maggior parte dei commentatori, o un'anemica curva a U, come ritengo io, i prezzi delle attività dovrebbero gradualmente crescere.
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Record italiani
Rossana Rossanda
Il fine e la fine della transizione italiana dalla prima alla seconda Repubblica consisteva dunque nel cancellare dalla scena istituzionale qualsiasi sinistra proveniente dal movimento operaio. In verità siamo approdati non a una «seconda» Repubblica, ma a un tipo di repubblica finora inesistente nell'Europa postbellica. Anche con il comunismo reale all'angolo di casa la Germania ne ha mantenuto più che un residuo nella socialdemocrazia perché se a Bad Godesberg la Spd aveva dismesso ogni idea di trasformazione anticapitalista, il conflitto sociale restava legittimato, il lavoro dipendente andava organizzato e rappresentato. Se Andrea Ipsilanti si propone, anche con difficoltà, di allearsi con la Linke, significa che il problema è del tutto aperto. Anche il Labour, finita la seduzione di Tony Blair, è in fibrillazione.
Soltanto in Italia no. Bisognava liquidare ogni rappresentanza politica del conflitto sociale, consegnandolo alle manifestazioni di piazza o a sussulti di protesta che, come tutti sanno, sono affare di polizia (un tempo dei «carabinieri a cavallo»). A questa operazione è servita una legge elettorale di cui tutti si vergognavano finché Veltroni ha capito che poteva servire all'uopo e ha deciso di «correre da solo» a costo di non vincere, tosto imitato da Silvio Berlusconi.
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Eurodisastro
di Carlo Clericetti
Quello che è accaduto con il rifiuto del presidente Sergio Mattarella di accettare la designazione di Paolo Savona come ministro dell’economia, e la conseguente rinuncia di Giuseppe Conte a formare il governo, apre una crisi dagli sviluppi imprevedibili, che forse il presidente della Repubblica non ha valutato appieno e da cui non può venire nulla di buono per il paese e per i suoi cittadini.
Una premessa, che serve ad attirarmi le critiche sia da una parte che dall’altra, cosa in cui posso vantare una certa abilità. Consideravo il governo gialloverde una jattura, visti i suoi propositi. Un “governo del cambiamento” che avrebbe esordito con un condono fiscale (oltretutto, entrata una tantum per finanziare una riduzione di entrate permanente) offriva già un biglietto da visita particolarmente contraddittorio e indigesto. Ma poi, una riforma fiscale che avrebbe avvantaggiato i più benestanti e ancor di più i più ricchi; una riforma della Fornero su misura per gli elettori leghisti del nord, visto che al sud “quota 100” la raggiunge al massimo un piccolo numero di dipendenti pubblici; le posizioni sui migranti; una impostazione di politica economica di sapore liberista nonostante alcune misure in controtendenza. Questo e altro lo rendevano molto lontano da chi abbia un orientamento di sinistra.
E però, dopo le elezioni 5S e Lega avevano trovato un accordo per formare un governo e disponevano della maggioranza parlamentare per appoggiarlo. In democrazia questo basta, a meno di esplicita volontà di tale maggioranza di voler mettere in questione la Costituzione, nel qual caso il capo dello Stato, che ne è il garante, avrebbe il diritto-dovere di rifiutare l’incarico. Ma non è questo il caso, e infatti nel suo discorso Mattarella non ha detto nulla del genere.
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Il reddito di base oltre l'algoritmo digitale
di Benedetto Vecchi
Un’automobile senza autista. Droni che consegnano pacchi acquistati in Rete. Software che scrivono articoli per giornali o che compilano rapporti in base a una mole di dati elaborati in tempo reale. Sono solo alcuni esempi di una nuova ondata di automazione di alcuni lavori o attività prerogativa fino a una manciata di anni fa degli umani. Per raggiungere l’obiettivo di una nuova generazione di macchine che svolga attività cognitive le imprese e i governi, in particolare quelli di Stati Uniti, Cina, Regno Unito e Germania, investono centinaia di milioni di euro all’anno. Google, ad esempio, ha destinato alla produzione di automobili senza autista qualcosa come trenta milioni di euro nel 2014 solo per il software, arrivando a mettere su strada un prototipo che consente di percorrere alcune delle high way più trafficate della California senza nessun incidente. Il futuro del pianeta vede quindi il lavoro come una “risorsa scarsa” prerogativa di un numero limitato di persone molto qualificate, mentre la maggioranza della popolazione sopravvive con lavoretti, salari al di sotto della soglia di povertà e economia di sussistenza.
Un pianeta dove la distopia dello scrittore di fantascienza Herbert George Wells, narrata ne La macchina del tempo, continua a disturbare il sonno di chi vede nella “società digitale” una nuova Gerusalemme.
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La distruzione del tempio di Baal a Palmira. Lettura geopolitica
di Piotr
Geopolitica e arte nella crisi sistemica. Usano la narrazione del fondamentalismo islamico per distruggere le basi mitopoietiche della civiltà umana
Quando visitai il tempio di Baal a Palmira rimasi affascinato e commosso.
Era l'anno prima dell'inizio della cosiddetta (dai nostri media e intellettuali) "rivolta anti Assad", ovvero l'attacco imperiale con mercenari tagliagole alla Siria.
E tagliagole lo sono. L'ultima gola tagliata è stata quella di Khaled al-Asaad, ottuagenario direttore dei siti archeologici di Palmira.
Dopo la sua decapitazione l'ISIS ha distrutto il tempio di Baal. Me lo aspettavo da tempo. Lo hanno fatto ieri.
Chi non lo ha già visto non lo vedrà mai più.
L'impero in difficoltà, e pertanto pericolosissimo, non vuole davanti a sé nazioni, civiltà, società strutturate e potenzialmente solidali (e qui i devoti dellareligionelaicista, quella del genitore 1 e genitore 2, devono riflettere molto). Sono di ostacolo, anche quando non sono direttamente "competitor". Perché coi competitor possono allearsi o anche solo rimanere neutrali e quindi ostacolare le manovre imperiali di aggiramento, avvolgimento, conquista e minaccia.
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Gli esiti mutevoli della deflazione
di Maurizio Sgroi
La spinta alla crescita
Per quanto tendiamo a non farci caso, siamo figli della nostra storia. Ed è stupefacente notare come eventi da noi lontanissimi, ormai dimenticati, si riverberino sui comportamenti presenti e, peggio ancora, sulle nostre convinzioni, conducendo sovente a scelte errate che alimentano ulteriormente i nostri pregiudizi.
Siamo figli della storia, pure se ci piace rappresentare il nostro pensiero razionale come un tutt’uno avulso dalle sue declinazioni pratiche. E anche in questo scorgo l’eco di un abito mentale remotissimo che ognuno di noi cova nell’intimo pure senza conoscere il mito della caverna di Platone.
In questo pantheon affollato di usi e luoghi comuni, che qui si limita al discorso economico, trova un posto d’onore il concetto di deflazione che le cronache hanno fatto risorgere all’attualità dopo averlo confinato per decenni sui libri di storia, e segnatamente negli anni ’30, quando la deflazione apparve nel suo volto più mostruoso, che ancora oggi giustifica il suo inserimento di diritto nella categorie delle cose cattive che possono accadere a un’economia.
Ma, come sempre accade, il diavolo non è mai così’ brutto come lo si dipinge. E la storia, pittore esclusivo delle nostre convizioni, la si può raccontare in tanti modi, come ci ricorda un recente articolo (“The costs of deflations: a historical perspective“) pubblicato nell’ultima quaterly review della Bis.
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Note a margine del dibattito tra Blanchard e Brancaccio
Con lo sguardo rivolto al contesto italiano
di Roberto Torrini*
Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio
Abstract: Vengono analizzati gli elementi di contatto e di distinzione tra i punti di vista di Blanchard e Brancaccio, cercando di trarre considerazioni più generali sulle differenze tra approcci mainstream e alcuni approcci eterodossi. Si sostiene che negli approcci mainstream viene mantenuta una distinzione concettuale tra domanda e offerta in cui, con maggior nettezza rispetto agli approcci eterodossi, si individuano problemi economici che non possono essere affrontati con la gestione della domanda aggregata, anche qualora se ne ritenga utile o necessaria una gestione attiva. Condividendo questo approccio, si discute brevemente della situazione economica italiana, in cui le debolezze di offerta di lungo periodo si intrecciano con i problemi di domanda, e in cui il livello del debito pone seri vincoli alla possibilità di far ricorso alla spesa per sostenere la domanda interna. Si sottolinea infine l’utilità del dibattito accademico, anche tra scuole di pensiero diverse, che si è aperto dopo la crisi.
* * * *
La crisi finanziaria del 2008-2009 è stata un evento drammatico, con ripercussioni profonde e dolorose per milioni di persone, nonostante alcuni insegnamenti tratti dalla crisi del 1929 abbiano permesso di evitare il peggio in gran parte delle economie avanzate coinvolte. In Europa la crisi ha avuto sviluppi del tutto peculiari con il divampare della crisi dei debiti sovrani, che ha messo in luce l’inadeguatezza dei suoi assetti istituzionali, soprattutto per quanto riguarda il funzionamento dell’unione monetaria. La risposta lenta dell’Unione Europea, segnata dalla contrapposizione degli interessi nazionali di breve periodo, ha prolungato ed esacerbato gli effetti della crisi finanziaria, soprattutto per le economie più deboli, incrinando le relazioni tra paesi e popoli europei.
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La guerra dei Minibot: gli scenari della crisi italiana
di Enrico Grazzini
La battaglia politica sui minibot è sempre più accesa: il Parlamento Italiano ha votato all'unanimità a favore dell'emissione dei titoli fiscali proposti da Claudio Borghi della Lega con il supporto dei 5 Stelle, ma poi PD e Forza Italia si sono schierati contro i minibot. Anche Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, Vincenzo Boccia, a capo di Confindustria, e il ministro del Tesoro Giuseppe Tria hanno espresso chiaramente la loro contrarietà verso la proposta votata dal Parlamento italiano. Per contro i due vice-presidenti del Consiglio dei Ministri, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno attaccato il “loro” ministro contrario ai minibot. E' scoppiata quindi una vera e propria guerra politica sui titoli di stato con valore fiscale che dovrebbero essere emessi per pagare gli arretrati della pubblica amministrazione alle imprese e ai privati cittadini. La posta in gioco è alta: in futuro l'emissione dei minibot potrebbe perfino mettere in discussione la partecipazione dell'Italia nell'eurozona e quindi provocare anche la rottura dell'euro[1].
Le polemiche riguardano le caratteristiche e gli obiettivi dei minibot: questi titoli fiscali che circolerebbero in Italia anche come contante, sono legali o illegali? Rappresentano o no una moneta parallela? Violano il monopolio della Banca Centrale Europea sull'euro, l'unica moneta legale dell'eurozona? I minibot sono realmente efficaci per ridare liquidità alle imprese? Sono utili per rilanciare l'economia reale? O servono invece solo come espediente per uscire dall'Euro? Aumentano o no il debito pubblico? Esistono sistemi alternativi di titoli fiscali più efficaci nel rilanciare l'economia nazionale, che non aumentino il debito pubblico e garantiscano di essere pienamente rispettose delle regole dell'eurozona?
Queste le domande che attraversano il mondo politico, quello dell'economia e l'opinione pubblica, a cui questo articolo intende dare delle risposte.
Un'avvertenza preliminare: la polemica sui minibot non è di poco conto, è seria ed è, magari anche con diverse forme e contenuti, destinata a durare e a crescere. La questione monetaria non può mai essere trattata in maniera derisoria e superficiale, come hanno fatto molti commentatori paragonando i minibot alle monete false del gioco del Monopoli.
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"Stampare meno, Trasferire di più"
di Mark Blyth and Eric Lonergan
Dalla rivista online Foreign Affairs, un interessante studio sul "Quantitative Easing per il Popolo", di cui si è già parlato, in cui la politica monetaria si mette al servizio della politica di bilancio, per rilanciare con forza l'economia reale. (senza dimenticare che nell'eurozona il mantenimento della moneta unica impedisce di combattere davvero l'austerità)
Perchè le banche centrali dovrebbero dare i soldi direttamente ai cittadini
Nei decenni seguenti la II guerra mondiale, l’economia giapponese crebbe così rapidamente e per così tanto tempo che gli esperti dissero che il fenomeno era a dir poco miracoloso. Durante l’ultimo grande boom del paese, tra il 1986 e il 1991, la sua economia crebbe di quasi 1000 miliardi di dollari. Ma poi, in un modo che oggi suona molto familiare, scoppiò la bolla degli asset giapponesi, e i suoi mercati sprofondarono. Il debito pubblico esplose, e la crescita annua rallentò a meno dell’1%. Nel 1998, l'economia si stava contraendo.
Nel dicembre di quell’anno, un professore di economia di Princeton di nome Ben Bernanke sosteneva che i banchieri centrali avrebbero ancora potuto risollevare il paese. Il Giappone essenzialmente stava soffrendo per mancanza di domanda: i tassi di interesse erano già bassi, ma i consumatori non acquistavano, le imprese non chiedevano prestiti e gli investitori non facevano scommesse. Era una profezia auto-avverante: il pessimismo sullo stato dell'economia stava impedendo la ripresa. Bernanke sosteneva che la banca del Giappone doveva agire in modo più aggressivo e le suggeriva di considerare un approccio non convenzionale: dare contanti direttamente alle famiglie giapponesi. I consumatori avrebbero potuto spendere le inattese entrate trainando il paese fuori dalla recessione, facendo aumentare la domanda e i prezzi.
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Un passo avanti, molti indietro
Cremaschi, Militant e la questione del partito
Emilio Quadrelli - Giulia Bausano
"Non bastano la buona volontà e le dichiarazioni di intenti ma è necessario che una soggettività politica prenda in mano tale movimento e lo guidi nei non facili compiti che si è dato. La manifestazione del 27 ottobre, quindi, come un passaggio verso la costituzione di un soggetto politico all’altezza dei tempi".
La manifestazione del 27 ottobre è stato un momento importante e significativo. In maniera organizzata, possiamo dire per la prima volta, abbiamo visto scendere in piazza un insieme di realtà politiche e sociali orientate a dar vita, in maniera non effimera e occasionale, a un reale percorso di lotta contro il Governo Monti e tutto ciò che questo rappresenta e incarna. Ma perché ciò sia possibile, ovviamente, non bastano la buona volontà e le dichiarazioni di intenti ma è necessario che una soggettività politica prenda in mano tale movimento e lo guidi nei non facili compiti che si è dato. La manifestazione del 27 ottobre, quindi, come un passaggio verso la costituzione di un soggetto politico all’altezza dei tempi. Per forza di cose, la “questione del partito”, è ciò che ha fatto da sfondo, ponendosi subito dopo come aspetto centrale del dibattito, alla scesa in campo delle varie realtà politiche e sociali che hanno condiviso in quella giornata la medesima piazza. Tutti, pertanto, a partire da lì hanno iniziato a ragionare sugli sbocchi immediati della mobilitazione ovvero: quali passaggi occorrano per compiere un necessario balzo in avanti. Qua i giochi si complicano poiché, il 27 ottobre, non sembra essere stato in grado di sciogliere i nodi strategici dei quali, per forza di cose, il movimento comunista è obbligato a venire a capo. Di ciò è necessario, non semplicemente prenderne atto, ma iniziare, con pazienza a provare a scioglierli.
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Il fiasco di Copenhagen
Leonardo Mazzei
L’impossibile patto tra ambiente e capitalismo
Per non decidere nulla, decidendo in realtà che il disastro ambientale può tranquillamente proseguire, si sono riuniti a Copenaghen in 15.000 (quindicimila). Per raggiungere la capitale danese in aereo (alcuni, come Obama e Sarkozy, con i rispettivi jet presidenziali) e per spostarsi con le loro auto di lusso (secondo il Telegraph erano presenti 1.200 «limousine»), hanno prodotto l’emissione di 40.500 tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente delle emissioni annue di 660mila etiopi.
Non è uno scherzo, sono dati ufficiali dell’ONU, forse resi noti per dare ancora un qualche senso alla propria attività sul fronte climatico dopo il fallimento consumatosi nella città della Sirenetta.
Un fallimento annunciato, ma che ha superato al ribasso la più pessimistica delle previsioni.
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Monete complementari: una critica
di Leonardo Mazzei
Commentando un mio articolo sui CCF (Certificati di Credito Fiscale), un nostro lettore — Dianade — così scriveva il 6 gennaio scorso:
«Lo so che c'é tanta informazione in rete su minibot e CCF, però che io sappia non c'é nessuno studio che faccia dei raffronti e spieghi le differenze tra l'uno e l'altro e tutte le implicazioni.
E non solo tra questi due, c'é anche la proposta di Mazzei dei BTP famiglia, c'é quella di Conditi, di Zibordi, la moneta parallela, etc. Io non mi ci raccapezzo. Credo che anche molti altri».
Senza nessuna pretesa di completezza, tantomeno dal punto di vista tecnico, proverò a dare una risposta a questa giusta domanda di Dianade.
Prima di entrare nel merito voglio però ricordare due cose. In primo luogo, la mia critica ai sostenitori dei CCF nasce dalla loro recente, ma rivelatrice proposta di mandare Mario Draghi a Palazzo Chigi, incoronandolo come Re Salvatore del Paese. In secondo luogo, chi scrive non è affatto contrario all'idea di una moneta complementare, ma non pensa proprio che la si possa realizzare senza infrangere le regole europee e senza scontrarsi con l'oligarchia eurista al gran completo. Rimando dunque a quanto ho scritto nell'articolo della settimana scorsa:
«Senza dubbio — non entrando qui nel merito delle sue possibili forme — essa (la moneta complementare) potrebbe rivelarsi utile e per certi aspetti addirittura necessaria. Ma utile e necessaria solo nel quadro di un percorso che ci porti alla vera sovranità monetaria, cioè all'uscita dall'euro».
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Mario Tronti, “Il popolo perduto”
di Alessandro Visalli
Libro del 2019 di Mario Tronti, che certo non ha bisogno di alcuna presentazione. Uscito poco prima delle elezioni europee il testo, che ha la forma di una intervista, muove da una domanda decisiva: “quali sono le cause che hanno portato la sinistra in tutte le sue articolazioni partitiche, da quelle cosiddette moderate a quelle cosiddette radicali, al suo attuale punto di crisi, fino a perdere il suo popolo e quindi a perdere identità, riconoscibilità e forza”? Da intellettuale della vecchia scuola l’autore parte dalla situazione internazionale, vi iscrive quella dell’Italia e poi scende sul terreno del Partito, delle agende, delle scelte. C’è una dimensione propagandistica, di servizio al suo Partito, nel testo, e c’è una dimensione diagnostica, meno contingente. Entrambe sono interessanti, la prima per ascoltare quel che nel ceto politico e sociale nel quale l’autore si è abituato a vivere è considerato un buon argomento, determinante e decisivo. La seconda per confrontarsi con una più ampia visione del mondo di un grande intellettuale della sinistra, storico ed inaggirabile.
Capiterà di essere più facilmente in accordo con la seconda dimensione, francamente la prima è sorprendente, persino a questo livello allignano imbarazzanti miraggi, nella cui vaporosa sostanza, tuttavia si intravede chiaramente il profilo del solito, metallico, desiderio di potenza europeo-occidentale.
Tutto il discorso del nostro muove da una densa rete di concetti, che proveremo a scoprire un poco alla volta, e dal presupposto, dichiarato in apertura che tutto promana dal movimento (anzi, con vezzo gramsciano dalla ‘guerra di movimento’) nel mondo ‘grande e terribile’. Distinguendo tra ciò che trasforma (che si oppone al dominante mondo di vita), ciò che innova e ciò che conserva, dal movimento del mondo viene l’innovazione. E viene quindi, Tronti ne è certo al punto da non spendere una nota, una battuta, il macro-spostamento dell’asse globale dall’Atlantico al Pacifico. Viene, in altre parole, il “ritorno” alla centralità asiatica[1].
Ma la tentazione di leggere tutto secondo una interna coerenza, e di scivolare nella filosofia della storia è profondamente incardinata nell’ex marxista che quindi si dice “proprio convinto” di una “regolarità di movimento” della storia umana che si nutre di nuovo e ritorno del passato (riecheggiando le sue nuove letture del pensiero “grande conservatore”, Nietszche in particolare).
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L'affermazione della sovranità nazionale popolare di fronte all'offensiva del capitale
R. Morgantini intervista Samir Amin
Le analisi che riguardano la crisi che scuote - in modo strutturale – il sistema capitalista attuale, risultano essere di una pietosa sterilità. Menzogne mediatiche, politiche economiche anti-popolari, ondate di privatizzazioni, guerre economiche e "umanitarie", flussi migratori. Il cocktail è esplosivo, la disinformazione è totale. Le classi dominanti si fregano le mani di fronte a una situazione che permette loro di conservare e affermare la loro superiorità. Proviamo a comprendere qualcosa. Perché la crisi? Quale è la sua natura? Quali sono attualmente e quali dovrebbero essere le risposte dei popoli, delle organizzazioni e dei movimenti interessati a un mondo di pace e di giustizia sociale? Intervista con Samir Amin, economista egiziano e studioso delle relazioni di dominio (neo)coloniale, presidente del Forum mondiale delle alternative.
* * * *
Da molti decenni i tuoi scritti e le tue analisi ci consegnano elementi di analisi per decifrare il sistema capitalista, le relazioni della sovranità nord-sud e le risposte dei movimenti di resistenza dei paesi del Sud. Oggi, siamo entrati in una nuova fase della crisi sistemica capitalista. Quale è la natura di questa nuova crisi?
La crisi attuale non è una crisi finanziaria del capitalismo ma una crisi di sistema.
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Le ultime battaglie
Il maggio parigino del 1968
di Robert Kurz
Il maggio '68 in retrospettiva
Chi non si ricorda del maggio parigino? Anche chi non c'era perché era nato troppo tardi, se lo ricorda sulla base dei documenti storici, e ancora oggi il maggio del 68 vaga nella letteratura come un'anima in pena. Il maggio parigino del 68, non il maggio di Berlino o di Francoforte che sono stati un simulacro del maggio. La Francia, di fatto, venne scossa fin nelle sue fondamenta borghesi, e de Gaulle si gettò fra le braccia del generale Massu, che non vedeva l'ora di mandare a Parigi i carri armati dell'esercito francese che si trovavano di stanza in Renania. La rivolta degli studenti, innescata da un piccolo gruppo di marxisti di sinistra, i cosiddetti "situazionisti" dell'Università di Nanterre, fu una vera e propria scintilla in grado di appiccare il fuoco alla steppa: le lotte all'Università innescarono, com'è noto, una colossale ondata di scioperi e innumerevoli occupazioni delle fabbriche da parte dei lavoratori. A differenza del relativamente pallido movimento del 68 in Germania, il maggio parigino sembrava porre all'ordine del giorno la questione dell'emancipazione sociale, e la base del sindacato era pronta allo scontro sociale. Dal 3 di maggio al 30 di giugno del 1968, il potere del sistema dominante apparve paralizzato.
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L'Europa delle banche, Saccomanni e le Supply Side Policies UE
di Quarantotto
Dunque riassumiamo. Imposta in Europa, di sicuro in Italia, la dottrina delle banche centrali indipendenti, un "gruppo di banchieri" si chiude in una stanza e tira fuori Maastricht.
Cioè (a tacere del resto, che conta però molto meno se conservi la sovranità monetaria e quindi quella fiscale), un'area valutaria (non)ottimale in cui il potere di mettere moneta, per gli Stati aderenti, apparteniene ad una banca centrale indipendente, non correlata ad alcun governo fiscale dell'area stessa. E quindi una moneta unica affidata esclusivamente alle determinazioni di tale banca indipendente circa i tassi e le operazioni sulla liquidità: il tutto, con certezza, nell'ambito di una politica monetaria "credibile" nel senso predicato dai Lucas e dai Sargent, che cioè fosse esclusivamente (nel tempo ciò ha superato per default ogni altro dato normativo dei trattati), volta a garantire la stabilità dei prezzi, cioè a combattere l'inflazione. Convinti che ciò portasse al costante riequilibrio dei mercati in base alla legge della domanda e dell'offerta, garantendo il livello "naturale" di piena occupazione.
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Le catene del debito che uccidono i Comuni
Guido Viale
Oggi, se non si mette al centro di ogni ragionamento, discorso o iniziativa l'ampiezza, la profondità e la gravità della crisi che stiamo attraversando in Italia, in Europa e nel mondo, si rischia di essere assimilati alla «casta», al mondo della politica così come ormai viene percepita dalla grande maggioranza della popolazione: un mondo che si occupa solo di se stesso e non delle sofferenze dei governati. E' un rischio che comincia a erodere il consenso del movimento 5 stelle, che peraltro sembra culturalmente poco attrezzato per affrontare il tema in modo radicale.
Occupazione, redditi da lavoro diretti o differiti (pensioni e ammortizzatori sociali), welfare state, scuola, università ma anche buona parte dell'apparato produttivo e delle strutture amministrative del paese hanno raggiunto un punto di non ritorno. Ma nessuno arriva ad ammettere che ormai non c'è ripresa che possa far tornare le cose «come erano prima». L'esempio più calzante di questa irreversibilità lo si vede in ciò: in Italia la disoccupazione giovanile è al 40 per cento, in Grecia e in Spagna al 50; ma è eccezionalmente elevata quasi ovunque, senza contare la diffusione del precariato. È un segno evidente che l'assetto che il sistema economico ha assunto e consolidato nell'ultimo trentennio non è più in grado di offrire una prospettiva alle nuove generazioni. Questi giovani tra qualche anno saranno degli adulti, e in parte già lo sono; ma non per questo troveranno di meglio. È un'intera prospettiva di vita - casa, famiglia, figli; ma anche occasioni per far valere e riconoscere le proprie capacità - che si dissolve; e già ora essi sanno che li attendono una vita e una vecchiaia di miseria senza lavoro, senza pensione e senza reddito.
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