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Missione compiuta
di Giancarlo Scarpari
Che il Pd abbia cambiato natura e che negli ultimi anni sia diventato il partito di Renzi non è il solo Diamanti a ripeterlo da tempo (e molti altri con lui); passo dopo passo, incoraggiata da una crescente pressione mediatica, la mutazione si è alla fine realizzata e il risultato è ormai sotto gli occhi di tutti.
Di questo esito si è molto parlato e si parla, poca attenzione è stata invece dedicata ai fatti e alle ragioni che l’hanno determinato.
Sì, certo: l’unificazione tra Ds e Margherita era stata una «fusione fredda», tanto che i due apparati di partito erano rimasti in realtà separati (e la Margherita si era sciolta solo nel 2012, dopo che Lusi si era “appropriato” della cassa del gruppo). Ma nel 2007 la musica era diversa e il racconto celebrava invece il tentativo virtuoso di far convivere la tradizione socialdemocratica dei Ds (sufficientemente omogenei attorno ai loro dirigenti) e il solidarismo di varie componenti cattoliche (abbastanza variegate tra loro e pure affiancate da alcune frange laiche).
Le elezioni politiche del 2006 (17,5% per i Ds e 10,7% per la Margherita) avevano indicato i rispettivi rapporti di forza; le primarie del nuovo Pd avevano poi consacrato Veltroni col 75% e relegato Rosy Bindi al 12,93% ed Enrico Letta all’11,2%, evidenziando la natura di partito organizzato dei Ds e quella di movimento e di cordate sparse propria della Margherita.
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Pensioni, la manina che ha premiato i ricchi
Maurizio Benetti
Sul Corriere della Sera una denuncia di cui E&L aveva dato conto già nel 2012: Uno degli effetti della legge Fornero ha attribuito vantaggi ad alcune categorie (tra le quali magistrati e docenti universitari) con un costo di 2,5 miliardi in 10 anni. In origine nella legge si specificava che quei vantaggi non sarebbero scattati, ma in Parlamento qualcuno ha cassato proprio quelle righe
Lo scorso 11 novembre Gian Antonio Stella sul Corriere della sera ha pubblicato un articolo su di un comma “sparito” nella legge Fornero di riforma del sistema pensionistico (L. 214/2011), legge, ricorda Stella, che si riprometteva secondo la Fornero di “togliere ai ricchi per dare ai poveri”. Nel suo articolo Stella sostiene che l’eliminazione di quattro righe dalla formulazione definitiva della legge Fornero ha prodotto un regalo per le pensioni più ricche, in particolare di magistrati, professori universitari, altri burocrati pubblici, che costa alle casse dell’Inps-Inpdap circa 2,5 mld nell’arco di un decennio.
Questo specifico tema era stato rilevato e denunciato da E&L nel marzo del 2012 (Se 51 anni vi sembran pochi) sottolineando che “In definitiva le uniche categorie che possono sentirsi soddisfatte dalla riforma sono professori universitari e magistrati” in contrasto con quelli che Fornero indicava come “i principi ispiratori del provvedimento, l’abbattimento delle posizioni di privilegio e la presenza di clausole derogative soltanto per le fasce più deboli e le categorie dei bisognosi”.
La denuncia di E&L rimase inascoltata anche se portata a conoscenza di sindacati e giornali e temiamo che resterà inascoltata anche la denuncia-rivelazione di Stella, anche se è stato annunciato un emendamento in proposito. Vediamo cause ed effetti macro e micro del problema.
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Sfuggire al capitalismo neo-liberale
Antonio Lucci
Con una piccola esagerazione (tale solo a causa dei giganti che ci accingiamo a portare come pietre di paragone) si potrebbe sostenere che uno dei più interessanti eredi del pensiero critico francese, dopo la morte di Deleuze, Debord e Baudrillard, sia un italiano, Maurizio Lazzarato.
Dopo La fabbrica dell’uomo indebitato (DeriveApprodi, 2013), Lazzarato continua la sua indagine sui modelli filosofici e antropologici sottesi alla nostra attuale condizione di “uomini indebitati”. Il lavoro precedente del filosofo e sociologo post-operaista da anni emigrato in Francia, era incentrato – a partire da Nietzsche e Deleuze – sulla ricostruzione di un modello antropologico che potrebbe essere definito come quello dell’ “uomo indebitato”: di quel particolare tipo di soggettività che gli apparati mediatici e di potere promulgano a viva voce quotidianamente a partire dallo scoppio della bolla economica degli immobili negli USA.
Rispetto a quel testo i saggi che formano Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista /DeriveApprodi, 2013) rappresentano sicuramente un passo in avanti, per lo meno dal punto di vista filosofico.
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E' sempre Goldman Sachs. L'Impero sta vincendo?
di Simone Santini
Doveva essere la crisi finale del capitalismo ma i colossi di Wall Street, dopo alcuni scossoni, tornano a fare la voce grossa. I dati del secondo trimestre del 2009 dicono che la banca (ex) d'affari Goldman Sachs, una delle regine del mercato che ha superato indenne l'anno terribile, incamera ora profitti record e promette bonus milionari a dipendenti e dirigenti: forse la crisi finanziaria non è ancora finita, ma per alcuni banchieri pare proprio di sì.
Sembrano lontani i tempi in cui i risparmiatori britannici facevano le file agli sportelli della Northern Rock, del tracollo di Bear Stearns, del crack di Lehman Brothers, dell'acquisizione di una boccheggiante Merrill Lynch da parte di Bank of America. E come dimenticare le decisioni di Morgan Stanley e proprio Goldman Sachs di cambiare statuto e trasformarsi da banche d'affari in banche commerciali (cosa avvenuta lo scorso autunno), sottostando così alla regolamentazione della Fed (la Banca Centrale americana) ma potendo anche accedere ai ricchi fondi statali, dunque pubblici, destinati agli enti finanziari in crisi.
A giudicare dai risultati fu una mossa brillante. Grazie a quella boccata d'ossigeno (tra l'altro più che sostanziosa, 10 miliardi di dollari) Goldman Sachs poteva continuare, dietro la foglia di fico di essere anche una banca commerciale, tutte quelle operazioni finanziarie che sole possono dare rendimenti stratosferici. I numeri parlano chiaro. Le attività di trading (ovvero la speculazione su indici azionari, materie prime, cambi valutari e quant'altro) hanno rappresentato per questo 2009 la gran parte (70-80%) degli utili della compagnia (più 33% rispetto lo scorso anno), mentre il nuovo settore, l'attività strettamente bancaria, per questo secondo trimestre ha segnato una perdita del 15% rispetto al precedente.
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L'altro Marx
Perché il Manifesto Comunista è obsoleto
di Norbert Trenkle (Krisis)
1 -
È almeno a partire dalla crisi finanziaria del 2008 che Karl Marx viene di nuovo riconosciuto, abbastanza giustamente, come altamente attuale. I suoi nuovi e vecchi amici, ad ogni modo, si sono concentrati su quella parte della sua teoria che è ormai da lungo tempo superata: la teoria della lotta di classe tra la borghesia ed il proletariato. Diversamente, l'«altro Marx», quello che ha criticato il capitalismo in quanto società basata sulla produzione generale di merci, sul lavoro astratto, e sull'accumulazione del valore, ha ricevuto ben poche attenzioni serie. Ma invece è proprio questa parte della teoria di Marx che ci permette di analizzare adeguatamente la situazione attuale di quello che è il sistema capitalistico globale ed il suo processo di crisi. La teoria della lotta di classe, al contrario, non contribuisce in alcun modo alla nostra comprensione di quello che sta attualmente accadendo, né è in grado di riuscire a formulare una nuova prospetta di emancipazione sociale. Per tale ragione, bisogna dire che oggi il Manifesto del Partito Comunista è obsoleto, e conserva solo un valore storico.
2 -
Ad una prima occhiata, tutto ciò può sembrare sorprendente. A leggere, estrapolandoli, alcuni passaggi del Manifesto suonano come se fossero delle diagnosi altamente attuali del nostro tempo. Ad esempio, quando Marx ed Engels scrivono che la borghesia, nella sua incessante urgenza di espandersi, ha «dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi» e «ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale» (Marx/Engels 1848), questo si legge come una diagnosi in anticipo di quella che sarà la cosiddetta globalizzazione.
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Noi, Negri e dintorni
di Giulio Toffoli
Un movimento del ’68-’69, studentesco ed operaio, antiautoritario, innovativo, sano; strumentalizzato prima da presunte avanguardie e poi rovinato dalla «scelta di scendere sul terreno dello scontro violento» istillata da “cattivi maestri” (in particolare dal pifferaio magico in passamontagna Tony Negri)? Questa seconda e lunghissima lettera del Tonto – ma la memoria, anche su questo evento controversa e non condivisa, forse lo richiede – polemizza direttamente con un mio scritto (qui) e si collega alla riflessione a tre sul ’68 appena iniziata con Rabissi e Romanò (qui). [E. A.]
“Carissimo
mi fai sapere quasi allarmato – scrive il Tonto in un’altra delle sue lettere – che la mia ipotesi che sia praticabile una terza via fra quelle che si presentano oggi di fronte a noi, e che è certo una scelta di ripiego, ma contemporaneamente fa i conti con la «realtà effettuale», ha incontrato innumerevoli critiche.
Non preoccuparti non si tratta che di una reazione naturale in una situazione davvero caotica, come poche fra quelle che abbiamo vissuto, se ci pensi bene tutte abbastanza convulse.
Pensa che mentre ti scrivevo quelle righe avevo aperto un dialogo molto interessante con i frati che mi ospitano e anche qui, a dispetto del silenzio e della ritualità che governa i momenti della vita quotidiana, è esploso un inedito conflitto fra quelli che sono preoccupati di veder intaccato uno status quo a cui sono adusi ed altri che invece credono sia necessario, almeno per quel che riguarda le cose di questo mondo, una qualche forma di rinnovamento … Qualche giorno fa due fratelli stavano per lanciarsi in una singolar tenzone usando le candele come fioretti, quasi fossero diventati tutto d’un colpo rampolli di Dumas.
Tu mi dici che, di fronte alla mia affermazione: che un nuovo governo, non costituito dalle forze che hanno governato in questi ultimi tre decenni, «è pur qualche cosa», sono stato accusato di far mia una linea sostanzialmente socialdemocratica e di aver abbandonato nei fatti ogni ipotesi di una radicale alternativa, insomma un progetto rivoluzionario, ormai rinviato sine die.
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La chimera della crescita
di Paolo Pini
Negli ultimi anni la politica di svalutazione caricata sul lavoro non ha fatto altro che aggravare gli effetti negativi dell'austerità sulla domanda interna. Eppure l'Ue, anche nelle ultime Raccomandazioni, continua a prescrivere continuità nelle politiche di flessibilità del mercato del lavoro, contrattuali e retributive
Ieri la Commissione europea ha presentato le sue “Raccomandazione 2014-2015” per i singoli paesi dell’Unione. Il responso elettorale ha ammorbidito il timing delle stesse ma non la loro sostanza. La rotta non muta: vincoli di bilancio da rispettare, consolidamento fiscale da proseguire, riforme strutturali da realizzare. D’altra parte non vi erano aspettative per un cambiamento, semmai per una “non indisponibilità” a fornire qualche forma di flessibilità a seguito della richiesta del nostro ministro dell’Economia e Finanze a seguito dell’approvazione del Def 2014. Nel caso italiano, la Commissione ha attestato che non siamo allineati nel percorso di rientro dal debito e quindi nel raggiungimento degli obiettivi di medio termine di pareggio del bilancio strutturale. Si richiede che entro settembre 2014 si realizzi questo allineamento con interventi aggiuntivi, oltre che rispetto degli impegni assunti sul terreno di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, riforme sul mercato del lavoro, ed altro ancora, rinnovando le precedenti raccomandazioni e chiedendo un più attento monitoraggio e verifica degli interventi realizzati e programmati. Come dire “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. La via dell’austerità espansiva non deve essere abbandonata!
Ricordiamo che solo due settimane orsono sono stati resi pubblici i dati congiunturali di crescita del reddito nei paesi europei per i primi tre mesi del 2014 e di crescita tendenziale ad un anno, rispetto allo stesso periodo del 2013.
La rappresentazione era sconfortante, ma allo stesso tempo non sorprendente.
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Ustica, la strage impunita
di Fabrizio Casari
La sentenza della Corte d’Appello sull’abbattimento sul cielo di Ustica del DC-9 dell’Itavia è uno dei pochi atti di giustizia che la vicenda in sè possa esibire. Si condanna lo Stato italiano a risarcire le famiglie delle vittime, perché la negligenza e l’incapacità di monitorare e difendere adeguatamente lo spazio aereo, l’incolumità dei cittadini viene giustamente considerata mancanza grave di cui dover rispondere.
Ma la sentenza non si limita solo a definire le responsabilità dei vertici militari, perché assume in toto la tesi sostenuta a suo tempo dal giudice Priore e dai familiari delle vittime che hanno sempre sostenuto come il DC9 fu colpito da un missile. E riconoscere che sia stato un missile lanciato da un aereo militare ad abbattere il DC9 e non una bomba a bordo, come per decenni hanno tentato di spacciare per depistare e disinformare i vertici militari e politici, significa ammettere che vi fu un atto di guerra nei cieli italiani. Non fu infatti lanciato per errore il missile che abbatté l’aereo uccidendo 81 persone, tra cui 11 bambini, tra passeggeri ed equipaggio.
Quella maledetta sera del 27 Giugno del 1980, l’aereo che copriva la rotta Bologna-Palermo, partì con due ore di ritardo rispetto all’orario schedulato. Venne seguito nella parte finale del suo volo dai radar di Ciampino e Licola fino a quando scomparve, intorno alle 20,00, mentre era in discesa per atterrare all’aeroporto palermitano di Punta Raisi.
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Il sonno della ragione che genera mostri
Militant
Ieri è apparso un articolo sul Corriere della sera che supera di molto la follia collettiva quotidiana alla quale dobbiamo sottostare. Per la verità, sono diversi giorni che su Corriere e Repubblica appaiono “strani” articoli, tutti orientati in senso radicalmente neoliberista come non se ne vedevano da anni. Passati di moda agli inizi della crisi, i pensatori neoliberisti sono rispuntati fuori come funghi dalle fogne (miliardarie) dalle quali provenivano. Per la verità, in effetti, non se ne erano mai andati; qualche giornale e qualche trasmissione “liberale” però li aveva messi momentaneamente in minoranza, dato che tutte le ricette da questi proposte avevano portato direttamente alla crisi culturale, economica, finanziaria ed etica che sta attraversando l’occidente. L’inconsistenza però delle alternative (diciamo più evidentemente l’assenza), la fragilità e la mancanza di creatività e di efficacia dei movimenti globali nel proporre un nuovo e diverso sistema di sviluppo, hanno però fatto tornare alla ribalta concetti e idee che credevamo veramente tramontati, quantomeno nella loro versione più intransigente e immediata (nel senso di *non mediata* da discorsi fumosi e apparentemente progressisti).
Ma veniamo a noi e al nostro articolo. Antonio Polito, già ex-comunista (maoista!) e fondatore del giornale “Il Riformista”, ex-margherita, e dunque appartenente di diritto all’area politica del centrosinistra, ha oggi sintetizzato al meglio le idee sue, del giornale per il quale lavora, e dell’area politica che egregiamente rappresenta, con un pezzo intitolato: “Perché proteggiamo (troppo) i nostri figli”.
Bisognerebbe leggerlo tutto, ma riporteremo qui i pezzi significativi (praticamente tutto l’articolo), cercando di non vomitare nel frattempo.
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Crisi, libero scambio e protezionismo
A. Lo Fiego intervista Emiliano Brancaccio
Mentre il governo minimizza e ci racconta che il peggio è passato, ci avviciniamo ad un autunno di licenziamenti, chiusure di siti produttivi, crollo del reddito operaio, aumento vertiginoso della disoccupazione. Quale scenario economico e sociale si sta delineando?
Nel prossimo futuro potremo anche registrare qualche euforico sussulto dei prezzi di borsa, e magari anche della produzione. Ma al di là degli scossoni temporanei, c’è motivo di ritenere che la crescita futura della produzione e del reddito sarà in generale più lenta e più fiacca che in passato. Il tracollo della finanza americana rappresenta infatti un dato strutturale, di portata storica, e quindi difficilmente gli Stati Uniti potranno nuovamente proporsi come locomotiva globale, come “spugna assorbente” delle eccedenze produttive degli altri paesi. Il problema è che al momento non sembra sussistere nel mondo un credibile
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Introduzione a "In cammino, verso una nuova epoca"
di Gianni Petrosillo
1. Questo saggio di Gianfranco La Grassa si divide in due scritti che possono essere letti uno indipendentemente dall’altro. Tuttavia, gli elaborati in questione non sono slegati tra loro, anzi, costituiscono un solo corpo che sta insieme logicamente, in quanto la parte teorica iniziale è la chiave analitica per comprendere quella storica successiva.
La teoria, nella speculazione lagrassiana, costituisce il faro che illumina gli eventi, penetrando nella profondità degli stessi, oltre le apparenze e le ricostruzioni comunemente accettate. Dunque, benché egli non sia uno storico di professione, riesce ugualmente a fornire un’interpretazione originale degli avvenimenti sociali del secolo scorso (e di quelli più recenti), con un taglio di visuale particolare, ignoto ai professionisti della storiografia, ormai meri banalizzatori del passato, ad uso dei gruppi dominanti del tempo presente.
L’opera lagrassiana percorre la strada di un doppio revisionismo, teorico e storico, contrario alle vulgate in auge (i “revisionismi” ufficiali presentati come sola versione autorizzata degli accadimenti), che gli costa, ovviamente, isolamento intellettuale ed esclusione dai canali editoriali più potenti. In primo luogo, è bene precisare, come il Nostro afferma nel libro, che «la teoria è il massimo livello della pratica giacché serve in definitiva a guidare l’agire degli esseri umani», nelle loro iniziative intellettuali e sociali. Ma la teoria serve anche a setacciare nella Storia quelle concatenazioni evenemenziali, quei rapporti conflittuali tra soggetti “assoggettati” alle dinamiche oggettive, innervanti la società, che svelano meglio l’indirizzo di un’epoca e i suoi risvolti, visibili e meno visibili.
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Ancora sul ceto politico
di Marino Badiale
Continuo il discorso sul ceto politico, iniziato in un paio di post di qualche tempo fa (questo e questo) che avevano suscitato un po' di dibattito fra i nostri lettori. Poiché alcuni passaggi di quei post erano forse un po' stringati, provo adesso ad argomentare le mie tesi in modo più disteso, cercando di inserirle nelle riflessioni che vado facendo da tempo.
Tempo addietro, in una serie di lavori scritti assieme a Massimo Bontempelli, (per esempio questo e questo) avevamo introdotto la nozione di “capitalismo assoluto”, con la quale cercavamo di esprimere quello che ci sembrava uno degli aspetti più significativi dell'attuale organizzazione sociale ed economica, il fatto cioè che negli ultimi decenni la logica capitalistica del profitto si è estesa all'intero ambito sociale. Riporto un passaggio tratto da “La Sinistra rivelata”, che sintetizza questi concetti:
“Si tratta della completa pervasività sociale del capitalismo storico (…) ogni aspetto della società umana, compresi i corpi biologici degli individui e i caratteri della loro personalità, viene sussunto sotto il capitale come materia della produzione capitalistica (…). Chiamiamo capitalismo assoluto il capitalismo storico che è penetrato in ogni poro e in ogni profondità della vita umana associata. Esso è assoluto perché la sua logica di funzionamento regge completamente ogni ambito della vita, senza più lasciare alcuna autonomia di scopi e di regole ad altre istituzioni. L'azienda, cioè l'istituzione che promuove la produzione e la circolazione della merci in funzione del profitto, diventa allora non più soltanto la cellula del sistema economico, ma l'alfa e l'omega della società, perché la società è diventata una società di mercato, in cui ogni bene pubblico è stato convertito in bene privato, e ogni bene privato in merce. Di conseguenza ogni istituzione viene concepita come azienda, persino l'ospedale, persino la scuola, e persino l'intero paese, che non è più nazione, ma azienda, l' “azienda-Italia”.
(M.Badiale-M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari editore, pagg.171-172)”
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Perché lo “spread” si cura con ricerca e innovazione
Daniela Palma
Intervenire su una crisi economica quale è quella che sta attraversando l’Europa in generale, e l’Italia in particolare, richiede un’analisi delle sue cause ben più complessa di quella che normalmente viene diffusa dai grandi mezzi d’informazione. Il termine di riferimento di tale crisi è – come ben noto – rappresentato dai valori dello “spread”, o in altre parole del differenziale (positivo) tra tassi di interesse sui titoli dei paesi “a rischio” e tassi dei titoli tedeschi - come “premio” per gli investitori per l’incertezza che grava sulla solidità delle economie più deboli - la cui crescente entità aumenta l’onere dei cosiddetti “debiti sovrani”. Comprendere quali siano le ragioni che inducono gli investitori a valutare la debolezza di una economia, diventa allora essenziale per poter poi concepire azioni efficaci per la riduzione dello “spread”, che consentano quindi di liberare risorse per riavviare il processo di crescita.
Le cronache correnti sono molto nette nell’indicare le cause dell’aumento dello “spread”. Esso stesso deriverebbe dall’onere dei “debiti sovrani”, i quali, sovraccaricati a loro volta dalla spesa per il pagamento di maggiori interessi, lo metterebbero ulteriormente sotto pressione, mantenendolo elevato o facendolo ancora aumentare, dando vita infine ad una sorta di circolo vizioso “debito-spread-debito”.
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Vizi metodologici e ideologie neoliberiste
Gennaro Zezza*
Il recente articolo di Roberto Perotti (Il Sole 24 Ore, 18 luglio) a commento dell’intervento di Canale e Realfonzo (Il Sole 24 Ore, 15 luglio) accentua una visione caricaturale del dibattito tra gli economisti, creando forse qualche confusione [1]. Perotti inizia affermando – giustamente – che identificare il “neo-liberismo” con una metodologia di analisi basata sull’ipotesi che gli individui siano razionali, e i mercati efficienti è una caricatura della realtà, in quanto gli sviluppi moderni della teoria economica sono dedicati allo studio delle situazioni in cui i mercati non funzionano ed è quindi necessario un intervento correttivo. Adottare la metodologia “dominante” non vuol dire essere neo-liberista, tanto che tale metodologia è usata dalla “scuola di Chicago” quanto dai neo-Keynesiani. Che questa sia la metodologia dominante lo ha argomentato autorevolmente Olivier Blanchard, in un articolo del 2008 sullo “stato della macroeconomia” che, sosteneva, “is good”. Ma a conclusione del suo articolo, in modo a mio avviso caricaturale, Perotti divide il mondo degli economisti tra i “neo-liberisti”, che verificano con i dati le loro ipotesi, e i loro critici, che, guidati solo dall’ideologia, volutamente ignorano il funzionamento del capitalismo moderno perché ritengono che vada soppresso.
A me sembra invece che, prescindendo – ma non troppo! – dalle ideologie, vi sia un problema con la metodologia dominante, e un problema del “neo-liberismo”. Che lo stato della macroeconomia non sia buono lo ha rilevato già Paul Krugman (New York Times Magazine, 2.9.2009) a commento dell’articolo di Blanchard.
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Quale Moneta fiscale? Un confronto tra alcune proposte
di Enrico Grazzini
Dopo aver pubblicato l’articolo sulla moneta fiscale di Bossone, Cattaneo, Costa e Sylos Labini, anche Enrico Grazzini interviene sull’argomento e commenta alcune delle diverse proposte sul campo
In questo articolo mi propongo di chiarire perché l’architettura della moneta unica europea è strutturalmente squilibrata e genera crisi. E perché la moneta fiscale, nella versione pubblicata da Micromega e promossa dal compianto Luciano Gallino, possa rappresentare la soluzione ai problemi dell’euro. Mentre altre versioni di moneta fiscale possono invece essere impraticabili.
Le cause genetiche e strutturali della fragilità dell’euro sono queste:
1. La moneta europea è diventata la leva principale per imporre l’egemonia tedesca sulle economie periferiche, ovvero lo strumento per imporre una forma di colonialismo commerciale, monetario e finanziario. E’ noto che l’euro è stato creato a Maastricht con criteri dettati dalle classi dirigenti tedesche, cioè a immagine e somiglianza del marco, una delle monete più forti e stabili al mondo insieme al franco svizzero e allo yen giapponese. L’euro, in quanto moneta creata per essere forte e stabile, come il marco, non solo contrasta l’inflazione ma è intrinsecamente deflattivo e comprime lo sviluppo della maggior parte dei paesi dell’eurozona. Tuttavia per l’industria tedesca, molto competitiva, l’euro è una moneta debole, svalutata rispetto al vecchio marco, e favorisce perciò il surplus commerciale con l’estero. Grazie all’euro, la Germania può praticare senza eccessivi vincoli la sua politica mercantilistica: e con i suoi surplus esporta disoccupazione e deflazione.
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Žižek, Badiou e la Rivoluzione Culturale Cinese
di Sebastiano Isaia
Lettera ad Alain Badiou su Mao e sulla Rivoluzione Culturale; per una serie di circostanze non ho trovato il tempo, il modo e la voglia di pubblicarla. Me ne ero quasi dimenticato quando ieri mi sono imbattuto nella Risposta ad Alain Badiou scritta da Slavoj Žižek. Così oggi mi decido a postare la mia Lettera al filosofo francese, senza mutarne una virgola. Il lettore non si lasci ingannare dal titolo: si tratta di un format retorico strumentale all’esigenza di esporre nel modo più diretto e sintetico possibile la mia posizione su alcuni importanti eventi storici, la cui spinta propulsiva ideale come si vede è lungi dall’essersi esaurita. Insomma, da parte di chi scrive non si culla alcuna pretesa di poter interloquire da “pari a pari” con un intellettuale di fama e di prestigio internazionali. Premetto alla Lettera alcune considerazioni sulla Risposta di Žižek che in larga parte riprendono i temi esposti nella prima. Mi scuso quindi con il lettore per le ripetizioni.
***
1. Sulla Risposta di Žižek alla Lettera di Badiou. Scrive Žižek a Badiou alludendo agli esiti disastrosi dello stalinismo e del maoismo: «La nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi». Chi scrive ha mosso politicamente i suoi primi passi sul terreno arato e fertilizzato dai vinti, ossia da quei comunisti che già negli anni Venti del secolo scorso incominciarono a denunciare la battuta d’arresto, ancora vivo Lenin, e poi l’involuzione fino alla piena e totale sconfitta del Grande Azzardo chiamato Rivoluzione d’Ottobre. Parlo di Bordiga, di Gorter, di Pannekoek, di Korsch, di Trotsky e di pochissimi altri ancora. Le loro lezioni della controrivoluzione, non sempre concordi tra loro su tutti gli aspetti della questione e naturalmente in una mia personale ricezione, hanno costituito il mio punto di partenza, la prospettiva dalla quale non solo ho iniziato a interpretare la storia del movimento operaio internazionale del passato e del presente, ma ho anche approcciato gli scritti marxiani.
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Il debito pubblico dell’eurozona (e soprattutto dell’Italia) va ristrutturato
Ecco perché
di Thomas Fazi
Oggi in Europa, in ambito mainstream, esistono fondamentalmente due approcci al problema del debito pubblico, perlomeno in Europa: quello rigorista e quello pseudo-keynesiano (vedremo poi perché “pseudo”). Il primo – che dal 2010 in poi ha monopolizzato il discorso pubblico europeo e fornito il necessario sostegno teorico, ideologico e mediatico al “regime di austerità” – afferma che uno stato è come una famiglia o un’impresa: quando si accumulano troppi debiti, l’unico modo per ridurli è tagliare le spese. In sostanza, considerando che il rapporto debito/Pil è costituito da un numeratore (debito) e un denominatore (Pil), l’approccio rigorista interviene sul numeratore, aumentando l’avanzo primario dello stato (l’eccedenza delle entrate rispetto alle uscite, escludendo gli interessi sul debito) con l’obiettivo di liberare risorse da destinare al servizio del debito. Ovviamente ci sono solo due modi per ottenere un maggiore avanzo primario: o si taglia la spesa pubblica o si aumentano le tasse. Il problema di questo approccio (a prescindere dalle implicazioni sociali) è che aumentando l’avanzo primario si riduce il Pil, a causa del cosiddetto moltiplicatore fiscale, e dunque il rapporto debito/Pil aumenta. Il motivo è che un paese che registra un avanzo primario sta di fatto levando risorse all’economia reale per destinarle ai creditori, nazionali ed esteri.
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La trappola del Fiscal compact
di Thomas Fazi
Per mezzo dell’invenzione del bilancio strutturale, il Fiscal compact prima, il six pack e il two pack poi, hanno eliminato definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Condannando così l’Europa all’austerità permanente
Si parla tanto del Fiscal Compact ma pochi sanno come funziona veramente. E non solo in Italia. Nei corridoi di Bruxelles la voce che gira è che il testo completo del patto “l’hanno letto in 10 e capito in 3”. Quanto c'è di vero, dunque, su quello che si sente in giro?
Tanto per cominciare, c’è da dire che il Fiscal Compact di nuovo introduce molto poco. Il testo poggia in buona parte sul Trattato di Maastricht (1991) e sul patto di stabilità e crescita (1999) – le tavole su cui sono incise le sacre regole di bilancio dell’Ue –, e poi riprende e integra un insieme di disposizioni proposte dalla Commissione nel periodo 2010-11 e per la maggior parte già adottate dal Consiglio e dal Parlamento europeo, come il Patto per l’euro e in particolare il six-pack e il two-pack.
Com’è noto, il Trattato di Maastricht – successivamente rafforzato dal Patto di stabilità e crescita – si componeva di due “regole d’oro”:
a. Il divieto per gli stati membri di avere un deficit pubblico superiore al 3% del Pil. Questo limite risultava l’unico soggetto a sanzioni in caso di mancato rispetto: la Procedura per deficit eccessivo (Pde) obbligava i paesi “in difetto” a intraprendere una politica di restrizione fiscale e a rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla Commissione e al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare una sanzione.
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Perchè gli Stati Uniti distruggono il loro sistema scolastico
di Chris Hedges
Una nazione che distrugge il proprio sistema educativo, degrada la sua informazione pubblica, sbudella le proprie librerie pubbliche e trasforma le proprie frequenze in veicoli di svago ripetitivo a buon mercato, diventa cieca, sorda e muta. Apprezza i punteggi nei test più del pensiero critico e dell’istruzione. Celebra l’addestramento meccanico al lavoro e la singola, amorale abilità nel far soldi. Sforna prodotti umani rachitici, privi della capacità e del vocabolario per contrastare gli assiomi e le strutture dello stato delle imprese. Li incanala in un sistema castale di gestori di droni e di sistemi. Trasforma uno stato democratico in un sistema feudale di padroni e servi delle imprese.
Gli insegnanti, con i loro sindacati sotto attacco, stanno diventando altrettanto sostituibili che i dipendenti a paga minima di Burger King. Disprezziamo gli insegnanti veri – quelli con la capacità di ispirare i bambini a pensare, quelli che aiutano i giovani a scoprire i propri doni e potenziali – e li sostituiamo con istruttori che insegnano in funzione di test stupidi e standardizzati. Questi istruttori obbediscono. Insegnano ai bambini a obbedire. E questo è il punto. Il programma ‘Nessun Bambino Lasciato Indietro’, sul modello del “Miracolo Texano”, è una truffa. Non ha funzionato meglio del nostro sistema finanziario deregolamentato. Ma quando si esclude il dibattito, queste idee morte si autoperpetuano.
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Una storia impossibile: Gli Autonomi I, II e III. Aspettando il IV volume...
di Marcello Tarì
E parlavano di lui, scrivevano di lui / lo facevano più bamba che bambino / e parlavano di lui, scrivevano di lui / sì ma lui rimane sempre clandestino.
Gianfranco Manfredi, Dagli Appennini alle bande
Vi è un trito luogo comune delle scienze storico-antropologiche in cui si sostiene che solo una volta messe a distanza (in senso temporale o spaziale, innanzitutto, ma anche soggettivamente) si è in grado di indagare le vicende umane, ovvero riproducendole in quanto altro da noi. La Storia, indubbiamente, è uno dei più potenti dispositivi di produzione dell'alterità, nella sua capacità di separare ciò che è stato da ciò che è proiettandolo in un altro tempo, in un altro spazio, in un altro mondo. Ma l'alterità è una finzione, un trucco epistemologico tramite il quale lo storico e l'antropologo occidentale hanno provato nella modernità a collocare nello spazio dei saperi dominanti ciò che era ai margini dello sviluppo, ai bordi della norma, fuori dalla governabilità. In realtà non c'è mai nessun altro così come non vi è identità, se non in quanto produzioni di una epistemologia che nel moderno è stata quella del capitale armato. Tutte le lotte e i conflitti che hanno attraversato la modernità sono stati in questo senso altrettanti squarci inferti a quel sistema dei saperi; almeno questo lo si è capito, da una parte e dall'altra. Gli Autonomi e le Autonome hanno rivendicato la possibilità di non essere più l'Altro del/nel potere, l'Altro del/nel capitale, l'Altro della/nella società, bensì una densa, presente, possibilità di vita dislocata nel fuori di ogni dentro. Comunismo ora, qui: adesso o mai più. E se proprio un Altro doveva esserci, ebbene che lo fosse il padrone.
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Le cause economiche dietro il massacro di Gaza
di Maurizio Brignoli
Di seguito un commento de l'Autore di "Jihad e imperialismo", LAD edizioni, sulla mattanza in corso a Gaza da un punto di vista poco approfondito: l'economico
Gli eventi come le guerre, notoria continuazione della politica di stato con altri mezzi, hanno alle spalle una struttura economica. Proviamo ad allargare quindi la prospettiva e a cercare motivazioni allo sterminio dei palestinesi che vadano al di là della rappresaglia scatenata dopo la sanguinosa operazione Tempesta di al-Aqsa del 7 ottobre.
I piani di pulizia etnica, trasferimento forzato di popolazione e, in ultima istanza, genocidio non corrispondono solo al razzismo intrinseco alla dottrina sionista, che nasce con tutte le peculiarità di un’ideologia colonialistica, e alla necessità di stroncare la lotta di liberazione nazionale palestinese, ma corrispondono anche agli interessi del capitale occidentale (israeliano e non solo). Questi piani si inseriscono a loro volta nel contesto più ampio dello scontro interimperialistico che vede gli Usa (e il subordinato europeo) sempre più in difficoltà sul piano strutturale nei confronti dei concorrenti cinesi. Difficoltà che porta l’imperialismo occidentale a cercare di utilizzare l’unica arma efficace che ha ancora a disposizione e uno dei pochi settori produttivi in cui mantiene una predominanza: la guerra.
Guerra per i giacimenti e piani di deportazione
Che peso hanno gas e petrolio nel contesto del massacro in atto? Nel momento in cui l’Ue ha ridotto fortemente gli approvvigionamenti dalla Russia, il Medioriente e il Nord Africa (dove si trovano il 57% delle riserve mondiali di petrolio e il 41% di quelle di gas) hanno visto aumentare le richieste per le loro risorse energetiche.
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Elezioni britanniche: qual è la lezione?
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
Sulla base dei sondaggi pre-elettorali, molti avevano previsto un collasso del bipartitismo britannico. Ma i Conservatori sono riusciti all'ultimo a conquistare la maggioranza assoluta in parlamento, anche se si tratta di una maggioranza risicata. Questo risultato non smentisce quelli che parlano di una crisi del sistema politico britannico. Anzi. Le elezioni confermano che le dinamiche democratiche nel Regno Unito, come accade un po’ ovunque in Europa, stanno andando incontro a profonde e rapide trasformazioni, che potrebbero addirittura essere accelerate dalla vittoria dei Conservatori e, soprattutto, dalla catastrofica sconfitta dei Laburisti.
In parte, i Conservatori hanno vinto perché, con l'aiuto cruciale dell'impero mediatico di Murdoch, sono riusciti a spaventare e quindi a mobilitare il loro elettorato tradizionale. Nonostante molti di questi elettori abbiano dubbi sui tagli ai servizi pubblici portati avanti da Cameron e colleghi nell'ultima legislatura, il voto ai Conservatori l'hanno dato comunque, così da evitare la "minaccia" di un governo laburista. A dispetto del suo timido riformismo, Miliband, il leader Labour che si è ora dimesso, è stato dipinto durante la campagna elettorale come un pericoloso sovversivo, ed è passata l'idea che una probabile coalizione tra Labour e partito indipendentista scozzese (SNP) avrebbe potuto avere conseguenze disastrose, anche sul piano economico, per le classe media inglese. Le politiche di austerità degli ultimi cinque anni sono state inoltre falsamente presentate come la causa della ripresa economica (che rimane debole), mentre molti autorevoli analisti sostengono da tempo che l’austerità ha rallentato e soffocato la ripresa.
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La rivoluzione teorica incompiuta
Introduzione al libro "Denaro senza Valore"
di Robert Kurz
Le teorie grandi ed influenti sfociano sempre in scuole di interpretazione e percorrono una storia che va ben al di là delle loro origini, mediando con la storia della società. La teoria di Marx è ormai sedimentata in termini storici; più di 125 anni dopo la morte del suo creatore, ha provato da molto tempo di essere una delle più poderose di tutta la storia del pensiero - seppure non sia disponibile come un "insieme artistico", come Marx avrebbe voluto richiedere alla sua esposizione, ma più come un immenso tronco, costituito da masse di testo a volte eterogenee. Per la sua forma, questa teoria non può essere integrata nelle schematizzazioni del mondo accademico; essa affronta, in termini espitemici, anche la comprensione del cosiddetto metodo scientifico. Marx ha operato una cesura paradigmatica che dev'essere definita come una "rivoluzione teorica", e a ragione. Ma è proprio questo carattere delle riflessioni di Marx che ha dato e continua a dar luogo a dubbi e a conflitti, a causa del fatto che mai nessun "assalto" paradigmatico è stato consumato in una sola volta. Allo stesso modo, la rivoluzione teorica di Marx è, necessariamente, una rivoluzione incompiuta e, in questa misura, non è solo incompleta ma anche passibile, e carente, di interpretazione.
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Crescita a rilento e svendite di Stato
"Caro Renzi, avevano ragione i gufi"
Luca Sappino intervista Emiliano Brancaccio
Il governo deve fare i conti con una crescita più lenta del previsto. «Renzi, come Monti, ha sbagliato i calcoli». E le privatizzazioni sono state un flop. Ma una manovra correttiva «sarebbe una follia». Intervista all'economista Emiliano Brancaccio
Il Fondo Monetario Internazionale e Bankitalia dimezzano la crescita che era stata prevista dal governo. «Non cadiamo mica tutti dal pero», rivendica all'Espresso l'economista Emiliano Brancaccio: «Avevamo più volte avvisato che le stime di Renzi, così come quelle di Letta, Monti e della stessa Commissione europea, erano irresponsabilmente ottimistiche». «Quando si attuano politiche di restrizione dei bilanci pubblici», nota Brancaccio, «il risultato prevedibile è che la domanda di beni e servizi cali e il Pil venga ulteriormente depresso». «Previsto» era pure il flop delle privatizzazioni, con Fincantieri che ha fruttato la metà di quanto annunciato dal governo.
Servirà dunque una manovra correttiva?
«Sarebbe una follia», dice ancora Brancaccio, perché «una manovra che taglia ancora la spesa pubblica e insiste con la pressione fiscale finirebbe per aggravare gli effetti depressivi della precedente».
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Il mondo scopre Piketty, l'economista superstar
di Marc Tracy
Thomas Piketty non è solo il brillante economista che riscrive la storia della disuguaglianza degli ultimi secoli; ma un fantastico narratore, ora di estrema attualità
Mercoledì sera, nell'ascensore che portava giù all'auditorium da 400 posti presso la City University del New York Graduate Center, un uomo di mezza età che sembrava un economista si vantava così con una coppia di persone di mezza età che sembravano economisti: «io in realtà ho visto per la prima volta Pikettygià nel 2001. Un posticino al Village. Suonava "Capitalismo Patrimoniale", versione acustica, e Emmanuel Saez è uscito per il bis».
Sto scherzando, naturalmente. Ma non si può evitare di essere presi alla sprovvista nel vedere quale accoglienza da rockstar abbia ricevuto Thomas Piketty, un economista francese, da quando il suo libro "Il Capitale nel XXI secolo " è stato pubblicato nella sua traduzione in inglese il mese scorso.
Se il mondo dei giornali e riviste di centro-sinistra fosse una stanza, non si potrebbero far oscillare le braccia lì dentro senza urtare una recensione del libro di Piketty (quasi certamente positiva).
Paul Krugman sulla New York Review of Books e nella sua rubrica.
Matthew Yglesias su Vox ("Puoi darmi il ragionamento di Piketty in quattro punti chiave?").
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Olli Rehn, ovvero: il dogma con le altrui terga
Mauro Poggi
Olli Rehn, vice presidente della Commissione europea (un altro dei tecnocrati democraticamente NON eletti), si è assunto il compito di rappresentare l’epitome vivente dell’ottuso euro-dogma dell’austerità, quello che sembra esser dettato, più che da esigenze economiche, da imperativi morali.
Nonostante le conclamate evidenze di questi anni, ultima in ordine di tempo l’Italia proconsolare di Mario Monti, egli è ancora convinto che la politica del rigore sia l’unica possibile (ovviamente a carico delle classi disagiate – una categoria in piena crescita; perché – diciamocelo una buona volta – i poveri, se sono tali, devono pure aver fatto qualcosa per meritarselo).
Il signor Rehn è così compreso nella difesa dei principi ispiratori dell’euro-dogma che si stizzisce se analisi da fonti non sospette, ancorché tardive (per esempio tale Olivier Blanchard, capo economico del Fondo Monetario Internazionale) raccomanderebbero una maggior cautela nella loro applicazione.
E tanto se ne adonta da scrivere un’accorata lettera a chi di dovere, per far notare sostanzialmente che il dibattito in materia è irrilevante (probabilmente perché sono irrilevanti i soggetti chiamati a pagarne lo scotto) e anzi dannoso, in quanto “erode la fiducia che abbiamo meticolosamente costruito in questi anni durante numerose riunioni notturne” (sic).
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Privatizzazioni: il sabba della finanza
di Giovanna Cracco
Particolarmente attivo su tutti i palcoscenici mediatici e finanziari, Mario Monti non si è fatto mancare la visita alla sede di Piazza Affari a Milano, il 20 febbraio scorso. Nell’occasione ha buttato lì un’affermazione apparentemente banale, dato lo scenario nel quale veniva pronunciata, in realtà estremamente significativa. La Borsa italiana “è una ricchezza del nostro sistema” ha detto Monti, ma “il numero delle società quotate è inferiore rispetto alle altre realtà europee”, e questo è un problema poiché “una Borsa con un numero più alto di imprese quotate può dare un contributo fondamentale per la crescita”.
Le questioni implicite nella dichiarazione – per i non addetti al lavoro, ché per gli specialisti sono al contrario estremamente esplicite – sono due. Innanzitutto, il legame tra la crescita economica di un Paese e il suo mercato finanziario. Dall’avvento del neoliberismo, da ormai un ventennio, quindi, i tassi economici di uno Stato sono solo marginalmente la rappresentazione della sua economia reale: è il settore finanziario a spingere il Pil, con tutto quel che ne consegue in termini negativi per l’occupazione lavorativa. Il “Rapporto sul mondo del lavoro 2011” pubblicato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) – un’organizzazione Onu, e dunque non certo ideologicamente a sinistra – evidenzia che “fra il 2000 e il 2009, la quota degli utili sul Pil è aumentata nell’83% dei Paesi analizzati. Tuttavia, durante lo stesso periodo, gli investimenti produttivi sono stagnanti a livello globale. Nei Paesi avanzati, la crescita degli utili delle imprese, escluse le società finanziarie, si è tradotta in un aumento sostanziale dei dividendi distribuiti (dal 29% degli utili nel 2000 al 36% nel 2009) e degli investimenti finanziari (dal 81,2% del Pil nel 1995 al 132,2% nel 2007)”. Le imprese dunque staccano dividendi agli azionisti anziché reinvestire i profitti nella produzione, e contemporaneamente spostano gli investimenti dal processo produttivo al mercato finanziario – viene dunque da chiedersi se i profitti derivino dalla produzione o dai giochi in Borsa.
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La crisi che verrà
di Joseph Halevi
Il mondo alla vigilia di un anno di crisi. Quale ripresa, se tutti vogliono il rilancio della domanda ma nessuno - nè in Usa nè in Europa - è disposto ad aumentare i salari? Regina dello scacchiere, la Cina, ancora zona di produzione a basso costo
Quali prospettive si aprono per il sistema eonomico negli Stati Uniti e nei paesi ed aree più significative? Tutti vogliono il rilancio della domanda, stavolta reale, nessuno però contempla l'abbandono della deflazione salariale.
A Washington il Senato aveva bocciato i sussidi alle aziende automobilistiche Usa perchè queste si erano accordate con i sindacati per la riduzione dei salari ai livelli delle filiali delle aziende giapponesi e coreane a partire dal 2011 invece che dal 2009! La valanga di soldi catapultata, di fatto gratuitamente, verso le banche dal 2007 non ha rilanciato il credito. I soldi finiscono in titoli garantiti e in conti presso le banche centrali. Il perchè è ovvio: la bolla creditizia è scoppiata per via della sparizione dei valori dei titoli collaterali usati sia come garanzia che come indici di lucro futuro. Dietro di essi vi erano famiglie e persone insolventi, senza redditi sufficienti. Alla base di tale insufficienza sta la deflazione salariale.
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In morte di Rossana Rossanda
di Michele Castaldo
Una comunista nebulosa
In occasione della scomparsa di Rossana Rossanda si è scatenato, da un lato, la solita, infame canea anticomunista della destra e del bieco centrismo, dall’altro, nella sinistra si ripete il solito balletto dei distinguo, della nostalgia e dei personalismi. Ora, il fanatismo nei confronti del personaggio, sia di rancoroso astio che di religiosa adesione, non forniscono elementi razionali di riflessione e non aiutano perciò a capire la storia della vita sociale in particolare di un secolo straordinario qual è stato il ‘900, con l’espansione della rivoluzione industriale e con essa il passaggio da una economia prevalentemente agricola a una pienamente industriale, quindi al suffragio universale e alla democrazia parlamentare ecc. ecc., per un verso, e con l’irruenza di classi oppresse e sfruttate come i contadini poveri e gli operai, per l’altro verso.
In queste note tralasciamo gli aspetti della personalità della Rossanda e cerchiamo di riassumere all’osso la questione:
cosa ha rappresentato il personaggio Rossanda, insieme ad altri militanti comunisti che sono rimasti in qualche modo fedeli a quella impostazione originaria? La contraddizione di fondo, cioè che il comunismo innanzitutto non è un modello prefabbricato una volta per tutte di rapporti sociali da applicare nelle varie circostanze, ma un processo, un movimento storico anticapitalistico, dunque non era, non è tuttora e non può essere un movimento positivista politico che si può sviluppare intorno a una classe per abbattere la classe al potere. Perché? Ma perché il potere capitalistico viene sì sussunto da una classe, che solo per comodità lessicale chiamiamo borghesia, ma si sviluppa nel più complesso dei rapporti degli uomini con i mezzi di produzione, obbedendo a meccanismi e leggi del tutto impersonali.
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Subprime e Covid 19. Le due grandi crisi dell'economia del debito
di Giordano Sivini
Parte prima
L’asimmetria delle crisi e la centralità dei rendimenti
Nella grande recessione iniziata nel 2007 e in quella attuale del grande lockdown, il mondo si confronta con crisi di portata globale, paradossalmente originate da eventi localizzati.
La grande recessione è stata originata dalla insolvibilità dei mutuatari subprime, che aveva bloccato il flusso di rendimenti dei titoli basati sulla cartolarizzazione dei mutui. Questi titoli costituivano appena il tre per cento del totale delle attività delle banche di Wall Street[1], una nicchia particolarmente speculativa entro una enorme massa costruita sui debiti delle famiglie.
Il grande lockdown è stato invece innescato dal blocco delle attività produttive del mercato di Wuhan, un’area della Cina dove sono localizzati i fornitori di 51 mila imprese attive nel mondo. Si è estesa alle aree contigue, ed ha interrotto le catene mondiali di approvvigionamento just-in-time ben prima che gli Stati, uno dopo l’altro, chiudessero le proprie attività non essenziali. Le imprese e le famiglie si sono trovate in difficoltà nel far fronte alla massa dei debiti in scadenza.
Entrambe le crisi hanno colpito i rendimenti. Nell’economia del debito i rendimenti esprimono la vitalità del rapporto di credito sul quale si erge il sistema dei titoli finanziari. “I titoli - chiarisce un esperto di finanza - sono radicati in uno spazio giuridicamente coerente di diritti, doveri o convenzioni. Esistono dunque in quanto originati dalla realtà che li contiene. Perciò, all’estremo, tutti gli elementi della realtà possono essere introdotti nello spazio teorico e pratico della finanza. L’attività sottostante è ovunque la stessa: quella di uno stock autonomo di ricchezza che mira a generare un flusso di rendimenti” [2].
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