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machina

Verso una nuova rivoluzione culturale in Cina?

di Andrew Ross

0e99dc 4ed50dc2620f4f1fa49eb182d3598ab5mv2Proponiamo qui un testo scritto da Andrew Ross nel 2009 e pubblicato per la prima volta in italiano nel volume «La testa del drago. Lavoro cognitivo ed economia della conoscenza in Cina», curato da Gigi Roggero (ombre corte, 2010). Basandosi su un’importante ricerca sul campo, Ross analizza la transizione da un’economia «Made in China», imperniata sullo sfruttamento intensivo di lavoro, a un’economia «Created in China», basata sull’innovazione e con il controllo di brevetti e diritti di proprietà intellettuale da parte delle imprese locali. Secondo l’autore, è questa la direzione intrapresa dalla rapidissima crescita della Repubblica popolare cinese, pienamente sostenuta dall’autorità di uno Stato potente e centralizzato, saldamente impegnato in una politica definita di tecno-nazionalismo. In questo processo Ross incentra la propria attenzione sui «colletti grigi» (incorporanti elementi del lavoro sia dei colletti bianchi sia dei colletti blu), ossia i lavoratori delle cosiddette «industrie creative».

* * * *

I paesi di recente industrializzazione nel Sud globale non se la sono certo presa con calma nello sperimentare un modello di politica delle industrie creative. Alcuni di quelli più avanzati stanno velocemente registrando una perdita di occupazione nel settore manifatturiero rispetto alla Cina continentale e al sud-est asiatico, e necessitano di servizi ad alto skill per creare valore aggiunto alle proprie economie. Tuttavia, è talmente impetuosa la crescita economica della Repubblica popolare cinese che i policymaker del Partito comunista cinese (Pcc) sono già competitivi nella gara della creatività, sperando di guidare l’economia nazionale verso i frutti più appetibili della proprietà intellettuale al top della catena del valore, massimizzando il proprio monopolio nel vasto mercato linguistico cinese, sia all’interno sia all’estero.

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lacausadellecose

La forza della democrazia ovvero la democrazia della forza

di Michele Castaldo

Afghanistan 1 2

Ad ogni crisi tra l’Occidente e gli altri paesi ricorre la necessità di ribadire che si tratta di uno scontro tra la democrazia e la non democrazia di paesi governati da autocrati o dittatori. Che si tratti di paesi islamici, o di varianti di sinistra oppure di destra, la prima qualifica che viene ad essi affibbiata è che sono regimi dittatoriali. Ovviamente il personaggio che dirige in quel momento il paese, come ad esempio Putin in Russia, viene descritto sempre con appellativi poco lusinghieri. Insomma si parte – in quanto occidentali – dalla forza della democrazia per combattere quei paesi e popoli per l’incapacità di essere democratici, che finiscono per seguire l’uomo simbolo del momento che ad essi si sovrapporrebbe quasi come un corpo estraneo. Se poi si scopre che un personaggio come Putin viene eletto più volte con una maggioranza del 70/75/80%, beh, si dice a quel punto, il popolo non capisce, e avanti così.

Cerchiamo di sfatare il tabù: l’Occidente parte da un presupposto non del tutto sbagliato, perché butta sul piatto della bilancia una serie di argomenti non peregrini come la libertà individuale, i diritti umani, ma innanzitutto un patrimonio storico ricco di successi in tutti i campi, dunque non solo la potenza, quella distruttiva, quella criminale dei bombardamenti, delle guerre, delle occupazioni, del dominio di popoli, del razzismo, dello sfruttamento brutale di intere aree geografiche ecc., ma porta in dote, per così dire, anche altro, cioè l’idea della democrazia e innanzitutto un modello di sviluppo che si è affermato ormai in tutto il mondo; e chi frappone ad esso ostacoli non fa altro che ritardare in molti paesi lo stesso livello di benessere economico, dei costumi, della cultura e così via, come da noi in Occidente. Altrimenti detto il ritornello che viene ripetuto come un mantra ogni volta è: temono la forza della nostra democrazia, del nostro sviluppo, dei nostri consumi e dunque dei nostri valori.

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pierluigifagan

Dal punto di vista di Zelensky

di Pierluigi Fagan

279158424 10226016964266258 6380611717044792911 nAvrete notato forse che Zelensky ha un preciso entourage e sono tutti mediamente giovani. Molti hanno studiato o lavorato in Gran Bretagna, qualcuno in America. Alcuni di loro zampillano dalle nostre reti televisive o in video on line e sono tutti dotati di capacità argomentativa non banale, sono molto decisi e cosa più importante, sono coordinati nel senso che sembrano usciti da una riunione di briefing in cui hanno condiviso tutti una unica linea. Si può ipotizzare esista una sorta di Zelensky & Partners, un gruppo coeso ed omogeneo di persone che condividono una precisa strategia politica per tenere il potere in Ucraina al fine di …?

Isoliamo questo soggetto collettivo, dimentichiamoci chi ha intorno come partner interessato (USA, UK, una parte dell’Europa orientale e dei vertici della burocrazia euro-unionista, l’oligarca Kolomoyskyi) concentriamoci sulle sue proprie ipotetiche intenzioni. Come forse saprete, questo gruppo è diventato un partito poco prima finisse la terza stagione della serie televisiva che vedeva Zelensky come protagonista. Si è presentato alle elezioni del 2019 e secondo quanto scriveva the Guardian tre anni fa quando ancora non eravamo arruolati: … con “poche informazioni sulle sue politiche o sui piani per la presidenza, basandosi su video virali, concerti di cabaret e battute al posto della tradizionale campagna elettorale” ottenendo un insperato 30%.

La geografia del voto di questo primo turno, lo collocava al “centro”, sia geografico che politico. Ad ovest i nazionalismi di Poroshenko-Timoshenko, ad est i filo-russi confezionati in partiti apparentemente più di “sinistra”. Un gruppo di giovani ben intenzionati, con tecniche di marketing e comunicazione mediatica molto “occidentali” ha incarnato una possibile speranza. Sappiamo che questa speranza stava scemando prima del 24 febbraio, gli indici di gradimento della Zelensky e Partners (Z&P) erano in discesa e la rielezione fra due anni era data come improbabile.

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theunconditional

Francia. La somma non fa il totale

di Roberto Pecchioli

Emmanuel Polanco 10267 200601 lexpress bombe retardement couv emmanuelpolanco finalIl primo turno delle elezioni presidenziali francesi evoca una battuta di Totò: è la somma che fa il totale. Nella fattispecie, in negativo; la somma non fa il totale, poiché si è manifestata una volta di più un’anomalia delle sedicenti democrazie liberali: la maggioranza dei cittadini ha votato contro il sistema, ma il sistema ha vinto. Il 24 aprile questa verità sarà confermata dal ballottaggio tra Emmanuel Macron, il presidente in carica, giovin signore della scuderia Rothschild prestato alla politica e Marine Le Pen, la sua avversaria, definita esponente dell’estrema destra.

Lo schema è lo stesso delle precedenti elezioni e uguale sarà il risultato, benché sia certo che lo scarto di voti tra l’uomo dell’oligarchia e la donna dell’opposizione sarà assai più contenuto rispetto al 2017, quando funzionò alla perfezione lo schema classico della politica – non solo francese-, ovvero la conventio ad excludendum, il cordone sanitario contro la Le Pen, già sperimentato nei confronti del padre Jean Marie.

Uno sguardo ai numeri: Macron ha ottenuto poco più del 27 per cento, la Le Pen ha superato il 23, distanziando di circa mezzo milione di voti il terzo arrivato, Jean Luc Mélenchon, campione della sinistra sociale. Devastante la sconfitta delle sigle politiche che dominano la scena transalpina da decenni: un umiliante 4,7 per cento per la rappresentante della destra moderata, Valérie Pecresse, addirittura l’1,7 per Anne Hidalgo, socialista, sindaco in carica di Parigi. Modestissimi gli esiti degli ecologisti e del candidato comunista, fedele alleato dei socialisti. Lusinghiero, per contro, il risultato del candidato rurale conservatore, Jean Lassalle, che, senza mezzi, ha superato il 3 per cento dei voti. Contraddittorio il 7 per cento raccolto dal polemista di estrema destra Eric Zemmour, ebreo di origine nordafricana, che ha mobilitato un notevole seguito giovanile ed imposto non pochi temi della campagna.

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maggiofil

Resistenza ucraina?

di Valerio Romitelli

battaglione.azov .ucraina.20211.1400x840In occasione del 25 aprile quest’anno un dibattito si impone. Il tema è ovviamente riguarda i possibili accostamenti tra quello che è accaduto in Italia tra il 1943 e il 1945 e quello che sta accadendo in Ucraina a seguito dell’abominevole aggressione russa.

L’Anpi dichiarandosi contro l’invio di armi da parte del governo italiano a sostegno di quello di Zelensky ha già escluso ogni facile similitudine tra i combattenti schierati con quest’ultimo e i partigiani italiani operanti negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale. Ciò nonostante la tentazione di una simile associazione continua a riproporsi a livello dell’opinione dominante nel nostro paese trovando anche sostegni  non scontati.

La prima domanda che sarebbe il caso di porsi è come mai ciò avvenga in occasione di questo conflitto, mentre niente di simile negli ultimi vent’anni è avvenuto in riferimento ad altre guerre di invasione e ad altre conseguenti reazioni armate da parte degli invasi, come accaduto ad esempio in Iraq, Libia, Siria, Yemen. Anzi sarebbe da ricordare anche lo scandalo che travolse chi, a proposito della strage di Nassiriya di soldati italiani, tentò di giustificarla come atto di resistenza da parte del popolo iracheno invaso. Se ne dovrebbe concludere che la resistenza legittima sia solo quella condotta in nome di “valori occidentali”? In ogni caso, così certo non era per i partigiani italiani tra i quali primeggiava il riferimento alla vittoria sovietica sui nazisti a Stalingrado.

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giubberosse

La situazione militare in Ucraina

di Jacques Baud per The Postil

Il problema non è tanto sapere chi ha ragione in questo conflitto, ma mettere in discussione il modo in cui i nostri leader prendono le loro decisioni

Petr Krivonogov Capitulation. 1946Parte prima: La strada per la guerra

Per anni, dal Mali all’Afghanistan, ho lavorato per la pace e ho rischiando la vita. Non si tratta quindi di giustificare la guerra, ma di capire cosa ci ha portato ad essa. Noto che gli “esperti” che a turno in televisione analizzano la situazione sulla base di informazioni dubbie, il più delle volte ipotesi elevate a fatti, non riescono a farci capire cosa sta succedendo. È così che si crea il panico.

Il problema non è tanto sapere chi ha ragione in questo conflitto, ma mettere in discussione il modo in cui i nostri leader prendono le loro decisioni.

Proviamo ad esaminare le radici del conflitto. Si comincia con quelli che da otto anni parlano di “separatisti” o “indipendentisti” del Donbass. Già questo non è vero. I referendum condotti dalle due sedicenti Repubbliche di Donetsk e Lugansk nel maggio 2014 non sono stati referendum per l’“indipendenza” (независимость), come hanno sostenuto alcuni giornalisti senza scrupoli , ma referendum per l’ “autodeterminazione” o l’ “autonomia” (самостоятельность ). Il termine “pro-russo” suggerisce che la Russia fosse una parte del conflitto, il che non era il caso, il termine “di lingua russa” sarebbe stato più onesto. Inoltre, questi referendum sono stati indetti contro il parere di Vladimir Putin.

In realtà, queste Repubbliche non cercavano di separarsi dall’Ucraina, ma di avere uno status di autonomia, garantendo loro l’uso della lingua russa come lingua ufficiale. Però il primo atto legislativo del nuovo governo risultante dal rovesciamento del presidente Yanukovich, è stata l’abolizione, il 23 febbraio 2014, della legge Kivalov-Kolesnichenko del 2012 che aveva reso il russo una lingua ufficiale.

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ilponte

L’imbroglio ucraino

di Lanfranco Binni

img 1lkvftLo spettacolo osceno della guerra, la ripugnante pornografia dei suoi disastri (sì, ancora Goya) che tutto distruggono, senza tempo né luogo né ragioni, travolgendo vittime e carnefici in folli danze macabre arcaiche e postmoderne, impone con la forza delle sue immagini spietate e strazianti l’orgia totalitaria dell’autodistruzione, costi quello che costi, in un tripudio di armi e propaganda. L’imbroglio ucraino, inganno, groviglio e cortocircuito di strategie economiche e militari esplicite e occulte, sempre comunque iscritte in processi storici determinati dalla logica elementare delle cause e degli effetti, riserva oggi ai territori metropolitani dell’Europa quei trattamenti che il colonialismo e l’imperialismo occidentali hanno riservato e continuano a riservare ai popoli del mondo, il cibo del potere.

In Europa non è la prima volta. La dissoluzione dell’Unione sovietica accelerò la corsa delle potenze occidentali del sedicente “mondo libero” all’accaparramento di quell’immenso mercato, di quegli immensi giacimenti di materie prime, finalmente disponibili: la fiera dell’Est, un potenziale bengodi del libero mercato occidentale e locale; liquidato il riformismo di Gorbaciov con il colpo di stato di Eltsin, si sviluppò a tappe forzate (affari, corruzione, formazione di una nuova classe dirigente oligarchica) la definitiva disgregazione dello Stato sovietico e la sua riorganizzazione su un modello di satrapia inserita nelle strategie finanziarie occidentali.

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machina

Guerra: tutti perdenti

di Wolfgang Streeck

Proponiamo la traduzione di un articolo di Wolfgang Streeck, comparso originariamente sulla rivista «El Salto» (https://www.elsaltodiario.com/carta-desde-europa/wolfgang-streeck-guerra-ucrania-todos-perdedores), in cui sono analizzate le motivazioni geopolitiche che si annidano dietro all’attuale Guerra in Ucraina. Streeck affronta il punto di vista russo, europeo e americano, non risparmiando ampie critiche alle ingerenze degli Stati Uniti nelle vicende europee e al ruolo di subordinazione assunto dall’Ue in un conflitto che sembra a tutti gli effetti configurarsi come una propaggine della Guerra fredda.

0e99dc 71bcee5d77604abfaadd126c159861ecmv2I motivi per cui il sistema statale europeo è precipitato nella barbarie della guerra – per la prima volta dal bombardamento di Belgrado da parte della Nato nel 1999 – non possono essere spiegati ricorrendo a una «psicologia semplificata». Perché la Russia e l’«Occidente» hanno dato il via a un implacabile guerra sull’orlo dell’abisso, con il rischio per entrambi di cadere, infine, nel precipizio?

Ora più che mai, mentre viviamo queste tremende settimane, comprendiamo quello che Gramsci intendeva con l’espressione «interregno»: una situazione «in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere», una situazione in cui «si verificano i fenomeni morbosi più svariati», come paesi potenti che consegnano il loro futuro alle incertezze di un campo di battaglia offuscato dalla nebbia della guerra.

Nessuno sa, al momento in cui scriviamo, come finirà la guerra in Ucraina, e con quale spargimento di sangue. Quello su cui possiamo provare a ragionare, a questo punto, è su quali possano essere state le ragioni – e gli individui hanno sempre delle ragioni per agire, per quanto possano irritare gli altri – dietro alla politica di pressione psicologica (brinkmanship) esercitata senza compromessi sia dagli Stati Uniti che dalla Russia. Questo è il terrificante scenario: l’escalation del confronto, la rapida diminuzione delle possibilità per entrambe le parti di salvare la faccia a meno di una vittoria totale, che termina con l’assalto omicida della Russia a un paese vicino con cui un tempo condivideva uno Stato comune.

In questo conflitto troviamo notevoli parallelismi, così come le ovvie asimmetrie, tra Russia e Stati Uniti, due imperi che da lungo tempo si trovano a dover fare i conti con la strisciante decadenza del loro ordine interno e della loro posizione internazionale e a tentare di mettere un argine a questo processo.

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laboratorio

Ma insomma, il socialismo esiste o non esiste?

di Alberto Gabriele

Cina per AlbertoRiceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo sulla natura sociale ed economica della Cina, come contributo all’approfondimento di un tema fondamentale nell’analisi del mondo contemporaneo. Non necessariamente la redazione della rivista concorda in toto con i contenuti dell’articolo. L’autore, Alberto Gabriele, ha pubblicato sull’argomento due importanti volumi: Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China – Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War (2020) e, quest’anno, in collaborazione con Elias Jabbour, Socialist Economic Development in the XXIth century Challenges – One Century after the Bolshevik Revolution.

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Nella sinistra occidentale, e perfino tra le sue componenti più radicali e anticapitalistiche, tende a prevalere l’idea che il comunismo/socialismo (uso questo termine orribile per sottolineare come sia comune la confusione tra due categorie che dovrebbero invece essere tenute ben distinte) sarebbe una gran bella cosa, ma purtroppo non c’è da nessuna parte, probabilmente non c’è stato mai da nessuna parte, e tantomeno ci si sta avvicinando da nessuna parte. A mio parere, questa convinzione pecca di semplicismo e di essenzialismo, e ha anche un impatto fortemente demoralizzante. Tuttavia, tale opinione è spesso data per scontata anche da intellettuali di grande valore e di indubbia onestà intellettuale. Ad esempio, Alessandro Barbero ha affermato recentemente:

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lantidiplomatico

La scelta imposta dalla propaganda non è una vera scelta

di Carlo Freccero

Riceviamo da Carlo Freccero e pubblichiamo il suo intervento di oggi al Seminario della Commissione Dupre

133012301 10ad7046 ee5e 49fd a498 7a5d502f4919Oggi siamo qui per parlare di propaganda e censura. Queste pratiche di repressione del dissenso mirano allo stesso risultato, ma funzionano a partire da presuposti diversi. La censura colpisce chi si discosta dal mainstream. La propaganda invece crea il mainstream. Nel passato, nei media, prevaleva la censura. Tutta la storia della Televisione è una storia di censura. Ma, in qualche modo, la censura indica ancora vitalità e dissenso. Si censura chi conserva un pensiero autonomo, mentre la propaganda ha il compito di azzerare del tutto questo pensiero autonomo e divergente.

Il covid prima e la guerra oggi, hanno alterato la comunicazione trasformandola di fatto in propaganda. E in un messaggio propagandistico non c'è niente da censurare.

Il passaggio dalla censura alla propaganda corrisponde ad una presa di parola del potere in prima persona. Nel discorso del potere non deve essere censurato nulla.

Questo spiega il buonismo di oggi, la mancanza di violenza verbale, nei confronti politici e nei talk show televisivi.

Il potere si è reso conto che la censura fa scandalo e, contemporaneamente, può generare opposizione, mentre la propaganda è in grado di creare unanimità.

Questo seminario è dedicato alla propaganda di guerra.

Viene naturale unire la parola propaganda alla parola guerra, quasi si trattase di una forma di riflesso condizionato. Nell'immaginario meanstream la parola guerra è collegata al Nazismo, ed al maggior teorico della propaganda autoritaria: Goebbles.

Goebbles ha spiegato che la propaganda ha le sue radici nella paura. Ed in effetti la propaganda che è stata utilizzata in maniera massacrante dai governi negli ultimi due anni, è una propaganda basata sulla paura: paura della morte per covid, paura del nemico come minaccia alla libertà e democrazia.

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lantidiplomatico

La Russia sta perdendo la guerra dell'informazione?

di Laura Ruggeri - Strategic Culture

720x410c50huiyfrIl 10 marzo, quando il direttore della CIA Bill Burns si è rivolto al Senato degli Stati Uniti e ha dichiarato che "la Russia sta perdendo la guerra dell'informazione sull'Ucraina", ha ripetuto un'affermazione che era già stata amplificata dai media angloamericani dall'inizio delle operazioni militari russe in Ucraina. Sebbene la sua affermazione sia effettivamente vera, non ci dice perché e riflette principalmente la prospettiva dell'Occidente. Come al solito la realtà è molto più complicata.

L'abilità nella “guerra dell'informazione” degli Stati Uniti non ha eguali: quando si tratta di manipolare le percezioni, produrre una realtà alternativa e conseguentemente armare le menti del pubblico, gli Stati Uniti non hanno rivali. Anche la capacità, da parte degli USA, di dispiegare strumenti di potere non militari per rafforzare la propria egemonia e attaccare qualsiasi stato intenda metterla in discussione, è innegabile. Ed è proprio per questo che alla Russia non è rimasta altra scelta che quella dell'utilizzo dello strumento militare per difendere i propri interessi vitali e la propria sicurezza nazionale.

La guerra ibrida - e la guerra dell'informazione come parte integrante di essa - si è evoluta nella dottrina standard degli Stati Uniti e della NATO, ma non ha reso la forza militare ridondante, come dimostrano le guerre per procura. Con capacità di guerra ibrida più limitate, la Russia deve invece fare affidamento sul suo esercito per influenzare l'esito di uno scontro con l'Occidente che Mosca considera esistenziale. E quando la propria esistenza come nazione è a rischio, vincere o perdere la guerra dell'informazione nel metaverso occidentale diventa piuttosto irrilevante. Vincere a casa e assicurarsi che i propri partner e alleati comprendano la posizione e la logica dietro le proprie azioni ha, inevitabilmente, la precedenza.

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perunsocialismodelXXI

Si svuotino gli arsenali

di Piotr

Ospito volentieri questo nuovo intervento dell'amico Piotr sulla guerra in corso. Anche se, questa volta, non mi sento di condividere al 100% ciò che scrive

Tocca ancora a te Intendiamoci: non si può che provare empatia per il suo grido di dolore per l'idiozia criminale delle scelte dei governi europei, i quali si accodano supinamente al gioco mortale innescato da un'America disperatamente protesa a conservare il suo ruolo egemonico. Così come sono assolutamente d'accordo con la sua analisi delle cause di fondo - ricostruite a partire dalla lezione di Giovanni Arrighi - di quanto sta accadendo. Tuttavia, pur avendo a mia volta giocato più volte negli ultimi anni il ruolo di Cassandra nel prevedere la catastrofe imminente che (per chiunque fosse dotato di buon senso: non era necessario essere dei geni della geopolitica) era scritta nei fatti, e anzi proprio perché tutto ciò era razionalmente prevedibile, mi pare inutile appellarsi al buon senso (per non dire alla buona volontà!) dei responsabili per evitare il peggio. Piotr scrive che è sbagliato - ed economicista - attribuire tutto al keynesismo di guerra senza capire che una volta fabbricate le armi verranno anche usate. Il punto è che le due cose non sono in contraddizione: come ci ha insegnato Marx, la razionalità economica del capitale è intrisa di cupio dissolvi: quando è in crisi (e quanto più la crisi è grave) il capitale lotta per la sopravvivenza immediata costi quel che costi, il suo motto diventa dopo di me il diluvio o, se preferite, muoia Sansone con tutti i Filistei. Resta solo da sperare nell'unica fonte di razionalità che oggi il mondo abbia da offrire, che abita a Pechino, e che, in questa lotta mortale per sopravvivere, il capitalismo nella più folle incarnazione egemonica che abbia avuto nei suoi cinque secoli di vita - quella a stelle e strisce - commetta abbastanza errori per uscirne sconfitto. [Carlo Formenti]

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Svuotare gli arsenali, riempire i granai!”

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perunsocialismodelXXI

Tra “Vispa Teresa” e tragedia

di Piotr

092647402 c91cc6ca 96d7 457a ad8a 285bbd646ce7I dolori del parto di un'epoca nuova

Tutti i momenti di passaggio epocale sono stretti tra la tragedia e le sfide cognitive per cercare di capire i lineamenti della nuova epoca che sta nascendo tra i dolori del parto, che nell'odiosa e disgustosa storia di guerre del genere umano sembrano inevitabili.

Se si è consapevoli che la nottola di Minerva spicca il volo solo dopo che sono calate le tenebre, allora si sa che durante il crepuscolo al più si hanno intuizioni, non certezze razionali. Si hanno ciò che possiamo chiamare “fantasie realistiche”, che non a caso è un ossimoro.

“Tentava la vostra mano la tastiera”, diceva il poeta. E io faccio lo stesso, oltre non posso andare, anche per le mie limitatissime conoscenze e informazioni.

Però, se volete, in giro si trova facilmente chi invece sa tutto e sentenzia sicuro. In TV e sui media ne trovate esempi continui. Peccato che molto spesso sappiano esclusivamente ciò che gli è consentito dai vecchi paradigmi, che per altro già fornivano una visuale ristretta, così che è capitato che blasonati e riveriti esperti potessero incorrere in piccoli errori, come ad esempio preannunciare entusiasmanti sviluppi economici il giorno prima dello scoppio di una crisi devastante (e poi, una volta scoppiata, nemmeno capirne la portata) o pensare a un mondo unificato e pacificato il giorno prima dello scoppio della terza guerra mondiale. Una guerra che è già iniziata da un pezzo anche se qualcuno insiste a pensare o a voler far credere che quella in corso non sia parte di un confronto di portata storica non più rinviabile tra Russia e Stati Uniti, bensì una faccenda tra Russia e Ucraina o il personale delirio zarista di una persona al Cremlino disturbata mentalmente da amanti, figli illegittimi, complessi fisici - eh, la statura! - e traumi infantili (francamente di queste idiozie non se ne può più).

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contropiano2

“La Russia ha vinto la guerra, quello che resta è un lavoro di pulizia”

intervista a Larry C. Johnson

serbia3In un’intervista Larry C. Johnson, un ex ufficiale della CIA, sostiene che la Russia ha già vinto la guerra e che rimane solo il lavoro di pulizia. Johnson ha addestrato i commando delle operazioni speciali dell’esercito americano per 24 anni e poi ha lavorato nell’ufficio antiterrorismo del Dipartimento di Stato.

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Può spiegare perché pensa che la Russia stia vincendo la guerra in Ucraina?

Nelle prime 24 ore dell’operazione militare russa in Ucraina, tutte le capacità ucraine di intercettazione radar a terra sono state distrutte. Senza questi radar, la forza aerea ucraina ha perso la sua capacità di interdizione aria-aria. Per le tre settimane successive, la Russia ha stabilito una no-fly zone de facto sull’Ucraina.

Anche se ancora vulnerabile ai missili terra-aria [Manpad] forniti agli ucraini dagli Stati Uniti e dalla NATO, non vi è alcuna indicazione che la Russia abbia dovuto ridimensionare le sue operazioni aeree di combattimento.

Mi ha colpito anche l’arrivo della Russia a Kiev tre giorni dopo l’invasione. Ho ricordato che i nazisti hanno impiegato sette settimane per raggiungere Kiev durante l’operazione Barbarossa [1941] e altre sette settimane per sottomettere la città.

I nazisti avevano il vantaggio di non risparmiare nessuno sforzo per evitare vittime civili ed erano ansiosi di distruggere le infrastrutture essenziali. Tuttavia, molti cosiddetti esperti militari americani hanno affermato che la Russia era impantanata.

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noinonabbiamopatria

Ucraina: domande sull’Internazionalismo e la «comunità»

di Noi non abbiamo patria

baltimore columbus statueIn seguito ai due articoli di questo blog, La verità in tempo di guerra e La mobilitazione che non c’è e l’aspettativa internazionalista, alcuni fatti sporadici stanno accadendo nello stallo di un conflitto militare in atto (stallo che incuba maggiori incertezze che motivi di tranquillità) all’interno di una fiume nazionalista che rischia di tracimare gli argini: gruppi di anarchici occupano nel cuore della City Londinese una proprietà di un ricco miliardario russo con l’obiettivo dimostrativo di come applicare sanzioni ed espropri dal basso che il governo Britannico farebbe solo a parole; il sostegno e la simpatia generalizzata nei confronti per questo gesto “clamoroso”; un gruppo di lavoratori dello scalo aeroportuale di Pisa che incrociano le braccia perché non intendono caricare le armi che l’Italia sta inviando al governo Ucraino, ma sono disponibili al carico e scarico solo dei beni di prima necessità; il clamore occidentale circa gli arresti in Russia di chiunque manifesti pubblicamente il suo dissenso alla guerra in Ucraina; il tentativo da parte degli Stati Uniti di orientare il conflitto verso una trattativa cui Zelensky dovrebbe cedere secondo i suggerimenti di Israele (perché dal perdurare del conflitto tutti i contendenti, primi fra tutti gli Stati Uniti, alla lunga hanno da perdere parecchio). Negli articoli precedenti questo blog ha insistito che la guerra in Ucraina scoppia per motivi ingovernabili della crisi della accumulazione mondiale, sicuramente assecondati dalle maggiori potenze occidentali, che sfuggono di mano dal controllo di chi appunto ci si è messo in scia.