Cento anni di Pci. Riflessioni aperte
di Roberto Fineschi
La crisi e l’ingloriosa fine del Pci sono dipese da trasformazioni storiche epocali del modo di produzione capitalistico; mancarono allora e mancano oggi risposte intellettuali e pratiche all’altezza delle sfide da affrontare. Individuare le semplificazioni teoriche su cui quella politica si basava è un primo necessario passo per cercare risposte alternative
Se ha ancora senso continuare a dirsi comunisti, cercare di trasformare il mondo per renderlo più giusto, libero, vivibile, le ragioni di una lotta non si possono limitare alla difesa della propria sopravvivenza o a un astratto senso di umanità o al disgusto per il sopruso. A questo fine sembra che oggi sia di nuovo necessario fare il fatidico passaggio dall’utopia alla scienza, o meglio raffinare la nostra scienza. A dispetto di quanto possa pensare il senso comune, infatti, anche la scienza si muove, cambia, sia soggettivamente che oggettivamente: non solo si capisce sempre di più e in forme rinnovate, ma anche l’oggetto della conoscenza si modifica, ha una storia e con lui la nostra comprensione di esso. Anche il modo di produzione capitalistico ha una sua storicità e quindi la comprensione che ne abbiamo deve adeguarsi alle sue fasi. Questo non significa che quanto si credeva prima fosse sbagliato, ma che diventa parte di sviluppi più complessi. Il mancato adeguamento è stata, credo, una delle concause della crisi profonda del marxismo e dei partiti che a esso si ispiravano. Il Pci non ha fatto eccezione.
Che cos’era diventato il marxismo-leninismo del Pci? Procedendo in maniera estremamente schematica e inevitabilmente approssimativa, si possono forse individuare alcuni punti chiave:
1. la classe operaia come soggetto antagonista; l’idea della tendenziale polarizzazione sociale in operai contro capitalisti;